Il frammento sull’ “Indipendenza dell’Italia” e l’ultimo contributo manzoniano alla causa del Risorgimento

Author di Lorenzo Tinti

L’intorno cronologico e ideologico da cui scaturì il breve scritto Dell’Indipendenza dell’Italia (1872-1873) è lo stesso nel quale l’autore, ormai senatore del Regno, stava infruttuosamente tentando la revisione ultimativa del suo precedente raffronto storico-politico[1. Ci si riferisce al trattato La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, ideato e in parte steso tra il 1860 e l’anno seguente, e pubblicato in primis dal Bonghi nel sesto volume (non numerato) delle Opere inedite o rare, Milano, Fratelli Rechiedei, 1889.] tra La Rivoluzione francese del 1789, che, come sovvertimento radicale delle istituzioni, fin da subito gli era parsa destinata ai propri eccessi giacobini, e La Rivoluzione italiana del 1859, mossa invece, a suo modo di vedere, da ispirazione liberale e motivata dal fine superiore dell’unità nazionale. Anzi, non sarà capzioso evidenziare che, rimasto incompiuto il proponimento di comparazione espresso nella fase introduttiva di quelle Osservazioni e realizzata appena la prima parte dedicata agli eventi iniziali della Rivoluzione francese, l’intenzione di trattare altresì del moto risorgimentale italiano trovò attuazione nel nuovo e più contenuto progetto, nondimeno rimasto anch’esso incompiuto.

Il pretesto per questo tardivo saggio d’occasione, che tuttavia «si mutò subito in un serio impegno di dare espressione critica a riflessioni da lunga pezza maturate nell’animo»[2. F. Ghisalberti, Prefazione, in A. Manzoni, Dell’indipendenza dell’Italia. Con l’aggiunta di altre pagine storico-politiche pure inedite o poco note, Milano, Casa del Manzoni, 1947, p. VI.], fu offerto, com’è noto, dal Cavalier Pio Celestino Agodino, avvocato, «Consigliere Comunale di Torino e Delegato alla Direzione del Comitato incaricato della Raccolta di Autografi degli uomini illustri che, per vario modo, cooperarono virtualmente all’indipendenza nazionale»[3. Ivi, p. 41, lettera dell’11 febbraio 1873.]. Egli aveva appunto annunciato al Manzoni il «desiderio che in tale raccolta fosse inscritto anche il suo nome», dapprima sollecitando nell’anziano scrittore la «fiducia temeraria» «di spiegare a parte a parte il sentimento speciale (…) per codesta regione estrema della patria comune», quindi, preceduta da giustificazioni di convenienza («tale spiegazione sarebbe riuscita fastidiosamente prolissa») e da una sorta di minuta («il semplice assunto») della nuova intrapresa[4. Dalla succitata lettera dell’11 febbraio 1873 al Cavalier Agodino: «Ma, essendosi messo alla prova, e avveduto che una tale spiegazione sarebbe riuscita fastidiosamente prolissa per l’Onorevole Comitato a cui era diretta, si determina ad accennarne qui il semplice assunto, evidente, del resto, per chiunque voglia far la fatica di esaminare attentamente i fatti relativi. Ed è: Che la concordia nata nel 1849 tra il giovine Re di codesta estrema parte della patria comune, e il suo popolo ristretto d’allora, fu la prima cagione d’una tale indipendenza, poiché fu essa, e essa sola, che rese possibile anche il generoso e non mai abbastanza riconosciuto aiuto straniero; e essa sola che fece rimaner privi d’effetto gli sforzi opposti della Potenza allora prevalente in Italia, e fatalmente avversa a questa indipendenza».], la più modesta stesura dei quattro paragrafi di cui il sobrio documento definitivo si sostanzia. Né esso avrebbe conosciuto un iter editoriale meno travagliato, giacché, rimasto tra le carte del Manzoni alla sua morte e rintracciato da Dino Mantovani appena nel 1905, fu pubblicato la prima volta per intero – ma in maniera assai scorretta[5. Cfr. F. Ghisalberti, Analecta manzoniana, in «Annali manzoniani», IV (1943), p. 244: «Non solo l’editore si permette leggieri ritocchi ortografici, come troncamenti ed elisioni, ma pur troppo egli ha il gusto delle interpolazioni e delle sostituzioni che intaccano e alterano il dettato dell’originale, e si concede la più ampia libertà anche nel costituire il testo».] – da Domenico Bulferetti e Umberto Cosmo sul quotidiano «La Stampa» di Torino, in cinque puntate, dal 24 al 30 dicembre del 1924. Solo nel 1947, infine, Fausto Ghisalberti ne trasse un’edizione completa e filologicamente attendibile[6. A. Manzoni, Dell’indipendenza dell’Italia. Con l’aggiunta di altre pagine storico-politiche pure inedite o poco note, a cura di F. Ghisalberti, cit.].

L’esistenza stessa del manoscritto autografo, diciotto fogli fittamente vergati recto e verso e oggi conservati alla Braidense (Cartella XI, 7), è plausibile che fosse ignorata perfino dalla cerchia dei confidenti più vicini all’anziano scrittore, almeno a giudicare dall’elusività delle loro sporadiche testimonianze al riguardo. Non è chiaro, ad esempio, se si riferisse a esso il Bonghi, quando, nell’Introduzione alla Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, parlava di «altri fogli», quasi «disjecti membra poetae», contenenti «pensieri staccati, squarci di minute antecedenti»[7. R. Bonghi, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo di Alessandro Manzoni (frammento), Milano, Fratelli Rechiedei, 1889, p. V.], tali, comunque, da doversi semmai destinare alla parallela operazione editoriale delle Opere inedite o rare. Qualcosa in più è, invece, credibile che dovessero conoscere l’amico Giovan Battista Giorgini, al quale il Manzoni aveva chiesto parte della sua corrispondenza privata col D’Azeglio, «per il lavoro che sai» e che «va a passo di formicola»[8. Cfr. Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo e G. Gallavresi, voll. 3, vol. II, Milano, Hoepli, 1923, p. 231.], e soprattutto Benedetto Prina, il quale ricordava che l’anziano poeta «più tardi, richiesto dal comune di Torino di un suo autografo, vagheggiò per qualche tempo il disegno di scrivere appositamente un libro, in cui si ponesse in chiara luce quanta parte e quanto benefica abbia avuto il Piemonte nella costituzione della nuova Italia»[9. B. Prina, Alessandro Manzoni. Studio biografico e critico, Milano, Rechiedei, 1874, pp. 148-49.]. Per il resto, tanto Stefano Stampa quanto Cesare Cantù e, in seguito, tanto Luca Beltrami quanto Michele Scherillo dimostrarono di essere convinti che l’intenzione del Manzoni non fosse poi andata al di là della succitata lettera all’Agodino.

Nonostante la condizione frammentaria e il carattere evidentemente preparatorio, il saggio sull’Indipendenza dell’Italia sembra realizzare un modello storiografico alternativo rispetto ai lavori precedenti. Chi provenga da quel dispositivo di ragionate argomentazioni, di serrate sermocinationes e di vincolanti documentazioni che il Discorso sui longobardi e la Storia della colonna infame parevano aver fissato una volta per tutte, certo rimane spiazzato dall’esposizione allusiva e dal tono indeterminato dell’ultimo lavoro manzoniano, non tarda apologia o sermone encomiastico (come pure è stato detto), ma, se proprio, exemplum agiografico. Lo scritto, difatti, produce un congegno elogiativo assai misurato, il quale inscrive i meriti dei singoli – mai nominati, ma sistematicamente individuati attraverso la loro funzione pubblica – nel compiersi di una missione, a suo modo, trascendente («del Re che la Provvidenza aveva dato al Piemonte, e preparava all’Italia»). Il che, come vedremo, assolve inoltre al delicato compito di motivare, giustificandola, la condotta politica dell’autore, il quale aveva votato, nel 1864, il trasferimento della capitale da Torino a Firenze e, da ultimo (28 giugno 1872), aveva accolto l’offerta di cittadinanza onoraria del nuovo parlamento romano, scatenando l’animosità sia dei cattolici intransigenti sia dei repubblicani delusi.

Solo così si possono, se non altro, intendere le interpretazioni talvolta ideologicamente antitetiche del testo, proposte da lettori ora intesi a dimostrare il fine superiore del patriottismo manzoniano, ora preoccupati di smascherarne il perdurante conservatorismo: da una parte, la «cura posta nell’evitare che lo scritto possa scadere nell’apologia, nel generico e nel convenzionale d’un discorso di circostanza», e ciò «per conferire alle sue considerazioni un carattere di dignità storica, di ricerca elevata e indipendente»[10. F. Ghisalberti, Prefazione, in A. Manzoni, Dell’indipendenza dell’Italia, op. cit., p. VII.]; dall’altra, «una succinta ricostruzione che di storico (nel senso rigoroso della parola) ha poco», piuttosto «una ricostruzione apologetica degli eventi che, senza incorrere in vere alterazioni dei fatti, li seleziona però drasticamente ed esalta senza alcuna riserva tutti i maggiori attori della “rivoluzione del 1859”»[11. G. Bognetti, Introduzione, in A. Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Dell’indipendenza dell’Italia, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2000, pp. XLIII-XLIV.]. Questione semplicemente mal posta, giacché, per dirla con Salvatore Nigro, «il legalismo riformistico di Manzoni non era che un aspetto del suo liberalismo moderato, avverso alla democrazia dal basso e alle forme radicali di iniziativa popolare»[12. S. S. Nigro, Manzoni, Bari, Laterza, 1978, p. 183.].

È evidente come, per lo scrittore milanese, l’obiettivo inderogabile dell’indipendenza nazionale non possa prescindere dall’unificazione statale, e come qualunque soggetto politico – il Piemonte, nel caso specifico – operi per compiere tale scopo non possa prescindere da una profonda comunione d’intenti tra la propria leadership di governo e la popolazione ad essa sottoposta («Al Piemonte era rimasta una forza che lo distingueva da tutti gli altri Stati d’Italia, e che, anzi, non poteva esser rimasta, se non a lui, perché era il solo che l’avesse prima del disastro: la forza che nasceva dalla stima e dalla fiducia reciproca del Re e del paese. Da un sentimento concorde, e riguardo ai sacrifizi da farsi, e riguardo alla dignità da mantenersi»). Ed è da questa condizione che, a suo modo di vedere, origina la differenza tra il processo rivoluzionario italiano e quello francese che determina la legittimità del primo e l’illegittimità del secondo:

Il primo era nato dal “raccogliersi concorde d’un re e del suo popolo” (…) nella sacrosanta necessità dell’unità nazionale; l’Ottantanove era succeduto alla violenta distruzione del governo di Luigi XVI, “punto necessaria per ottenere i miglioramenti che la Francia voleva nel suo ordinamento” (Introduzione). Gli effetti della rivoluzione erano stati l’“oppressione col nome di libertà” e la “difficoltà di stabilire un altro governo che potesse durare” (cap. V), laddove in Italia “la libertà, lungi dall’essere oppressa dalla rivoluzione”, era nata dalla rivoluzione stessa e si era realizzata in un “novo governo” (“con un’animatissima e insieme pacifica e quasi unanimità di liberi voleri”) immune da “violenze private”, da “ordini tirannici del potere”, dal “predominio di società oligarchiche” e dalla “pressura di turbe”[13. Ivi, pp. 182-83.].

Se nell’Indipendenza dell’Italia esiste un fine apologetico, in senso strettamente etimologico, esso non può che riguardare l’autore, la cui presenza è tanto più ingombrante quanto più coscientemente messa da un canto, finanche nell’uso di quelle strutture grammaticali che, altrove, ne denunciavano la costante intromissione all’interno del piano diegetico. Mai come ora, egli è chiamato a patrocinare le proprie scelte politiche, e non tanto davanti a coloro – mazziniani e federalisti – che avevano sostenuto una differente forma governativa, liquidati difatti sbrigativamente e schiettamente, quanto di fronte a coloro – i clericali – che, «ridotti sotto un potere ostile»[14. Come si legge nell’enciclica Ubi nos, emanata da papa Pio IX il 15 maggio 1871.], ricusavano di compromettersi con gli apparati del recente stato nazionale. Né, a quell’altezza di date, potevano sussistere dubbi sull’intransigente rifiuto di ogni compromesso con la monarchia sabauda da parte del pontefice, il quale, dichiarandosi prigioniero politico, aveva ribadito le proprie posizioni nella disposizione Non expedit del 9 novembre 1870, nell’enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871 e nella lettera a Vittorio Emanuele II del 21 agosto seguente. I cattolici italiani venivano sciolti dai loro diritti politici attivi e passivi: né eletti né elettori.

La risposta di Manzoni, per quanto ci è dato presagire dalla sua condizione di abbozzo, evita il confronto diretto con i papalini e aggira accortamente il richiamo a calarsi nell’aspra disputa tra i diversi schieramenti, anzi in essa «prevale il sentimento sereno di un uomo che vuol contemplare dall’alto e dire una parola di verità su fatti ancora tanto vicini, avviare la ricerca per una strada che desse garanzia di non fallire la meta dietro la passione politica»[15. F. Ghisalberti, Prefazione, in A. Manzoni, Dell’indipendenza dell’Italia, op. cit., p. IX.]. L’avallo incondizionato concesso al governo rivoluzionario non configura allora una sofferta presa di partito, né un’intempestiva difesa delle ragioni dell’Imperium sopra quelle del Sacerdotium: al contrario, esso non è che un riconoscimento dovuto al sacrificio di chi, avendo «anteposto ai vantaggi e agli interessi di una politica egoisticamente piemontese, i doveri e le responsabilità liberamente assunti nella grande causa comune agli italiani tutti»[16. Ibidem.], ha portato a termine un mandato nel quale sono commisti valori politici e valori religiosi.

Non a caso, fin da Marzo 1821 Manzoni aveva dimostrato di approcciare il tema patriottico a partire dalle proprie convinzioni teologiche e, conseguentemente, di innestare la questione nazionale in una prospettiva di giustizia universale: lottare, così, «per l’indipendenza e l’unità italiana significa adoperarsi per l’attuazione di un provvidenziale disegno divino, inverare nella realtà storica la volontà di Dio, che “è padre di tutte le genti” e che non può permettere che un popolo – in aperta violazione della giustizia, appunto – possa raccogliere dove non ha arato, possa usurpare i diritti di un altro» (A. Colombo). In un certo senso, già il lessico dell’opuscolo manzoniano certifica l’interferenza dei due codici concettuali, trasformando – questo è il nostro pensiero – il Piemonte in una sorta di sostituto laico del papato, o di ciò che dovrebbe essere il papato, il quale in un altro tempo «tendeva a diminuire i dolori, a mettere in questo mondo un po’ più di giustizia»[17. Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, V, in A. Manzoni, Tutte le opere, II, cit., a cura di M. Martelli e R. Bacchelli, Firenze, Sansoni, 1973, p. 2060.]. Giusto da questa specola si può, dunque, considerare condivisibile l’affermazione di Giovanni Bognetti, secondo cui

l’ardente amore per la patria ha anche spinto Manzoni ad accogliere una correzione-integrazione della tradizionale, rigorosa dottrina cattolica della ‘guerra giusta’. Secondo quella dottrina la guerra, che è in sé contraria allo spirito pacifico del cristiano, si giustifica quando è ‘difensiva’, cioè costituisce una reazione necessaria all’aggressione armata altrui o all’altrui violazione grave di fondamentali obblighi sanciti dal diritto internazionale generale o convenzionale. Manzoni vi aggiunge il caso in cui la guerra serva, attaccando, alla realizzazione della unità di un popolo-nazione; un fine che permette anche di considerare nulli e non vincolanti trattati che si frappongano irrefragabilmente al conseguimento di quella unità. Per legittimare una tale eccezione alla regola della ‘guerra difensiva’, egli precisa che l’unificazione – da realizzarsi con la forza – deve essere indispensabile per far acquisire complessivamente una indipendenza stabile e certa al popolo in questione[18. G. Bognetti, Introduzione, in A. Manzoni, La Rivoluzione francese, op. cit., p. XLV.].

Come gli italici nel Discorso sulla storia longobardica, così i profughi nel trattatello sull’Indipendenza dell’Italia forniscono poi il proficuo contrappunto alla tentazione di un’histoire des rois et des princes; lo dimostra lo spazio a essi dedicato nell’abbozzo del saggio. Anzi, si può senz’altro affermare che, anche in questo caso, proprio il trattamento accordato agli esuli – l’opera diplomatica per garantire loro l’amnistia e la revoca del sequestro dei loro beni – riveli l’ottemperanza dell’operato sabaudo a quei principi etici generali (giustizia egualitaria, benevolenza solidale, altruismo sollecito e misericordioso per gli afflitti), spregiati i quali nessun attore storico potrebbe, una volta ottenuto, amministrare legittimamente il potere.

(fasc. 14, 25 aprile 2017)

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