Recensione di Gabriella Sica, “Poesie famigliari” e “Lacrime delle cose”

Author di Massimo Pamio

Dell’unione cosmica di innocenza e pacata sacralità

Tra le vestali della poesia, spicca il maestoso splendore numinoso di Gabriella Sica che, nell’attraversare le ultime stagioni della letteratura, ha assistito, da una parte probabilmente con sgomento e, al contrario, con rigore e acume critico, ai tellurici fenomeni mediante i quali è stato sconvolto, dal Futurismo, dall’Ermetismo prima e da altri movimenti poi, il profilo geomorfico della poesia italiana, assai mutata nell’aspetto, allontanata dalle misure di un’ideale e serena profondità, spogliata dai paradigmi di un equilibrio logico, da una base sonora e musicale ordita sul rispetto della tradizione, franta nel nucleo pulsante e originario.

La poetessa romana esce indenne da quel sisma, perché da sempre rivolta all’ascolto del richiamo nel quotidiano del mito, della cui suggestione e del cui amore si nutre, trasformandoli poi in programma di stile e di scrittura fin dagli anni Settanta, quando fonda la rivista «Prato pagano»: il “prato pagano” è «il luogo che traccia i confini tra villaggi e coloro che vi abitano e si ascoltano sospesi, fermi su quella frattura che prende forma e colore, proprio come una ferita, un taglio rosso» (cfr. «Prato pagano», 1/1979, p. 5), denominazione che allude a una rivalutazione del tema classico della Natura.

Voce unica e orgogliosa, pur nell’evidente declinazione di una sintassi adeguata alle mutevolezze e alle capricciosità della lingua moderna, Gabriella Sica traduce e coniuga, e convoca, dall’alto della sua esperienza di fedeltà al ventre del mondo antico, il luogo d’una costante ostinata ricerca della compostezza e della semplicità, sibillina interprete della fine del Novecento in grado di rovesciare una maschera di tragica dolcezza sulla materia grezza di un’epoca densa di orrori e conflitti.

Come può esprimersi una poetessa che vive assordata dalle sirene della modernità, pur se intimamente fedele alle seduzioni dell’armonia con venature antiche? Imperturbabilmente pacata, sebbene piena di ferite e di cicatrici, si muove e si appresta a ricalcare i passi di Virgilio, nel terreno dell’infanzia e delle impressioni prime, per interrogare e fondare la propria idea di “familiarità”.

È il percorso che Gabriella Sica adempie nelle raccolte Poesie familiari (Roma, Fazi, 2001) e Le lacrime delle cose (Bergamo, Moretti&Vitali, 2009), rastremando le colonne portanti delle sonorità e dei parametri frastici in un’interpretazione molto frusta e intima, proponendo veri e propri echi – e forse anche la parodia o la palinodia – di un’antropologia sonora del mondo antico, del quale rivive il fascino intramontabile: la sua è una voce che viene da altrove, forse per una sensibilità che poco ha da spartire con il materialismo dei nostri giorni, e che si esercita nel canto, nel ripetersi del ritmo secondo misure e accenti ben definiti, che mescolano ritmi anapestici con quelli giambici, alla ricerca dei próta onómata, ovvero di quelle parole prime che imitano l’essenza fonica dell’oggetto e in cui si sono sostanziati forse i sentimenti della “familiarità”:

Si sente un coro di voci famigliare,
echeggiare il confiteor e il santificetur
di uomini curvi a pregare e zappare,
il gemere e il frullare del cielo.

Si sente un verso quando s’abbuia
e il sole bevuto come Dio e mangiato,
frusciare serpi e l’erba dell’alleluia:
di frasca in frasca un fru fru interminato.

All’imitazione del canto degli uccelli dediti, i poeti sedimentano nelle rime la sfida alla pura canorità, invidiosi di quelle irraggiungibili altezze musicali, impregnati di quell’abbandono che è necessario per liberarsi dalla fisicità in pura espressione dell’emozione, per generare quell’intima vibrazione con cui ci si disperde, privi d’ogni riferimento, nel mondo. C’è un che di pascoliano, nell’avvicinarsi al fanciullino della poesia ovvero all’immaginazione ingenua e timida che appare nella coscienza di chi finge di essere felice e invece s’avventura solitario nelle plaghe del verbo naturale, nella spontaneità che si accosta alla vita (composta né di bene né di male, non foriera di divisioni o di dissidi, fratture, votata non a contrapporre ma a cucire, l’uno dopo l’altro, i legami del nulla a quelli della propria sostanza, senza che la tela opponga resistenza: perché non c’è, e si crea attorno a quei bordi). Il poeta finge un sogno invece di morire, finge bellezza invece di ammettere che dentro di sé assiste a una devastazione in cui si cancellano l’uno dopo l’altro i segni dell’infanzia: canti di uccelli, ombre di alberi, sussurri di ruscelli, gorgoglii di sorgenti. Nulla di tutto questo è rimasto, forse solo la parola che li nomina, zanzottianamente.

Nello sprigionarsi delle note si possono rintracciare la serenità, la tenerezza, un’immortalità ineunte:

Nella gabbietta bianca non sanno
d’avere ali per levarsi da terra,
due foglie di indivia e poi stanno,
cantando quieti nella loro serra,
come fiori e colori al naturale.
Quel quid è il dolce canto metrico,
quid con le strofe e il canto immortale.

Laddove si incontrano la natura e il sentimento del perdono per se stessi e per il mondo, lì insistono i piccoli sussulti del cuore, preziosi, umili e silenziosi, nei quali sentieri la poesia si pasce, quieta, serena, come altrove assume le fattezze intime di un’oca per significare il mistero di ciò che è aduso a racchiudersi per conoscersi, in un intimo vibrare che l’uomo, nonostante la sua attenzione, nonostante i suoi sforzi, appena percepisce e, se è poeta, maldestramente cerca di trattenere nei propri versi. Nell’oca la simbologia di ciò che è placido e perfezione dell’immacolato diviene allegoria del Naturale, della Semplicità Indifferente della Vita e della Morte, della pacatezza e della serenità, ovvero di ciò che è Quieta Purezza Innocente e Profana Santità nella Tenerezza:

Mi incanta guardare le bianche oche
sparse come le nuvole in cielo
azzuffarsi nei giochi dell’amore,
dormire nel calore delle piume.

Mi placo mentre dolcemente vanno
placide nell’acqua trasparente,
ingenue sul dolore della vita.

E mi strazia la grazia di un’oca
che lenta e fiera s’allontana sola.

(da Vicolo del Bologna, 1992)

Disarmante e straziante, luogo della semplicità, il discorso poetico si infervora di parole affettuose, che evocano carezze e sostengono l’animo, amiche e confidenti, disegnando un’atmosfera di incanto della rammemorazione, nel dispiegato filo della narrazione, che quindi si scioglie: a volte in un delicato colloquio con gli assenti, talaltra in una meditazione sacra e minima, in un mormorio promanato dalle cose, dal tempo, dal destino, motteggiato dalle parole – labili tramiti tra le ombre, tra il nulla e l’apparenza del vero. La poesia è anche consolazione, intima e suadente, e musica sussurrata alle orecchie, affinché l’incantesimo non venga irrimediabilmente spezzato o profanato, che, se sceglie di soffermarsi sul dolore, è per cantare il dolore dell’assenza di se stessi; la poesia è dunque una rammemorazione della propria presenza, è uno scrivere in vita da che non sarà più, e forse non ancora è stata: ma che cos’è, ordunque, vita? Un’approssimazione alla purezza dell’illusione, una scintilla candida nel puro accadere, l’avvertire, da parte della creatura poetica, di una radicale disappartenenza non solo al mondo, ma soprattutto al proprio essere. Proprio per questo, come la poetessa stessa afferma, la poesia è «un rammendo del mondo», una «messa in forma del frammentato, o almeno il tentativo di trovare sempre un’armonia, per quanto possibile» (cfr. http://www.insulaeuropea.eu/2020/03/05/ilaria-dinale-intervista-gabriella-sica/). Una mancanza di mondo: «Noi della comunità degl’inermi e dei dispersi/ noi prodighi per sempre e per caso salvi/ noi si resisteva presaghi alla mancanza di mondo» (Poeti amici a Roma, in Le lacrime delle cose). Una mancanza di essere al mondo è tutto quello che la vera, sincera poesia pretestuosamente e allegoricamente nasconde, nella sua stessa fragilità, un’inadeguatezza, un’insufficienza di cui la stessa ignoranza si fa carico, per ammettere che gli uomini appartengono come atomi a un lembo dell’universo, sia pure a un soffio labile del vento. Al poeta non resta che l’autoinganno, in “versi delicati”, in “tocchi di dita”: «I poeti non muoiono mai proprio mai e ritornano sempre/ mi vengono a trovare a casa e non è cambiato niente» (ibidem). Proprio così, perché la poetessa, incapace di concepire l’illusione della vita e dell’io, preferisce restare nell’ignoranza della poesia, per intessere un dialogo muto con i morti, salvo ammettere, nel mesto colloquio con Pasolini: «ma finché eri vivo mancava di senso la tua vita, ogni vita» (ibidem).

La scelta di restare al di qua, nel terreno pagano, trova la sua più alta espressione nella poesia dell’intima fratellanza: con gli uomini (i poeti amici) e con la natura. Il sentimento che accomuna i vicini, i sodali, anche se incapaci di comunicare, rende liberi dai lacci terrestri, la sororanza con le oche diventa il tramite per il vero, forse per l’Illuminazione (ciò che è goffo, forse, non dimostra una verità immediata?): «Eppure c’è del vero a vedervi», scrive Gabriella Sica rivolgendosi alle oche amiche, a cui dà del tu: «tu sei fedele al padrone t’affezioni/ se lui t’abbandona sbuffi con gemiti acuti/ se la forza della semplicità va diritta al cuore». Le epifanie del vero che la poetessa coglie riferiscono di un’unione della Terra con il Cielo a cui già qui è possibile, in piccolissimo e goffo modo, appartenere.

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Adriano Prosperi, “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”

Author di Simone Scognamiglio

La questione centrale sulla quale Adriano Prosperi s’interroga nel suo ultimo saggio, edito nel gennaio 2021 da Einaudi per la collana «Vele», è pressappoco la seguente: può l’uomo contemporaneo considerarsi libero dal peso del passato?

La ricerca che da tale quesito prende il via prende strade tortuose e lunghissime, che s’intrecciano con varie e complesse riflessioni socio-politiche, filosofiche e letterarie. Fortunatamente, il discorso equilibrato e mai divagatorio del docente esperto non eccede mai nelle digressioni; pur offrendo molti spunti di approfondimento, tiene bene insieme i tasselli, giungendo a offrire una risposta convincente e un presagio per il futuro. Continua a leggere Recensione di Adriano Prosperi, “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Sandro Abruzzese, “Mezzogiorno Padano” e “CasaperCasa”

Author di Giuseppe Ferrara

Riparare con l’oro delle parole

Come diceva Cesare Pavese, «è bene rifarsi a Omero perché Omero è la tragedia, il viaggio, il ritorno. È l’inquietudine, la sconfitta, è l’attesa ma anche la possibilità della speranza realizzata». Letta attentamente, la frase di Pavese, in fondo, dice che Omero è la vita, la realtà; e che Omero è anche la letteratura, l’immaginazione. Continua a leggere Recensione di Sandro Abruzzese, “Mezzogiorno Padano” e “CasaperCasa”

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Anna Wiener, “La valle oscura”

Author di Nicola Curti

Qualche mese fa, vagando in una caffè letterario di San Lorenzo, il mio sguardo è stato catturato dalla copertina bianca di un libro pubblicato da Adelphi, dal cui centro mi sorrideva freddamente il volto dell’androide Sophia, fotografato nei laboratori di Hanson Robotics a Hong Kong da Mattia Belsamini. Sono bastate la veste grafica vincente e la garanzia offerta dal catalogo Adelphi per convincermi all’acquisto. Continua a leggere Recensione di Anna Wiener, “La valle oscura”

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Lily Brooks-Dalton, “La distanza tra le stelle”

Author di Chiara Esposito

A leggere il titolo del primo romanzo della scrittrice statunitense Lily Brooks Dalton, di primo impatto, può sembrare di ritrovarsi davanti all’ennesimo romanzetto d’amore propinatoci nelle librerie e in tv, in cui due giovani innamorati separati da circostanze avverse superano ostacoli e affrontano sfide incredibili per potersi ricongiungere. Andando oltre i pregiudizi, si scopre, invece, che si tratta di un romanzo di fantascienza, incentrato sulle stelle citate appunto nel titolo o, meglio, sul loro universo, lo spazio. L’ignoto a noi sconosciuto che si dipana oltre i confini della Terra non è, però, il protagonista ma il palcoscenico della doppia storia presentata dall’autrice, quella dell’astronomo Augustine, che guarda al cielo come a un sogno impossibile da raggiungere, e quella dell’astronauta Sully, che in quello stesso cielo tanto agognato dall’uomo è rimasta ingabbiata. Continua a leggere Recensione di Lily Brooks-Dalton, “La distanza tra le stelle”

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Angela Guidotti, “Manzoni teatrale. Le tragedie di Manzoni tra dibattito europeo e fortuna italiana”

Author di Massimo Colella

Il percorso delineato da Angela Guidotti nel suo volume dedicato al teatro manzoniano è un percorso di attento riavvicinamento alla specificità del rapporto di Alessandro Manzoni con la questione del tragico nel doppio versante della theorésis e della práxis. Un percorso di rilettura della genesi delle tragedie manzoniane avvertita e indagata in un ambito ben più vasto di quello di un’interiorità in cammino “conversionale”, quell’ambito che già il sottotitolo ben individua e identifica nel «dibattito europeo» (alla «fortuna italiana» è dedicata, invece, l’ultima sezione del contributo). Un percorso di cui, guardando al panorama bibliografico pregresso, si avvertiva tutta la necessità e l’urgenza per una ridefinizione, finalmente scevra di pregiudizi anche ad esempio relativi al genere, dei caratteri dei testi tragici manzoniani. Continua a leggere Recensione di Angela Guidotti, “Manzoni teatrale. Le tragedie di Manzoni tra dibattito europeo e fortuna italiana”

(fasc. 38, 28 maggio 2021)

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Recensione di Benedetto Croce, “Storie e leggende napoletane”, a cura di Andrea Manganaro

Author di Maria Panetta

Il settimo volume degli Scritti di storia letteraria e politica dell’Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce ha visto la luce nel 2019, per gli eleganti tipi della casa napoletana Bibliopolis, fondata nel 1976 da Francesco Del Franco, che non possono che ricordare con particolare stima e affetto tutti coloro che hanno avuto il piacere di conoscerlo e frequentarlo, e la cui opera è oggi egregiamente portata avanti dalla figlia Emilia, che ne ha ereditato la competenza, la raffinatezza e il fiuto editoriale.

I criteri dell’Edizione Nazionale delle Opere di Croce, affidata alla Casa nel 1985, vennero fissati nel 1991 dal Consiglio Scientifico dell’Edizione stessa, presieduto dal filologo e appassionato conoscitore dell’opera del Croce Mario Scotti. Continua a leggere Recensione di Benedetto Croce, “Storie e leggende napoletane”, a cura di Andrea Manganaro

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Recensione di Michele Masneri, “Steve Jobs non abita più qui”

Author di Alessandra Valletti

Nel 2016 Donald Trump vince le elezioni per la presidenza degli Stati Uniti d’America. Il popolo americano è spaccato, ma i democratici hanno una propria zona sicura: la California. A Los Angeles, la candidata Hilary Clinton prende due milioni e mezzo di voti, contro i settecentomila di Donald Trump; a San Francisco, invece, si parla di trecentoquarantacinquemila contro una minoranza di soli trentasettemila voti. Michele Masneri comincia da qua. Il primo racconto del suo libro si apre su una California sconsolata, dove gli abitanti sembrano cercare di capire come poter andare avanti. Continua a leggere Recensione di Michele Masneri, “Steve Jobs non abita più qui”

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)

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Recensione di Matteo Righetto, “I prati dopo di noi”

Author di Mattia Viglione

La storia raccontata da Matteo Righetto in I prati dopo di noi è quella di due viaggi: quello di Bruno, un bambinone «alto come un ontano» cresciuto un po’ troppo, senza mai fermarsi e che «pareva sognare sempre a occhi aperti», e quello di Johannes, un vecchietto che, assieme al suo mulo, al carretto e a una damiera, si dirige di villaggio in villaggio portando con sé una bara, chissà per chi. Le storie si congiungeranno con quella di Marlene, o Leni come vuole essere chiamata, una solitaria bambina muta, trovata a vagabondare senza meta da Bruno, scappata dalla nonna e, prima ancora, abbandonata in un monastero dalla madre. Continua a leggere Recensione di Matteo Righetto, “I prati dopo di noi”

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)

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Recensione di Honoré de Balzac, “Wann-Chlore. Jane la pallida”

Author di Massimo Scotti

Forse, per giudicare adeguatamente, oggettivamente un romanzo, bisognerebbe prima della lettura ignorarne l’autore, l’anno di composizione, perfino il titolo – chi lo diceva? Credo Franco Brioschi, troppo presto scomparso.

Comunque aveva ragione: se non sapessimo che Wann-Chlore appartiene al periodo giovanile di Honoré de Balzac, che non lo incluse nemmeno nel ciclo della Comédie humaine, potremmo considerarlo una delle sue opere più compiute, sicuramente una di quelle strutturate con più evidente decisione, e una delle più ricche, perché è un intreccio di tre romanzi, come spiega Alessandra Ginzburg nella sua esauriente, ottima introduzione. Continua a leggere Recensione di Honoré de Balzac, “Wann-Chlore. Jane la pallida”

(fasc. 37, 25 febbraio 2021)

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