Sul set di “Medea”. Pier Paolo Pasolini e Maria Callas

Author di Sebastiano Triulzi

 

Infine (ma quante altre
cose si potrebbero ancora dire!),
benché sembri assurdo, per un simile affetto,
si potrebbe anche dare la vita. Anzi, io credo
che questo affetto altro non sia che un pretesto
per sapere di avere una possibilità – l’unica –
di disfarsi senza dolore di se stessi.

(Pier Paolo Pasolini, Un affetto e la vita).

Sprofondare nel mito è una mostra più sul levare che sul mettere. L’impostazione è modesta, circoscritta, la scenografia minimale: non ci sono vestiti di scena, non ci sono memorie personali, non c’è spazio per sceneggiature, video, oggetti, cartoline, feticci vari. Compaiono solo 120 foto, 120 straordinari fotogrammi di Mario Tursi scattati durante la lavorazione, le riprese, le pause del film Medea, girato da Pasolini tra la primavera e l’estate del 1969. La maggior parte misura 24×30 o 12×18, quindi sono di formato piccolo o medio-piccolo: al computo vanno aggiunte un paio di polaroid, istantanee amatoriali di Nadia Stancioff, che fu segretaria e assistente della Callas. La scelta dei curatori è stata quella di incorniciarle in dei semplici passepartout, tutti della stessa grandezza, secondo il principio per cui vederle senza vetri significa non avere riflessi che possano infastidire, significa soprattutto stabilire un rapporto vero con il bianco e con il nero delle immagini.

Colui che guarda, qui, ha una visione a muro delle foto, dunque chiara, semplice, lineare: l’intento è che si viva appieno, senza intromissioni, il potenziale di suggestione intellettuale che ancora posseggono. Il 90% è in bianco e nero, il resto a colori; le due sezioni in cui è divisa l’esposizione seguono il ritmo delle pause e dell’azione cinematografica: da una parte compaiono le foto fuori dalla rappresentazione, dall’altra quelle dentro la rappresentazione. La separazione è anche spaziale, fisica: nella prima sala gli scatti attestano e raccontano la vita sul set durante gli intervalli delle riprese: la preparazione al trucco, l’allestimento della scena, i tempi morti e quelli della coralità ˗ tra gli attori, con lo staff -, le giornate a volte faticose sotto il sole, gli attimi di relax, i gesti di amicizia e conoscenza che di solito avvengono nei momenti di attesa; dunque, anche, soprattutto, fortissima è la testimonianza del rapporto tra Pasolini e Callas, il profondo affetto che nacque subito tra i due, con qualche mirata incursione nella tipologia di scatto dei paparazzi, che allora li immortalavano come se fossero marito e moglie, creando artificialmente l’atmosfera da nuova storia d’amore tra due grandi star, che risulta oggi un po’ buffa. Nella seconda e terza sala viene, invece, inscenato il mito di Medea, per cui siamo dentro il girato, dentro il film.

Poiché allora non si potevano estrarre fotogrammi dal negativo della pellicola, il fotografo di scena serviva anche per costruire un bagaglio di immagini, corrispettivo fotografico di quel che si stava girando, da utilizzare per la promozione pubblicitaria: per i cartelloni, per i comunicati stampa, per le inserzioni nelle riviste, e così via, e l’occhio di Tursi si dimostra attento a trovare gli spunti adatti a questo scopo. La geografia delle riprese è nota: le aree semi-desertificate, lunari, aspre dell’Anatolia centrale e le case sotterranee della Cappadocia, per l’antica Colchide; le Mura di Aleppo, in Siria, su cui s’affaccia la casa di Medea; la razionalità architettonica di Corinto, segno dell’universo post-socratico, post-platonico di Giasone, irrimediabilmente contrapposto al mondo di Medea, ricreata attorno a Piazza dei Miracoli, a Pisa; i canali e gli isolotti della laguna di Grado, che legittimano la presenza del sacro e le apparizioni del saggio Centauro, tra «silenzi», «odore di erba» e «acque dolci» in cui si è svolta l’infanzia di Giasone; l’adorata Torre di Chia, poi acquistata nel 1970, che fa invece da sfondo ai primitivi, trecenteschi in senso pittorico, primi piani di Maria Callas.

Oltre alle foto non c’è nulla in Sprofondare nel mito; fanno parte di un’altra storia i famosi disegni di Pasolini e il suo ritratto eseguito dalla Callas, un tempo appartenuti alla Stancioff come queste stesse fotografie di scena. La mostra poggia in effetti su quattro elementi fondamentali, non su tre: Medea, Pasolini, la camera oscura, e il collezionista: il quale riempie sempre un desiderio, o interviene in quell’angoscia che tutti noi abbiamo di svuotare una stanza, una cantina, uno spazio, cioè di liquidare oggetti e ricordi, dunque anche con la motivazione o l’urgenza o il bisogno di chiudere con il passato, con un certo passato: che si può avere ancora, si può trattenere ancora, ma come memoria, senza essere legati agli oggetti, all’idolatria e all’ingombro, tanto pratico quanto affettivo, degli oggetti. Stancioff ha conservato bene questa documentazione del set Callas/Medea e trasmesso altrettanto bene a un collezionista come Garrera, pieno di cure per la figura di Pasolini.

Donna vivace, ironica, capace di narrare, ha scritto un ritratto intimo della Callas che tutti gli appassionati conoscono, Callas Remembers: pubblicato nel 1987 in inglese, lingua che possiede di più, avendo vissuto, bulgara di origini, tra l’America e l’Italia, è poi uscito anche in Italia, nel 2007 per Giulio Perrone editore. Ripercorre velocemente la vita della cantante lirica nativa di New York, per poi soffermarsi soprattutto sugli anni passati con lei come assistente e segretaria, poi come amica e confidente: la incontra nel momento in cui fallisce il rapporto con Onassis e, invece di subire i dispetti e le capricciosità di una diva, come forse si immaginava, scopre una Callas piena di fragilità, di dolcezze, di sofferenza. Riporta lettere, dialoghi, confessioni, senza pretese musicologiche: si attiene ai fatti, senza dar prova, in verità, di un qualche particolare afflato per Pasolini, come se avesse sofferto l’estraneità al suo sguardo.

Si dice che la stessa Callas non fosse contenta del film: non capiva le inquadrature tutte sbracate di Pasolini, l’ossessione per la fissità dell’attore, la necessità dell’assenza di una sceneggiatura vera e propria, o perché Medea non parlasse quasi mai e tutte le riprese dovessero essere per forza silenziose: non stupisce che la Stancioff nel suo libro, così come tanti altri, non si mostrò particolarmente entusiasta del film; il cinema di Pasolini fa ancora questo effetto, basti pensare al giudizio che il regista Gabriele Muccino ne ha dato qualche anno fa, definendolo «amatoriale», «senza stile», e arrivando ad accusare il poeta di aver aperto le porte «a quello che era di fatto l’anti cinema in senso estetico e di racconto». Pasolini decide di accettare il suggerimento del produttore Franco Rossellini per il ruolo di Medea e sceglie la Callas nel momento in cui lei attraversa un periodo di crisi, sentimentale e professionale: è stata tradita da Aristotele Onassis, che addirittura ha sposato Jacqueline Kennedy, ma poi continuerà a chiamarla tutte le notti al telefono durante le riprese del film; la sua stessa voce è in crisi, tanto che tutti sostengono che abbia ormai perso la sua magia, e così la sua stessa carriera sembra volgere al termine. Paradossalmente, interpreta il ruolo di Medea, con Pasolini come regista, proprio quando la sua vita sembra coincidere tragicamente con quella dell’eroina greca: da maga e regina delle scene, divina e potente, è divenuta all’improvviso fragile e vulnerabile, senza più poteri e regalità e incantesimi.

È noto che Pasolini prediligeva attori non professionisti perché così poteva emergere meglio, sosteneva, il loro vissuto: tuttavia, dal momento che non era un neorealista, poteva avvalersi di grandi interpreti (da Totò a Orson Welles alla Magnani ecc.), e con alcuni ci furono anche scontri fortissimi, perché non amava le affettazioni e le sovrastrutture del recitare: solo lui poteva far rientrare nella storia un certo manierismo, che però era di tipo pittorico, non cinematografico. Quando girava un film, invece di pensare ad altri cineasti, pensava alle pitture primitive, trecentesche, ai maestri senesi, ai pittori dell’umanesimo, ma di un umanesimo che ritiene agricolo-contadino: pensava a Masaccio, Piero della Francesca, Giotto, Paolo Uccello, secondo le lezioni di Storia dell’Arte di Longhi: «Non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo al centro di ogni prospettiva», scrive in Diario al registratore.

Come regista staccava, faceva un’inquadratura fissa in cui l’attore poteva dire la propria battuta, poi staccava di nuovo, e tutto ricominciava sempre nello stesso modo, senza lunghi piani sequenza. L’intento iniziale è sempre stato di formare dei dipinti, ogni sequenza deveva possedere quella forza iconica: Pasolini ragiona sul film come pittura, come un ciclo d’affreschi, per cui lo spettatore sta davanti all’immagine cinematografica come se fosse davanti a un quadro. Il piano è fisso, la sua ricerca va verso la piena frontalità; non fa equilibrismi con la macchina da presa, la tiene fondamentalmente ferma, perché è come l’occhio che guarda un quadro, è come se vedessimo La Madonna del parto di Piero della Francesca: il quadro non si muove, la sua fissità è solenne, sacra, ogni manifestazione dell’immagine è una manifestazione ieratica. Ecco perché, quando la Callas recita nella Medea di Pasolini, non recita come lo intendiamo noi: ma lei, quindici anni prima, era già stata Medea su tutti i palcoscenici del mondo. Nell’ambito della musicologia è stata colei che ha restituito, fatto risorgere e interpretato la Medea di Cherubini in una maniera assolutamente inimitabile, e che non potrà mai più ritornare probabilmente, non almeno nel teatro d’opera. Riusciva a immedesimarvisi in un modo terrificante: dal ’53 al ’58 almeno, ha recuperato dall’oblio un’opera scomparsa dal repertorio, istituendo il passaggio dal recitato al declamato: per i fan, per i musicologi, la Callas è per antonomasia la voce di Medea, e soprattutto di un capolavoro assoluto come la Medea di Cherubini.

Questa mostra è, dunque, una mostra sulla Callas che incarna Medea attraverso l’occhio di Pasolini. Dalle fotografie non emerge chissà quale preparazione sulla scena, ma è come se si dovesse condensare tutto in un solo istante: Pasolini sa che il volto della Callas, nel momento in cui entra nel personaggio, ha una tale potenza iconica che non c’è bisogno che reciti, che dica le battute, basta stare lì pronti con la cinepresa e catturare una volta la vulnerabilità, un’altra la furia, un’altra ancora lo smarrimento. Nei fotogrammi di Medea, Pasolini individua l’elemento del dolore femminile, l’unione di ragazza, moglie e madre in un solo corpo, la fragilità e la difficile coesistenza di questi tre ruoli insieme. Le sequenze di Tursi, molto efficaci dal punto di vista iconologico, rendono tutto questo straordinariamente evidente; il racconto fotografico diventa un racconto nel profondo del mito, più straniante perché sottratto al flusso narrativo del film; la transustanziazione cui dà vita la recitazione della Callas, per cui la carne diventa divina, ci appare ancor più rappresentativa. La fotografia congela l’istante, lo sottrae al tempo, cristallizza l’espressione dell’azione scenica, e lo fa tanto più intensamente se è costruita attraverso l’attrazione per la figuratività, come accade nel cinema di Pasolini.

Su esplicita richiesta del regista, il fotografo di scena avrebbe dovuto cogliere il momento in cui, come accade a una Sibilla o a un medium, il volto della Callas avrebbe reincarnato il mito della donna; farsi insieme testimone della rinuncia, per amore, al suo sapere iniziatico, ai suoi poteri di maga; e poi saper imprigionare per sempre l’inveramento e la visione del terribile, la sua discesa negli Inferi dell’infanticidio, che ella compie non per vendetta, non per una degenerazione del femminino, ma, tragicamente, nella convinzione di salvare, sottraendo alla solitudine e al dolore, i figli: consolazione nella morte, consolazione della morte, appunto, declinata in un indicibile materno che però non è fuori dalla cronaca, dalla vita. Sprofondare nel mito, dunque: che per Pasolini significa affrontare due temi nevralgici della maternità, quello sessuale con Edipo (1967) e quello funebre con Medea.

Avrebbe dovuto completare la trilogia un’Orestiade africana, di cui ci restano solo gli Appunti, e in cui, ancora, la problematica è quella del rapporto tra società primitive, povere e plebee, e la società dei consumi e del progresso, «colta e borghese»; dunque, il passaggio dalla civiltà preistorica alla storia, tema chiave e centrale nella produzione complessiva di Pasolini. Se questa mostra tratta espressamente di Medea, il film riguarda più l’inevitabile conflittualità tra un sistema arcaico, religioso, in cui si fanno ancora dei sacrifici umani, e la civiltà laica, logica, razionale. Giasone è il nuovo Occidente assolutamente avulso dal sacro, che reputa il mondo di Medea un mondo di superstizioni e di irrazionalità: una volta tornato nel suo mondo, la trova assolutamente inadatta al suo contesto, perché espressione vivente di un universo preindustriale e analfabeta: un tempo sacerdotessa temuta e potente nella Colchide, nel momento in cui entra nella città dell’eroe greco diviene comicamente, tragicamente inadeguata. Ed è questa inadeguatezza a generare la sua rabbia; nella civiltà di Giasone, lei perde anzi tutto il suo prestigio, addirittura risulta, intollerabilmente anche agli occhi del suo innamorato, una donna pericolosa e pure inaffidabile, poco conveniente all’interno di un mondo filosoficamente razionale.

Il personaggio del Centauro, alter ego di Pasolini, sintetizza nel proprio ibridismo questo contrasto: all’inizio appare a Giasone bambino ancora nella sua doppia natura ferina e umana, come il simbolo della dimensione metafisica dell’infanzia; alla fine, divenuto adulto e pragmatico l’eroe, anche il Centauro si mostra uomo normale. Il mondo occidentale, il mondo del consumo e del progresso, è stato destituito di tutto il potere, di tutto l’incantesimo, della suggestione arcaica dei propri rituali e cerimoniali, delle proprie superstizioni, del rapporto panico con la natura. Il mondo di Giasone ha perso magia e l’eroe stesso non legge più con emozione e con elementi numinosi la realtà: il mare, il sangue, la donna, l’uomo, la nascita. Guarda al sodo, agli affari, a ricavarsi una buona posizione politica, e il Vello d’Oro non ha nulla di divino, vale solamente un bel po’ di soldi: Giasone è un uomo del neocapitalismo, che può casomai usufruire di Medea a livello folklorico, ma al di là di questo, nel proprio ambiente, nella propria casa, nel proprio milieu, accompagnarsi con lei sarebbe considerato ridicolo. Pasolini usa questo mito per analizzare ciò che è accaduto in Italia, per denunciare quello che definisce il genocidio culturale della civiltà contadina, per cui in realtà ci ritroviamo in un mondo mediocremente razionalistico, funzionale, semi-ateo, desacralizzato rispetto a una tradizione, quella dei nostri nonni o dei nostri bisnonni, immersi nel liquido amniotico del mito e della sacralità della vita.

La mostra riguarda le foto e cosa queste ci dicono oggi: non pretesto per parlare di Medea e Pasolini, ma fine. Più ancora del film, suggeriscono a chi le guarda un’interpretazione che a volte può sfuggire davanti allo schermo: la fotografia, in quanto ieratica e incarnando uno degli elementi dell’iconicità dei film di Pasolini, del suo stile, restituisce ancora meglio la lettura che il poeta fa dell’archetipo di Medea e dell’uccisione dei figli: «C’è un sentimento del popolo che riassume tutto», rispose a chi gli chiedeva conto, criticandolo, della sua Medea, mentre lui guardava al mondo dei barbari spazzato via, alla loro sconfitta mediante l’assimilazione, alla loro progressiva trasformazione in consumatori. L’integrazione coatta della straniera Medea, che poi ci e si punisce compiendo autodafé, resta per tutti noi una lezione, un monito: la visione magica, misterica, del resistere ha la pelle, il volto, i gesti di Medea, una strega che il dominio della ragione tipico dei tanti Giasone ˗ per i quali le cose servono a ottenere il potere ˗ teme fortemente.

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(fasc. 17, 25 ottobre 2017)