Il ruolo delle riviste culturali italiane al “Salon de la Revue” di Parigi. Intervista a Maria Panetta, Vicepresidente del Coordinamento nazionale

Author di Rebecca Zani

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Da sinistra: Rebecca Zani e Maria Panetta al 34° “Salon de la revue” di Parigi del 2024.

Il 34° “Salon de la Revue” (11-13 ottobre 2024) si è aperto nella “Halle des Blacs-Manteux”, nel cuore del quartiere parigino del Marais[1]. Anche in questa edizione l’Italia è presente e rappresentata, oltre che dalla rivista «Studi francesi», dal CRIC (Coordinamento delle Riviste Italiane di Cultura). Ne parla la Vicepresidente, Maria Panetta.

Per cominciare, quando nasce il CRIC e quante riviste rappresenta?

Il CRIC nasce nell’aprile del 2003, quindi 21 anni fa, principalmente su iniziativa di alcuni direttori di riviste culturali. Ad oggi comprende sei editori: “Casalini Libri”, che fornisce ottimi servizi editoriali anche per quanto riguarda il digitale; la gloriosa casa editrice romana “Edizioni di storia e Letteratura”; il colosso “Fabrizio Serra Editore”, che porta da solo “in dote” 140 riviste; il raffinato editore “Leo S. Olschki”, prima veronese e poi fiorentino dal 1897; la pisana “Pacini Editore Srl”, attenta alla saggistica e agli e-book; e la romana “Pagine”, specializzata in testi scolastici e universitari. Le testate associate al CRIC sono 81 oltre alle 140 di Serra, quindi in totale circa 220.

Quali sono gli obiettivi primari del CRIC?

L’acronimo CRIC sta per “Coordinamento delle Riviste Italiane di Cultura” e il termine “coordinamento” fa ben comprendere l’intenzione primaria del CRIC: quella, cioè, di mettere in collegamento tutta una serie di testate che sono di rilievo di per sé, ma che, a nostro avviso, acquistano e acquisterebbero maggiore peso insieme. L’idea portante del CRIC è che “l’unione fa la forza”; pertanto, anche la singola rivista che magari non dispone degli stessi mezzi di periodici importanti o di riviste supportate da editori prominenti può, tramite il CRIC, avere una visibilità maggiore.
Oltre a questo scopo primario, il CRIC si adopera anche per rappresentare e tutelare gli interessi dei periodici di cultura presso le sedi istituzionali, perché, mentre è assai poco probabile che ogni rivista possa avere un interlocutore all’interno delle sedi istituzionali stesse, se c’è un coordinamento unico che si fa portavoce delle istanze dei direttori dei periodici presso le istituzioni, c’è una maggiore possibilità di essere ascoltati.

Per quanto riguarda la promozione e la diffusione delle riviste, come si muove il CRIC?

Abbiamo notato, in questi anni, che a volte ci sono problemi di distribuzione; così, abbiamo cercato di sostenere la distribuzione delle riviste nelle librerie, perché negli ultimi anni era diminuita. Abbiamo provato a incentivarne la diffusione anche tramite una serie di proposte pratiche (ad esempio, l’idea di un espositore del Cric con tutta una serie di testate da posizionare nelle librerie interessate), e soprattutto a promuovere la lettura. Questo è quello che più ci sta a cuore: riteniamo che la rivista di cultura non debba essere solo un foglio che circola tra le mani degli “addetti ai lavori”, ma che, anzi, debba essere valorizzata come fosse una sorta di “istituto culturale” in grado di promuovere anche la formazione, l’accrescimento della conoscenza, la curiosità verso determinati ambiti di ricerca. La rivista culturale non dev’essere solo una pubblicazione di nicchia, che raggiunge un pubblico settoriale e già interessato a determinati argomenti.

E quindi i giovani sono un target “speciale” del CRIC…

Sì, il nostro obiettivo sarebbe anche quello di far arrivare la rivista culturale ai giovani. Ad esempio, anche se può sembrare quasi utopico – però bisogna puntare in alto, perché nella vita per ottenere dieci bisogna chiedere cento (e al contempo impegnarsi per mille) ‒, la nostra ambizione sarebbe quella di promuoverla nelle scuole, di cercare di dimostrare e valorizzare l’importanza delle riviste culturali anche per i ragazzi in formazione. Quello di portare le riviste culturali nelle scuole è, senza dubbio, un progetto ambizioso, però nelle università i periodici sono già ben presenti: molte riviste, ad esempio, compaiono nelle bibliografie di vari corsi di studio e alcuni programmi d’esame rimandano ad articoli e saggi usciti su riviste. Fra l’altro, ultimamente i periodici nel panorama accademico sono diventati di primaria importanza, perché per i docenti universitari è divenuto necessario pubblicare con una certa assiduità su rivista, e in particolare su alcune riviste definite dal Ministero e dall’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) “di classe A”.

Possiamo ripercorrere brevemente la storia della rivista in Italia?

Mi rendo conto che nel 2024 le riviste (specie cartacee) potrebbero apparire quasi come un retaggio culturale del ’900, dallo stile un po’ old-fashioned, ecco. Eppure, la rivista, specie dopo la Legge 240 del 2010 e la riorganizzazione del Sistema universitario, ha riacquisito una certa importanza.

Però, c’è da dire che i periodici in Italia hanno sempre avuto un ruolo di rilievo, fin dalla loro comparsa. Forse non tutti sanno che la prima gazzetta specializzata in argomenti letterari era romana: il «Giornale de’ Letterati» nato nel 1668. Nel ’700 c’è stato un grande sviluppo del settore ed è aumentata la diffusione delle riviste e nell’800 possiamo annoverare tanti titoli importanti (ad esempio, la fiorentina «Nuova Antologia», che aderisce al CRIC, riprende la tradizione culturale della prima «Antologia» di Gino Capponi e Gian Pietro Vieusseux, fondata nel 1821), ma anche nel ’900 la rivista non era soltanto un foglio ma una vera e propria istituzione: allora, il dibattito culturale passava per le riviste. Di certo, tutti ricordiamo periodici notissimi dei primi del ’900 come i fiorentini «Leonardo» o «La Voce», entrambi fondati da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini: erano sedi in cui si discuteva, ci si confrontava su problemi filosofici, ne emergevano questioni di ambito sociologico. In particolare, «La Voce» non si occupava solo di temi letterari, ma entrava nel merito di problematiche legate alla vita di tutti i giorni come quella scottante del divorzio! Era veramente legata alla vita delle persone. Ecco: noi speriamo che la rivista possa riconquistare questo ruolo, possa tornare a incidere sul reale; quindi, che non punti solo all’approfondimento culturale per pochi eletti che magari già “sanno”, ma riesca a recuperare il ruolo di primo piano che aveva ancora nel Novecento. E non si tratta di un “ritorno al passato” nel senso più “ammuffito” e statico del termine, ma di valorizzare, adeguandola all’oggi, una tradizione che in Italia (così come in Francia) è particolarmente forte. In Italia, la rivista è stata un’istituzione fondamentale per il progresso e il dibattito culturale: non dobbiamo dimenticarlo.

Il CRIC ritiene che le riviste siano fondamentali per lo sviluppo della democrazia e del libero dialogo e che possano fornire anche da questo punto di vista ottimi spunti di riflessione. In quest’ottica il tema della diffusione online è di particolare interesse, perché i pregiati contenuti di approfondimento veicolati dalle riviste possono circolare velocemente in rete e arrivare a fasce di pubblico che prima le riviste cartacee da sole non raggiungevano…

Quindi esistono riviste cartacee, cartacee e digitalizzate, e riviste che nascono nel mondo digitale, “digital-born” come si suol dire, giusto?

Esatto. A questo proposito, non posso non accennare alla rivista di cui sono la fondatrice: «Diacritica», nata dieci anni fa. È stata la prima rivista esclusivamente digitale ad aderire al CRIC. Perché il digitale? Innanzitutto, ovviamente, per abbattere i costi. Inoltre, le riviste digitali, come accennato, hanno ampia diffusione e raggiungono dei pubblici anche inaspettati, inattesi, insospettabili e soprattutto internazionali. Si tratta di lettori a cui, magari, neanche si pensa come destinatari e che, invece, fortunatamente e con nostra grande soddisfazione, si fidelizzano tramite la rete.

Ci sono anche riviste cartacee passate al telematico per ragioni di economia di spesa. Questo processo riguarda, ad esempio, numerose riviste accademiche: infatti, gli atenei, che sostenevano i costi di stampa delle riviste, spesso oggi caldeggiano il passaggio al digitale. Il cartaceo, però, non deve mai essere demonizzato! Anzi: personalmente, confesso che, quando nacque «Diacritica», avrei voluto che fosse cartacea e tutt’ora accarezzo il sogno di poterla, un giorno, stampare. Il cartaceo, infatti, ha un fascino perenne; e il digitale, quindi, può rappresentare anche un valore aggiunto per pubblicizzare la versione a stampa delle riviste.

Oggi ci incontriamo in un quadro molto particolare. Siamo a Parigi, in un fine-settimana in cui riviste francesi meticolosamente scelte espongono il proprio operato: che rapporto intrattiene il CRIC con il “Salon de la Revue” e da quando vi partecipa?

Il Presidente, l’Onorevole Valdo Spini, da anni tiene molto all’appuntamento del “Salon de la Revue”. Per noi è un privilegio e un piacere essere l’unico banco italiano ‒ assieme a «Studi Francesi» ‒ al “Salon”: infatti, tutte le altre riviste presenti sono solo ed esclusivamente francesi, e questa è una piccola-grande vittoria. Anche da un punto di vista diplomatico per noi è importante essere sempre calorosamente accolti in questa capitale culturale, letteraria e artistica che è Parigi: l’anno scorso, ci ha onorato con la sua presenza anche l’Ambasciatrice Italiana in Francia, la dottoressa Emanuela D’Alessandro. Per tale ragione la nostra partecipazione al “Salon” è sostenuta anche dal Ministero degli Esteri, che ci teniamo a ringraziare anche in questa sede.

Ci fa piacere osservare che ogni anno si presentano allo stand studiosi, intellettuali, docenti, studenti italiani che si sono trasferiti a Parigi e che conoscono il banco del CRIC. Passeggiando fra gli espositori di questo ex-mercato, la Halle des Blancs-Manteaux, anche moltissimi visitatori francesi sono incuriositi dal CRIC: sono sempre molto affabili e interessati. Sicuramente, la cosa più difficile della nostra partecipazione al “Salon” è la gestione delle testate da esporre sul tavolo, perché, come accennato prima, sono sempre tantissime e lo spazio di esposizione è limitato…

Prima di congedarci: quali sono le prossime attività del CRIC in agenda?

Ci stiamo già organizzando per la prossima edizione del “Salon”, nel 2025. A breve saremo alla fiera di Roma “Più Libri più Liberi” con uno stand, dei dibattiti e delle presentazioni: senza svelare troppo le nostre carte, posso anticipare che uno degli argomenti principali di quest’anno sarà Giacomo Matteotti, figura che ci rappresenta pienamente come emblema dei valori democratici e della lotta per la libertà.

Dall’anno scorso partecipiamo a “Firenze Rivista”, una realtà giovane, che coinvolge molte vivaci testate diverse dal target dei periodici in genere rappresentati dal CRIC, ma che ci interessa molto proprio perché ci permette di approcciare un pubblico giovanile, differente da quello “canonico” del Coordinamento. Siamo presenti anche al “Lucca Book Festival” e speriamo, in futuro, di poter partecipare pure alla “Fiera di Francoforte” e al “Salone del Libro di Torino”. Ci piacerebbe anche arrivare a “Una Marina di Libri”, una manifestazione incentrata sul libro a Palermo, perché siamo ben rappresentati al Centro-Nord ma desideriamo scoprire e dare il giusto rilievo anche al nostro Sud, che è così ricco di risorse.

  1. Si ringraziano Rebecca Zani e thedotcultura.it per aver concesso di riprodurre l’intervista a Maria Panetta registrata al “Salon de la revue” di Parigi l’11 ottobre 2024 e uscita il 12 ottobre su “thedot cultura” (N.d.R.).

(fasc. 54, 25 novembre 2024)

Ridare lustro al romanzesco: Italo Calvino e la scelta del racconto lungo in «Centopagine»

Author di Giorgia Mercenaro

«Centopagine»: il riflesso dell’idea di letteratura di Calvino

In un contesto caratterizzato dalla trasformazione del pubblico, dalle alterazioni del mercato della narrativa e dal prevalere del formato tascabile e delle dispense, si inserisce la collana «Centopagine» di Einaudi.

Il sistema editoriale degli anni Settanta è contraddistinto soprattutto dallo squilibrio creatosi per l’elevata produzione di testi letterari e saggistici che innalzano il quantitativo dell’offerta, rendendolo difficilmente assimilabile a quello della domanda. La conseguenza immediata è una saturazione di mercato che porta gli editori a diversificare il proprio catalogo e a ricercare nuovi percorsi commerciali interessanti: alcuni inaugurano nuove collane, altri ristrutturano quelle già esistenti e diversi rivolgono maggiore attenzione al fronte promozionale e pubblicitario così da adeguarsi ai nuovi sistemi dell’informazione[1]. Lo studio delle collane, pertanto, si rivela fecondo per comprendere come esse siano «espressioni di politiche, pratiche, orientamenti delle rispettive case editrici»[2].

Il caso di Einaudi è ancora più interessante perché, oltre a numerose iniziative editoriali come «Einaudi Letteratura», «Gli struzzi» e «I nuovi coralli», durante gli anni Settanta si registra l’apertura della collana «Centopagine» diretta da Italo Calvino. Essa permette un duplice approfondimento: trattandosi di una collana d’autore, alla conoscenza della casa editrice torinese si unisce quella della figura di Calvino poiché la sua idea di letteratura e di impegno, la sua attività da saggista, da editore e da lettore abbracciano l’intero lavoro di cura della collana e di selezione dei volumi[3].

Diretta dal 1971 al 1985, «Centopagine» è il progetto editoriale in cui Calvino ha più autonomia decisionale e meglio può applicare la sua idea di letteratura. Entrato a far parte della casa editrice torinese alla fine degli anni Quaranta, egli riconosce nella propria attività da editore una funzione strumentale per attuare un progetto che vede nel «recupero di un rapporto armonico e una reale integrazione fra l’uomo e la storia»[4] uno degli obiettivi dell’intellettuale moderno. Rispetto ai progetti che hanno caratterizzato il panorama einaudiano tra gli anni Sessanta e Settanta, «Centopagine» si pone con un carattere diverso, in primis per la sua impronta volta al recupero dei grandi titoli e dichiarata nel sottotitolo «Collezione di grandi narratori diretta da Italo Calvino», che sembra non venir meno neanche nei libri pubblicati dopo Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi, a partire dal quale si rimuove l’aggettivo «grande», così da «rendere la collana più disponibile»[5]. Tale questione può essere ricondotta, scrive Alberto Cadioli, «al contesto editoriale» o meglio ancora «alla complessa personalità di Calvino»[6]. Sembra essere, dunque, il legame tra la poetica dello scrittore e il lavoro per la collana uno degli snodi cruciali per comprendere quest’ultima, le idee che vi sono dietro e l’impianto che la caratterizza.

Destreggiandosi fra il lavoro di editore e quello di scrittore, Calvino porta i due rami, diversi ma attigui, a congiungersi nel progetto. Per lo scrittore, così come prima di lui per Cesare Pavese ed Elio Vittorini, l’editoria rappresenta lo strumento per diffondere l’idea maturata sulla letteratura che per Calvino – come scrive Michele Martino – «negli anni Settanta confluisce, arricchita da nuove esperienze, nell’ideazione della collana Centopagine»[7]. È la collana lo spazio nel quale può diffondere un’idea di letteratura più completa, che va dalla selezione dei volumi alla stesura di note e quarte di copertina che rispecchiano la sua poetica. Calvino, infatti, nella selezione dei testi applica lo stesso principio che muoveva la sua attività da scrittore: fondamentale era partire dal linguaggio, dall’idea generale dell’intera opera e soprattutto dalla chiara visione della collana nella quale si sarebbe inserita[8]. In veste di editore annota ai margini le correzioni e affida allo scrittore la libertà di riscrivere o meno una parte del testo per cercare di comprendere le ragioni di una determinata scelta[9]. Per ciò che concerne la struttura della collana e la selezione della tipologia di libro selezionato, si rivela feconda la lettura della presentazione contenuta nei primi quattro volumi[10], dalla quale si evincono chiaramente i caratteri della collana. In primo luogo, viene così argomentata la scelta del genere:

Centopagine è una nuova collezione Einaudi di grandi narratori d’ogni tempo e d’ogni paese, presentati non nelle loro opere monumentali, non nei romanzi di vasto impianto, ma in testi che appartengono a un genere non meno illustre e nient’affatto minore: il “romanzo breve” o il “racconto lungo”. Il nome della collezione – e dunque l’ampiezza dei testi – non va preso alla lettera. Il criterio di scelta si baserà sull’intensità di una lettura sostanziosa che possa trovare il proprio spazio anche nelle giornate meno distese della nostra vita quotidiana. […] L’impostazione della collana non vuole essere affatto preziosa, di trouvailles curiose o di indicazioni di gusto, ma al contrario vuole rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”[11].

Nella selezione dei testi, Calvino predilige il genere «non meno illustre» del romanzo breve o racconto lungo, perché sostiene che l’intensità conti più del numero di pagine, in modo da poter occupare lo spazio delle «giornate meno distese della nostra vita quotidiana». In secondo luogo, si approfondisce il criterio selettivo di autori e opere:

Già il catalogo Einaudi è molto ricco di ottime traduzioni di testi famosi da tempo introvabili sui banconi delle librerie che in «Centopagine» riavranno una loro sede naturale; basti pensare ai grandi narratori russi. Ma molte saranno le traduzioni nuove, in alcuni casi d’opere mai pubblicate in Italia, e le proposte di titoli dimenticati o rari sui quali l’attualità dei nostri interessi getta una luce nuova[12].

Dai russi ai francesi, dai tedeschi agli americani con una buona presenza anche di opere italiane, il catalogo di «Centopagine» sembra restituire un quadro variegato di opere e autori dimenticati o conosciuti che vanno dal Cinque-Seicento fino al Novecento.

Brevità ed eterogeneità[13] sembrano essere le parole chiave per definire il progetto editoriale di Calvino. Il termine “brevità” fa capo all’ampiezza dei testi scelti e al genere prediletto, quello del romanzo breve o racconto lungo, forme narrative con le quali è più facile mantenere salda l’attenzione del lettore e non perdere l’intensità ricercata. Il termine “eterogeneità”, invece, risponde a quel principio di varietà che rispecchia anche il gusto del direttore. Sono presenti cinquantaquattro titoli stranieri e venti italiani, di diversi periodi e di diversi continenti, che mostrano un ventaglio di scelte ricco, ma comunque coerente. Per ciò che concerne i titoli italiani, inoltre, la diversità è ancora più evidente, poiché, nonostante l’arco temporale in questo caso sia di solo un secolo (a differenza dei più di due secoli della narrativa straniera), i titoli selezionati mostrano una predilezione per le opere minori o per opere di autori «imbalsamati in un consunto cliché»[14] e in cui la linea narrativa spazia tra diverse correnti letterarie, Naturalismo e Scapigliatura per prime.

Le considerazioni di Calvino sul romanzo nei suoi interventi critici

L’introduzione dei caratteri generali della collana e l’associazione tra il lavoro di Calvino in quanto editore e la sua poetica sono utili per avviare la questione delle motivazioni della scelta del racconto lungo o romanzo breve per la collana «Centopagine». Riflettere da un lato sulla considerazione che aveva del romanzo e dall’altro sulla sua volontà di fornire ai lettori le «materie prime»[15] permette di comprendere le ragioni che hanno portato Calvino a scegliere questo tipo di forma narrativa.

Per approfondire la prima questione un utile punto di partenza sono i Saggi, dai quali affiora la sua idea di letteratura e, soprattutto, di romanzo. Attraverso questi è possibile ricostruire diacronicamente il pensiero che ha influito sull’impianto della collana einaudiana, poiché sono riportate le sue considerazioni critiche sul romanzo, sulla sua tradizione e sulle sue condizioni nel panorama letterario della seconda metà del Novecento. Le ragioni della precarietà di tale forma narrativa si ritrovano, in nuce, nell’esigua produzione romanzesca nei confini italiani.

Per quanto ribadisca la grandezza di Manzoni, Calvino ritiene che nei «Promessi sposi restò una sorta d’impaccio che derivava dal temperamento poco romanzesco del suo capostipite»[16], da ricondurre anche allo scarso gusto dello scrittore per l’avventura, la dimensione centrale del romanzesco. Gli autori italiani sono, pertanto, costretti a ricercare una tradizione del romanzo nella narrativa straniera e a dimostrarlo è l’esempio di Giovanni Verga che, «sull’onda dei francesi», riscopre «il paese», «i rapporti dell’uomo […] con la natura e con la storia» e coglie «nel remoto del nodo tra la lingua e il dialetto il linguaggio ideale del romanzo»[17]. D’altro canto, nei veristi regionali domina l’antiromanzo e, dopo una breve rinascita nel dopoguerra, le sorti del componimento narrativo ritornano a essere incerte perché ancora «più gravi catastrofi» si sviluppano con la diffusione dei modelli d’avanguardia, con le istanze sperimentali prima, e l’influsso sempre maggiore del capitalismo tale da rendere la letteratura dipendente dalle esigenze di mercato. Alla luce di questo, il romanzo italiano, strettamente legato alla narrativa mondiale, a sua volta in crisi, e all’esigua tradizione romanzesca dei confini nazionali, può rinascere? Questa è la domanda che si pone Calvino e la risposta sembra essere affermativa, perché in Italia «c’è molta carne al fuoco» ed è possibile che qualcosa «ne verrà fuori»[18], anche se egli non trova una soluzione alla mancanza dell’elemento avventuroso.

L’opinione di Calvino sul romanzo in Italia pare evolversi lungo gli anni e Le sorti del romanzo lasciano una testimonianza scritta. Se in passato si era sostenuto, e Calvino stesso aveva concordato, che il romanzo non era in crisi e «non poteva morire»[19], allora la crisi appare chiara fino a fargli dichiarare che non gli «riusciva di farne stare in piedi uno»[20]. Calvino sostiene che «per convincerci di una intramontabile signoria del romanzo abbiamo bisogno di leggere Lukàcs»[21] con la sua scansione per generi, ritrovabile solo fino alla produzione letteraria ottocentesca, oltre la quale l’ideale estetico lukàcsiano si perde e non si ritrovano più il «nervosismo» e «la fretta del nostro vivere»[22] rintracciabili, invece, nel romanzo breve.

Torna nuovamente al centro la questione della crisi del romanzo con l’inchiesta condotta da «Nuovi Argomenti» nel 1959. La rivista fondata da Alberto Carocci e Alberto Moravia si avvale della formula inchiesta per costruire un dialogo intorno a tematiche letterarie e sociali che indagano «la posizione degli intellettuali nell’epoca dell’industria culturale»[23] e promuovono la riflessione sul rapporto tra aspetti di natura politico-culturale e il loro riflesso nella letteratura. Una di queste inchieste è proprio 9 domande sul romanzo, alla quale Calvino partecipa assieme a Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola etc.

Partendo dalle varie accezioni di romanzo, da quella di tipo ottocentesco al romanzo d’ossatura ideologica fino al romanzo come prodotto commerciale e al romanzo come forma di narrazione avvincente, Calvino arriva a sostenere che, in realtà, «nessuna di queste varie definizioni […] ci parla di qualcosa che è necessario o possibile tenere in vita»[24]. Inoltre, la sua risposta all’inchiesta si distingue dalle altre perché si tratta della prima ipotesi che include la questione dell’“eterodirezione”, intendendo con essa la dinamica per cui le funzioni avocate per lungo tempo al romanzo sono ora ridistribuite nelle altre forme del racconto (lirico, filosofico, fantastico etc.), che possono pacificamente convivere in un’unica opera. A partire dal concetto di eterodirezione e dal riconoscimento della «possibilità di lettura su piani multipli» come «una caratteristica di tutti i grandi romanzi di tutte le epoche»[25], Calvino arriva a sostenere che, se inteso come «un’opera narrativa fruibile e significante su molti piani che si intersecano»[26], il romanzo potrebbe non essere considerato una forma in crisi. La posizione di Calvino a questo punto sembra essere chiara. Egli non è incline a decretare la morte o la crisi del romanzo, ma allo stesso tempo sembra propenso ad accogliere altre forme narrative come «il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda»[27] che in quel contesto paiono le più adatte a rispondere alle esigenze dell’intellettuale e del lettore.

La scelta del racconto: ipotesi sulle motivazioni

Resta da chiedersi perché preferire il racconto lungo o il romanzo breve come forma narrativa per i libri che compongono la collana «Centopagine». Le ragioni di questa scelta possono essere dettate da due motivazioni, una di carattere critico-teorico e una di carattere personale[28].

La prima motivazione fa capo agli interventi critici che avevano occupato i primi anni Settanta sul recupero del romanzesco. Potrebbe non essere distante dai principi che caratterizzano la collana l’idea teorizzata, forse non a caso, appena un anno prima dell’inizio del suo progetto editoriale. Nell’articolo Il romanzo come spettacolo del 1970 Calvino riflette, infatti, sulla «futura reincarnazione»[29] del romanzesco e prende in considerazione due scrittori: Charles Dickens e Gustav Flaubert. Il primo presenta le storie che «non nascondevano il loro carattere convenzionale e spettacolare, […] in una parola la loro natura romanzesca»[30]; il secondo è l’autore con il quale Carlo Cassola registra la fine del romanzesco, che da quest’ultimo viene definito un trionfo, mentre per Calvino rappresenta l’inizio di una produzione di «Romanzi sbiaditi»[31]. A partire da antitetici esempi letterari (il romanzesco con Dickens e la fine dello stesso con Flaubert), Calvino teorizza la riabilitazione del romanzesco, non solo perché si tratta di una materia a lui cara, ma perché ritiene che anche la ricerca letteraria sia orientata verso quella direzione. La scommessa su questa rinascita prevede la costruzione di una nuova dinamica tra autore e lettore, una partita che si giochi «con assoluta lealtà»[32] e in cui i romanzi nascano in laboratori e ristabiliscano «una comunicazione tra scrittore, pienamente cosciente dei meccanismi che sta usando, e […] lettore che sta al gioco perché ne conosce le regole e sa che non può essere preso più a zimbello»[33].

Calvino, dunque, facendosi «interprete […] della diffusa esigenza di un ritorno alla letteratura, al romanzo»[34], si impegna a ridare lustro al romanzesco anche per mezzo della collana «Centopagine». Da un lato questo è deducibile dalla già citata presentazione nelle prime quarte di copertina, nelle quali si sottolinea che si «vuole rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”»[35] con opere mai pubblicate in Italia o di difficile reperibilità. Le prime pubblicazioni, infatti, sono rappresentative «di questa impostazione e del suo dosaggio interno»[36] poiché egli si propone di pubblicare anche quel romanzo italiano prodotto tra l’Unità e la Prima guerra mondiale che è ancora «tutto da scoprire»[37].

Un’operazione simile era stata condotta in precedenza da Giuseppe Antonio Borgese con la collana «Biblioteca Romantica», la cui funzione era stata proprio quella di creare un contesto editoriale adatto ad accogliere le fondamenta del grande romanzo. Nonostante il progetto di Calvino appaia più misurato – perché sceglie di non pubblicare i romanzi di vasto impianto, ma opere dalla forma narrativa più breve –, le due collezioni hanno dei punti in comune. Esse rispondono a due domande diverse ma affini: la prima, nell’Italia degli anni Trenta, risponde al «bisogno di riscoprire il romanzo»[38] e la seconda, cinquant’anni dopo, all’esigenza di ritornare a questa forma narrativa dopo gli anni delle sperimentazioni delle avanguardie. Del resto, il romanzesco lo si ritrova se con esso si indica non solo il grande romanzo, ma i «congegni narrativi [… e le] architetture formali ben costruite […] che tengano conto dei molti livelli su cui si articola la narrazione»[39].

Il progetto di «Centopagine» mira anche a favorire il ritorno alla narrativa da parte dei lettori. Dal punto di vista formale, si rivela indispensabile la convivenza di due aspetti: da una parte la raffinatezza dell’opera (misurata sulla base della precisione lessicale e dell’intera struttura), dall’altra l’attenzione per traduzioni valide e corrette.

La frenesia delle pubblicazioni di titoli stranieri della seconda metà del Novecento aveva portato, infatti, alcune case editrici a cadere nell’errore della rapidità o del riciclo di vecchie traduzioni, con l’inevitabile conseguenza di fornire al mercato librario testi scadenti o comunque di poco prestigio. Questo non è il caso dei «Centopagine», in cui viene riservata attenzione non solo alle traduzioni, ma anche all’impianto critico che prevede il lavoro di diversi intellettuali italiani in introduzioni e quarte di copertina. Dal punto di vista contenutistico, ciò che più favoriva l’interesse dei lettori era la capacità delle opere di condurli a concludere la lettura: ciò spiega la predilezione di Calvino per opere dalla forte intensità, che invece tende a perdersi in forme narrative lunghe.

In secondo luogo, per comprendere le motivazioni di carattere personale della scelta calviniana del racconto può essere utile confrontarsi con la sua produzione, sia narrativa sia saggistica. Nello specifico sono utili gli interventi raccolti nelle Lezioni americane, nei quali lo scrittore ha modo di trattare questioni teoriche che rivelano la sua visione della scrittura e della produzione letteraria. Dei noti cinque macro-argomenti analizzati – la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità – la rapidità è particolarmente utile a comprendere la scelta calviniana del racconto in «Centopagine». Dopo aver affermato che «ogni valore […] non pretende d’escludere il valore contrario»[40], Calvino si sofferma sulla “velocità” nell’economia del racconto, concetto che viene applicato soprattutto nella narrazione orale della tradizione popolare. Il lavoro di scrittore, afferma Calvino, «è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo»[41], così lo scrittore di poesia o prosa dovrebbe essere capace di «realizzarsi per folgorazione improvvisa» ossia una ricerca «della frase in cui ogni parola è insostituibile»[42]. Alla luce di questo, infatti, non si può non tener conto di come in opere molto lunghe sia facile perdere questa tensione. Calvino scrive:

È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di “short stories”. […] Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri esteriori, ma io parlo d’una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo respiro, ha comunque la sua misura nella singola pagina.

Di certo, il criterio quantitativo non può incidere sulla valutazione di un’opera; esso risulta intrinsecamente legato anche alle caratteristiche del testo e alla sua ricettività. È possibile che un’opera perda la “particolare densità” con l’aumentare delle storie, dei personaggi e delle varie inserzioni narrative. È, inoltre, Calvino stesso, in tutta la sua produzione letteraria, a preferire una lunghezza media o breve per narrare, e in questo trova un riscontro diretto nella tradizione della letteratura italiana che, «povera di romanzieri»[43], parrebbe realizzarsi meglio in opere dal ristretto numero di pagine.

La produzione di Calvino a partire dagli anni Cinquanta mostra un’inclinazione verso l’uso di forme brevi: dal Sentiero dei nidi di ragno del 1947 alla trilogia I nostri antenati la predilezione di Calvino oscilla tra il racconto e il romanzo breve, con una cospicua produzione anche di raccolte di racconti. Osservando le opere pubblicate, emerge una presenza maggiore, se non complessiva, di una produzione narrativa lontana dalla prolissità spesso tipica del genere romanzo. Le sue opere si sviluppano, in genere, per minimo cento e massimo duecentosessanta-duecentosettanta pagine, con un timido aumento quantitativo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta con Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Favorire il recupero del romanzesco e prediligere opere dalla forte intensità sono due prospettive che sembrano confluire nella scelta delle forme narrative brevi, portando, di conseguenza, la collana «Centopagine» a configurarsi come una risposta a tali nascenti necessità. Calvino vuole offrire un’alternativa di «modi e misure che potrebbero consentire al romanzo di adattarsi meglio a una mutata situazione generale, della società della letteratura»[44].

In un mondo in cui la cultura non è in grado di dotarsi degli strumenti adatti per assolvere una determinata funzione, Calvino propone non il racconto puro in sé (il quale verrebbe anche contaminato per renderlo spurio, non essendo, Calvino, amante delle forme pure) quanto, piuttosto, una forma in grado di influire «sul rinnovamento che il mondo deve avere»[45]. Il racconto è il genere più adatto a soddisfare la «condizione intellettuale come l’odierna di “agnosticismo”, di “piccole” e parziali certezze”»[46]. Più agile del romanzo, più breve, immediato e ad alta intensità, il racconto è la forma narrativa mediante la quale si può iniziare a racconta

  1. A. Cadioli, G. Vigni, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, Milano, Editrice Bibliografica, 2012, pp. 96-115.
  2. G. C. Ferretti, «Centopagine», in G. C. Ferretti, G. Iannuzzi, Storie di uomini e libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, Roma, Minumum fax, 2014, p. 5.
  3. Ivi, p. 243.
  4. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, in «Studi Novecenteschi», giugno 1996, vol. 23, n. 51, p. 75.
  5. A. Cadioli, Le «materie prime» dell’esperienza narrativa. Italo Calvino direttore di «Centopagine», in Calvino & l’editoria, a cura di L. Clerici e B. Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1993, p. 146.
  6. Ivi, pp. 146-47.
  7. M. Martino, Calvino editor e ufficio stampa. Dal Notiziario Einaudi ai Centopagine, in «Oblique», 2012, p. 5.
  8. Ivi, pp. 9-10.
  9. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, art. cit., p. 78.
  10. Ora presente in I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1718-20.
  11. Ivi, pp. 1718-19.
  12. Ivi, p. 1718.
  13. Queste sono le parole che usa anche I. Rubino in «Centopagine». Un riconoscimento di forme nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, a cura di I. Crotti et al., vol. II, Pisa, Edizioni ETS, 2011, p. 388.
  14. Ivi, p. 385.
  15. I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, art. cit., p. 1719.
  16. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, in Id., Saggi, op. cit., p. 1507.
  17. Ivi, p. 1509.
  18. Ivi, p. 1511.
  19. Ivi, p. 1512.
  20. Ibidem.
  21. Ibidem.
  22. Ivi, pp. 1512-13.
  23. E. Grazioli, Le inchieste di «Nuovi Argomenti»: riflessioni sulla letteratura nell’epoca dell’industria culturale, in Letteratura e Potere/Poteri, a cura di A. Manganaro, G. Traina, C. Tramontana, Catania, Adi, 2021, pp. 2-4 (cfr. l’URL: https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-potere; ultima consultazione: 09/05/2023).
  24. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, art. cit., p. 1523.
  25. Ivi, pp. 1524-25.
  26. Ivi, p. 1525.
  27. Ivi, p. 1513.
  28. Tale è anche l’approccio di Alessia Francescutti.
  29. I. Calvino, Il romanzo come spettacolo, in Id., Saggi, op. cit., p. 271.
  30. Ivi, p. 270.
  31. Ivi, p. 271.
  32. Ivi, p. 273.
  33. Ibidem.
  34. A. Francescutti, Italo Calvino. l’avventura di un editore, art. cit., p. 100.
  35. I. Calvino, Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, in Id., Saggi, op. cit., p. 1719.
  36. Ibidem.
  37. Ibidem.
  38. M. Martino, Calvino editor e ufficio stampa. Dal Notiziario Einaudi ai Centopagine, art. cit., p. 27.
  39. Ivi, p. 28.
  40. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, in I. Calvino, Saggi, op. cit., p. 668.
  41. Ivi, p. 670.
  42. Ivi, pp. 670-71.
  43. Ivi, p. 671.
  44. I. Rubino, «Centopagine». Un riconoscimento di forme nella narrativa italiana tra Otto e Novecento, in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, vol. II cit., pp. 381-388: 381.
  45. I. Calvino, Altri discorsi su letteratura e società. Sul romanzo, art. cit., p. 1514.
  46. L. Badini Confalonieri, Calvino e il racconto, in Metamorfosi della novella, a cura di G. Barberi Squarotti, Foggia, Bastogi, 1985, p. 413.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

«La guerra dietro le spalle»: Calvino editore e la letteratura di memoria

Author di Edoardo Barghini

In una lunga lettera del 15 luglio 1974 a Giovanni Falaschi[1], che sta preparando per Einaudi un importante studio sulla letteratura della Resistenza[2] – Calvino, oltre a essere fra gli autori analizzati nel libro, è anche l’editor incaricato di seguirne l’iter redazionale –, tra le numerose correzioni, integrazioni e indicazioni di metodo, struttura e stile che Calvino dispensa al giovane studioso, troviamo anche una preziosa riflessione sul rapporto tra autobiografia e storia collettiva. Scrive Calvino che le opere dei memorialisti «appartengono a una storia privata che si aggancia alla storia pubblica, collettiva e la esemplifica, la spiega dal di dentro»[3], e l’esperienza di ciascuno «ha valore nel quadro della propria maturazione di persona umana, e diventa collettiva come esempio d’una tra le tante esperienze individuali di cui è fatto un avvenimento storico»[4]. Continua a leggere «La guerra dietro le spalle»: Calvino editore e la letteratura di memoria

(fasc. 53, 25 agosto 2024)

Il fumetto italiano degli anni Settanta tra cultura e controculture

Author di Giovanni Di Iacovo

La nascita del nuovo fumetto italiano

L’interesse per gli argomenti contenuti nel presente saggio si origina dall’esposizione tenutasi dall’11 novembre 2023 al 5 maggio 2024 presso il CLAP Museum di Pescara dal titolo Il Tempo è l’unico denaro, a cura di Oscar Glioti, sulle riviste «Frigidaire» e «Cannibale», su Stefano Tamburini e Andrea Pazienza e su altre figure e pubblicazioni di rilievo delle controculture legate al fumetto negli anni Settanta. Continua a leggere Il fumetto italiano degli anni Settanta tra cultura e controculture

(fasc. 52, 31 luglio 2024)

La voce ribelle degli anni ’80: il Cyberpunk

Author di Simone Pitti

Noi artisti possiamo solo andare fin dove la gente può seguirci. Non siamo soli, facciamo parte del sistema. Possiamo correre rischi, ma se volessi raggiungere il culmine della tua coscienza, potresti trovarti molto probabilmente da solo. Anche se sai come tradurre ciò che vedi, forse solo dieci persone saranno in grado di capire ciò che dici. Ma, se hai fede nella tua visione, e la racconti ancora e ancora, noterai che, col passare del tempo, sempre più persone inizieranno a seguirti.

Jean Giraud

Il quadro storico

Per capire a pieno il fenomeno Cyberpunk, non si può prescindere da un’analisi del periodo storico di riferimento. L’America, paese di nascita del Cyberpunk, conobbe una poderosa crescita economica negli anni del secondo dopoguerra, uno sviluppo che tuttavia riguardò una strettissima minoranza, aumentando il già notevole divario tra le fasce agiate e quelle indigenti presenti negli USA. La società americana, famosa per la sua mobilità, aveva finito per ingessarsi, irrigidirsi: il ceto medio tendeva a isolarsi dagli altri strati sociali mentre le classi popolari faticavano a trovare una loro organizzazione collettiva, differentemente da quanto avveniva in Europa, soprattutto a causa della forte avversione verso le organizzazioni collettive, spesso sospettate di “simpatie rosse”[1] e quindi osteggiate. Oltre a ciò, va tenuto a mente che il modello di vita dominante rimaneva incentrato intorno al successo personale, all’individuo. Mancavano, quindi, quei correttivi all’ineguaglianza che al contrario caratterizzavano le politiche dei vari governi europei, con il risultato che il 25% degli americani finì in miseria, senza possibilità di uscirne. La conseguenza più immediata fu la nascita di aree residenziali con un’altissima concentrazione d’indigenti, i famigerati ghetti, e un altrettanto alto tasso di criminalità, accompagnato dall’assenza dei servizi basilari.

Il mondo della politica non sembrava essere in grado di proporre delle soluzioni valide; a questa mancanza di piani da parte del mondo politico rispose «un movimento intellettuale giovanile, desideroso di trovare la compatibilità di libertà e protezione non alla rincorsa del benessere ma nella sobrietà dell’armonia»[2]. Il primo focolaio scoppiò nelle università, in quella di Berkeley per l’esattezza, nel 1964.

I movimenti erano molto eterogenei: al loro interno militavano i gruppi più disparati, dai pacifisti ispirati da Gandhi agli isolazionisti che volevano gli Stati Uniti fuori da ogni conflitto extraterritoriale, passando per esponenti dei movimenti anarchici, moralisti, senza dimenticare i movimenti femministi e contrari alla censura. Si navigava a vista, affrontando di volta in volta un problema diverso, senza alcun impianto teorico preciso né un piano a lungo termine.

Nei primi anni ’70 due avvenimenti turbarono profondamente la stabilità dell’economia mondiale. Il primo, nel 1971, fu la sospensione da parte degli Stati Uniti della convertibilità del dollaro in oro, uno dei pilastri degli accordi del 1944[3]. La decisione fu dettata dagli enormi costi della guerra in Vietnam, che causarono un passivo sempre maggiore alle finanze degli States. A poca distanza di tempo, nel 1973, gli stati produttori di petrolio, a seguito della guerra arabo-israeliana, decisero di quadruplicare il costo del greggio, provocando danni in tutto il mondo occidentale. Il prezzo del petrolio continuò a salire fino a raggiungere il suo picco alla fine degli anni Settanta, quando arrivò a costare dieci volte tanto rispetto a pochi anni prima. La conseguenza più immediata fu un brusco calo del settore industriale, accompagnato da una tensione inflazionistica non indifferente, con aumenti dei prezzi superiori al 20%[4].

Da un punto di vista sociale, le conseguenze furono disastrose: per circa un decennio il tasso di disoccupazione continuò a crescere a ritmi sostenuti. Il modello stesso del Welfare State perse di credibilità, mettendo in crisi le democrazie occidentali che per anni si erano affidate a esso per una maggiore stabilità economica e sociale.

Per quanto riguarda l’ambito politico, dopo le crisi degli anni ’70, trovarono molto seguito le politiche di conservatori come Reagan (1981-1989) e come la Thatcher, che promettevano tagli delle tasse per tutti e meno spese. Era venuta meno la precedente fiducia nel progresso continuo; per la prima volta il capitalismo stava affrontando le proprie fragilità e le proprie debolezze strutturali:

Giunta al termine di una lunga fase di sviluppo pressoché ininterrotto e di benessere crescente (quella che gli storici hanno definito «l’età dell’oro» dell’economia capitalistica), la crisi petrolifera costituì per l’Occidente un trauma fortissimo sul piano psicologico prima ancora che economico: rivelò un’insospettata fragilità dei sistemi economici più avanzati; fece sorgere […] una serie di interrogativi sui fondamenti stessi della società industriale; contribuì a rendere più instabile lo stesso quadro politico mondiale preparando i grandi mutamenti che avrebbero segnato la fine del secolo XX[5].

Le trasformazioni avvenute nell’arco di tutti gli anni ’70, dunque, avevano portato un profondo mutamento a livello ideologico e culturale. Se in quegli anni la cultura di sinistra era stata quella dominante, sia nella sua accezione riformista, favorevole alla società del benessere, sia nella versione rivoluzionaria che contestava la lentezza della politica e l’ordine costituito, negli anni successivi, da metà dei ’70 fino alla fine degli anni ’80, le cose cambiarono.

La crisi petrolifera prima e quella industriale dopo misero, dunque, in dubbio il mito dello sviluppo continuo. La rivoluzione elettronica, inoltre, ridimensionò l’importanza delle fabbriche e di conseguenza il numero degli operai così come il loro peso politico all’interno della vita dei vari paesi.

Il movimento Cyberpunk mostrò un forte interesse proprio per questo fenomeno, quello della rivoluzione elettronica, esploso nella seconda metà degli anni Ottanta e che continua oggi a far sentire la propria influenza. Per elettronica s’intende quel ramo della fisica che fa oggetto del suo studio il movimento degli elettroni e che già nella prima metà del ’900 era stata alla base di alcune scoperte rivoluzionarie nel campo delle comunicazioni radiofoniche e televisive. Tra le innovazioni più importanti, ricordiamo l’invenzione del personal computer, che a sua volta ha portato alla nascita di una nuova disciplina: l’informatica. Questa è legata ad altre due branche sempre più in via di sviluppo, molto care al Cyberpunk, che sono quelle della cibernetica e della robotica.

Come sappiamo, l’uso dell’informazione, a seguito di questi progressi, risulta profondamente mutato. L’utente ha la possibilità di interagire e modificare quello che riceve: basti pensare alle famigerate bolle algoritmo di interessi. L’utente è in grado di decidere cosa sentire e cosa no, filtrando tutte le notizie e le informazioni che non rientrano nei propri interessi o che non gli sono congeniali. Una simile rivoluzione è stata possibile grazie a un’altra invenzione che ha cambiato radicalmente il mondo: Internet, nata negli Stati Uniti, negli anni ’60, per iniziativa delle forze armate come rete alternativa in caso di guerra nucleare.

Nel 1991 il Cern di Ginevra creò il primo server «world wide web» per permettere agli scienziati di scambiarsi informazioni composte da testo e immagini. Dal ’91 in poi, dunque, internet cominciò a entrare sempre più nelle abitazioni private: videro la luce i primi siti internet, si diffusero il commercio a distanza e la posta elettronica, nacquero i grandi provider che ancora oggi dettano legge nel mondo digitale.

Anche la cultura ha risentito della rivoluzione elettronica, nel bene e nel male. Le imprese multimediali, ovvero quelle impegnate su più settori contemporaneamente, sono aumentate notevolmente in numero anche se a questo non ha corrisposto un aumento della varietà dell’offerta; anzi, per alcuni aspetti, questo fenomeno ha spinto verso la standardizzazione dei prodotti culturali. Pubblicità molto simili tra loro; stessi formati televisivi, copiati da altri paesi; simili strategie di marketing, ma anche una certa tendenza a ripetere formule narrative di successo da parte dell’industria del cinema o di quella libraria. Un fenomeno di portata ampia che a seconda del punto di vista viene interpretato come l’inizio di «un processo di omologazione e annullamento delle culture locali» o come una grande «occasione di confronto tra le diverse civiltà del pianeta»[6].

Un periodo sicuramente complesso, portatore di novità e sconvolgimenti profondi a livello sociale, così rapido nel mutare da rendere difficile, per i contemporanei, riuscire a rapportarsi con il futuro. Tutti questi elementi diventeranno la base dalla quale sorgerà il dibattito sul Postmodernismo e sulla letteratura postmoderna, fondamentali per capire al meglio il movimento Cyberpunk.

Il Postmodernismo e la fine della storia

Oltre al contesto storico, è necessario analizzare anche il dibattito filosofico culturale dell’epoca: quello sul Postmodernismo. Il concetto di modernità come superamento di un’epoca che si percepisce come passata, lasciata indietro nel tempo, compare sin dalla tarda antichità e ha accompagnato continuamente la storia dell’umanità, delle volte prendendo un’accezione negativa, altre volte con connotati più positivi: se per esempio gli uomini del Medioevo rimpiangevano i fasti dell’Impero romano e cercavano continuamente una linea di collegamento con quei tempi, nel Rinascimento si ebbe una rottura con il passato, perché allora si riteneva che fossero i moderni a essere la civiltà più avanzata rispetto alle barbarie perpetrate nei secoli passati. Il concetto di moderno non ha solo lo scopo di identificare un’epoca particolare, ma porta con sé una funzione retorica. Fino al precedentemente citato Rinascimento, ma anche oltre:

lo schema antiqui/moderni viene utilizzato per distribuire elogi e biasimi. […] basti vedere i dialoghi di Accolti, testo ritrovato a Firenze: si tratta dell’elogio degli uomini famosi della sua epoca in confronto ai loro predecessori: un elogio messo in atto secondo una sorta di modello della produzione che può essere usato anche all’inverso[7].

Invertendo il punto di vista, si può pensare che gli uomini e le donne del passato siano un modello da seguire e lodare, mentre i contemporanei semplicemente un loro lontano riflesso, una pallida imitazione; il tempo in questo caso non può che portare a un’inevitabile decadenza e diviene esso stesso una «storia della decadenza»[8].

Il dibattito sulla modernità e successivamente, negli anni Ottanta, sul Postmoderno nacque inizialmente in ambito culturale e artistico. Solo successivamente influenzò anche la sociologia e, in una fase ancora posteriore, divenne il centro del dibattito filosofico. Proprio grazie a questo hanno visto la luce diverse teorie sulla modernità e sul suo superamento, teorie spesso in forte contrasto tra loro, che hanno finito per radicalizzare la discussione e creare due poli opposti, rappresentati da due filosofi: Lyotard e Habermas.

La base di riflessione dei due studiosi è la stessa; si parte dall’analisi degli effetti della modernità e di come agisca nella vita di tutti i giorni: «La modernizzazione è sempre all’ordine del giorno, essa costituisce indubbiamente un fine universalmente perseguito. Il volto più evidente ed aggressivo con cui essa si impone a livello mondiale, ancor prima che quello della scienza, è quello della neutralità e necessità della innovazione tecnologica»[9]. Un’innovazione tecnologica che porta con sé «l’omologazione agli stessi modelli e trend di sviluppo tecnologico»[10] che a loro volta portano all’affermazione di modalità di esistenza universali in cui il rischio è quello di smarrire le tradizioni e le identità particolari. È la novità dell’identico su scala mondiale.

Oltre alla tendenza all’appiattimento delle differenze, l’inarrestabile processo di innovazione e obsolescenza dei risultati raggiunti porta a una profonda svalutazione del concetto di novità che

pure c’è ma che in un certo senso si appiattisce in un continuum di innovazioni obbedienti ad una logica intrinseca e specialistica e di cui è sempre più arduo ritagliare con nettezza i contorni ed assimilare le svolte. Un continuum in cui il passato, identificato col tecnologicamente superato ed arretrato, non ha alcun interesse ai fini del presente, ed il futuro viene bruciato non appena è stato conquistato[11].

Se la modernità, quindi, prende i connotati di sinonimo di nuovo, di novità, il settore più emblematico dei nostri tempi, nonché uno dei più importanti, diventa quello tecnico-scientifico. Attraverso la tecnica si misurano la modernizzazione e il grado di sviluppo, ma paradossalmente «il valore stesso della innovazione si annichila di continuo proprio mentre si afferma. E questo annichilimento trascina con sé un’intera esperienza del tempo»[12]. Di fronte all’avanzare inesorabile della modernizzazione tecnico-scientifica, dunque, non si tratta più di auspicare una tecnicizzazione totale e completa della nostra società e della nostra vita né di sperare, attraverso una finalizzazione diversa, in una tecnica più umana: «se non altro perché nel frattempo, se mai c’è stato, questo “valore umano”, questo “vero soggetto”, questo “uomo autentico”, non c’è più, coinvolto esso stesso nelle trasformazioni della tecnica (aporia del ritardo di ogni umanesimo storicista)»[13].

Risulta necessario riconoscere che, in un periodo storico nel quale le grandi ideologie sono giunte naturalmente in una fase irreversibile di declino, il settore tecnico tende a presentarsi come quello più vivace, dinamico, l’unico in grado, grazie alla sua compattezza, di trascinare la società, l’unico a possedere, anche se esclusivamente nel suo settore, un futuro controllabile e in un certo modo prevedibile.

Un altro ambito che investirà il dibattito sul moderno e il Postmoderno è quello della storia. La modernità, in quanto portatrice di nuovo e sempre attuale, si è sempre mossa in profonda relazione con un passato, una tradizione. Il rapporto, come accennato, poteva essere di rottura o continuità, o sopravvivere in tutte e due le forme contemporaneamente; comunque sia, l’autocoscienza della modernità si produceva attraverso la divisione del tempo in epoche, una periodizzazione incentrata sulla rappresentazione di un presente volto sempre a un futuro, visto come un’interpretazione, positiva o negativa, di rottura o continuità, del passato.

Ciò che ci sembra allora importante sottolineare è che […] l’autocoscienza di ogni modernità si pone il problema dei contenuti e dell’eredità del passato, di ciò che del passato è vivo o morto per i moderni, nei modi della continuità e della rottura, di fatto riafferma una medesima e determinata esperienza temporale che altro non è se non l’esperienza moderna della storicità, la forma della storia. In questo modo ogni novità e nuova modernità così concepita non fuoriesce dai quadri della modernità, anzi li riafferma[14].

È proprio su questo argomento, la storia, che i due filosofi Lyotard e Habermas assumono delle posizioni diametralmente opposte. Condividono la stessa descrizione del fenomeno postmoderno, ma divergono profondamente nella sua valutazione: per entrambi la postmodernità è intrinsecamente collegata al venir meno «dei grandi “metarecits”, le metanarrazioni, che legittimavano l’iniziativa storica dell’umanità sulla via dell’emancipazione e il ruolo guida degli intellettuali in essa»[15].

Quello che per Habermas è una terribile disgrazia, ovvero l’imporsi di una mentalità prettamente conservatrice che rinuncia al progetto illuminista e che coincide per il filosofo con quello della modernità, per Lyotard invece è un passo significativo verso la via della libertà dal soggettivismo divagante e umanista dei moderni, ovvero dall’ideologia capitalista e imperialista. In entrambi i casi la fine della storia coincide con quella dello storicismo, ovvero della concezione degli accadimenti umani come inseriti in un percorso unitario con un senso, un percorso che a mano a mano si svela ed emancipa l’umanità. Emblematiche le parole di Lyotard: «La razionalità del reale è stata confutata da Auschwitz; la rivoluzione proletaria come recupero della vera essenza umana è stata confutata da Stalin; il carattere emancipativo della democrazia è stato confutato dal maggio del ’68; la validità dell’economia è stata confutata dalle crisi ricorrenti del sistema capitalistico»[16]. Le grandi metanarrazioni, quelle non create a posteriori per legittimare una serie di fatti e comportamenti, ma che, spinte da una filosofia di stampo scientista, hanno tentato di raggiungere una legittimazione totale, assoluta, attraverso un’interpretazione metafisica del corso storico, hanno perso ormai credibilità.

Habermas, al contrario, seppur riconoscendo il fallimento dei progetti emancipativi della modernità, sostiene che rimangono comunque validi nel loro fondamento storico: senza un metarecits forte, in grado di sottrarsi alla dissoluzione del tempo e alla demistificazione dello storicismo, la dissoluzione stessa finisce con il perdere significato, divenendo impossibile da pensare.

Il problema principale è la validità della storia della “fine della storia” e il suo essere o meno un altro metaracconto in grado di valere «come racconto legittimante, indicante compiti, criteri di scelta e di valutazione, e dunque ancora un qualche corso di azione dotato di senso»[17]. Anche su questo punto i due filosofi hanno posizioni opposte: «Habermas sostiene che la dissoluzione del “metarecits” (metaracconto) ha senso solo se uno di essi si eccettua, il che, in fondo, toglie alla dissoluzione dei metaracconti il senso catastrofico di fine della storia; la storia non può finire se non finisce l’umano»[18].

Habermas, dunque, crede che l’assenza di un’autonomia del postmodernismo e il suo essere legato intrinsecamente al discorso sulla delegittimazione della modernità e delle sue teorie lo rende come un semplice segno dei tempi che deriva da ragioni che vanno ricercate altrove, ovvero nell’incompiutezza della filosofia moderna. Il postmodernismo è semplicemente un sintomo causato dalla lunghissima situazione di sospensione e stallo che ha vissuto e sta vivendo il progetto emancipativo dell’Illuminismo.

La voce di un’epoca

Nonostante questo dibattito abbia esercitato una notevole influenza in ambito letterario, la scrittura postmoderna, quella Cyberpunk prima fra tutte, ha ricevuto numerosi spunti di riflessione anche dai cambiamenti avvenuti a livello sociale. Quando si tratta il periodo che va dalla fine degli anni Settanta a oggi, è molto difficile trovare un termine univoco che lo definisca: si parla di società postindustriale, dell’informazione, dei media, high-tech, suggerendoci immediatamente la velocità e la fluidità (mobilità) del mondo in cui stiamo vivendo, un mondo in continuo cambiamento e che sfugge alle definizioni statiche.

Con lo spettro del collasso del capitalismo, la società postmoderna e, cosa più importante per noi, la letteratura hanno cominciato a protendersi verso il domani, cercando d’immaginarsi il futuro. Si è cercato di pensare a un dopo in grado di rivitalizzare il presente, a un qualcosa verso cui tendere, creando così una tensione utopica e una sorta di pathos per ciò che è nuovo, che ha posto gli accenti su alcune espressioni tipiche della modernità. A livello politico, si è cercato dunque di impostare la narrazione nell’ottica di un sacrificio da compiere nel presente per dare poi un senso al futuro: soffrire ora per avere poi una vita migliore, più appagante e più equa, una società globale mossa da uno spirito unico.

Nella letteratura, ci si è concentrati sul rapporto con il passato, una questione che riguarda soprattutto il concetto di “classico” che, in un mondo perennemente in movimento, ha vita più breve. Il rischio maggiore è quello di ridurre il presente a un punto evanescente, destinato a scomparire in poco tempo, uno spazio senza passato e quindi di conseguenza senza orientamento verso il futuro.

Quali sono, dunque, le caratteristiche che vengono a delinearsi in una società così complessa e piena di contraddizioni? In una società che da una parte offre enormi possibilità ma che dall’altra sembra avvicinarsi sempre di più all’orlo del baratro? Secondo lo schema riassuntivo di Jameson:

le seguenti caratteristiche costitutive del postmoderno: una nuova mancanza di profondità che si estende anche alla teoria contemporanea e a tutta una nuova cultura dell’immagine o del simulacro; un conseguente indebolimento della storicità, sia in relazione alla Storia pubblica che alle nuove forme della nostra temporalità privata, la cui struttura schizofrenica determina nuovi tipi di sintassi o di rapporti sintagmatici nelle arti a dominante temporale; i rapporti profondi e costitutivi di tutto ciò con un’intera nuova tecnologia, che è essa stessa immagine di tutto un nuovo sistema economico mondiale[19].

Il problema principale resta l’assenza di un passato da utilizzare come riferimento che ha portato a un’esasperazione del qui e ora che a livello letterario, citando sempre Jameson, ha avuto effetti devastanti in ambito culturale, innanzitutto e soprattutto per quanto riguarda la produzione libraria.

La modernità, o meglio la corrente postmoderna, si muove in maniera complessa: risulta impossibile costruire un modello unico e generalizzabile per tutti. Si può dire, per semplificare estremamente, che questa si muova contemporaneamente in due direzioni opposte e contraddittorie; diverse posizioni, diversi approcci, diversi punti di vista portano allo sviluppo di un tipo di scrittura che non può essere altro se non frammentaria e molteplice, che tende più alla differenziazione che all’unificazione.

Le opere d’arte di una volta in altre parole ora risultano essere testi la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di sottolineate la disarticolazione a tal punto, che i materiali del testo, incluse le parole e le frasi, tendono a essere estromessi come elementi di passività inerti e casuali, separati gli uni dagli altri in modo puramente esterno[20].

La frammentazione della letteratura e della scrittura sembra essere una risposta a un’altra tendenza postmoderna che è quella della globalizzazione e dell’appiattimento che quest’ultima provoca a livello culturale. La modernità tende alla massificazione, alla banalizzazione fino alla «perdita delle caratteristiche originarie specifiche di ogni popolo, lingua compresa»[21]. Il cittadino, per utilizzare una definizione di Henri Lefebvre, scompare per lasciare spazio al consumatore. Mentre il primo voleva essere informato e rivendicava la propria importanza nella res publica, ricoprendo il ruolo di parte della società ma anche di suo critico, il secondo, il consumatore, si occupa esclusivamente di soddisfare i propri bisogni, spesso fittizi, e di avere accesso a servizi ai quali non riuscirebbe più a rinunciare.

La messa in discussione delle certezze che porta con sé il dibattito postmoderno non risparmia nemmeno la morale, anch’essa sentita dai contemporanei come priva di valore e fondamentalmente inutile. Viene esclusa categoricamente la possibilità di un sistema unitario di valori in cui la società moderna possa riconoscersi in maniera univoca e totale. La sua stessa struttura, basata sulla «differenziazione di sistemi parziali, in base alle loro funzioni»[22], tende a produrre negli individui che la compongono «criteri di priorità che non sono commisurabili con quello degli altri»[23]. Si ha quello che Luhmann definisce come privatizzazione della morale, ovvero la creazione di una morale diversa per ogni singolo che ha validità solo per lui, in risposta a una società moderna che ha completamente rinunciato alla costruzione di un sistema gerarchico tra i vari sistemi morali parziali, e che quindi non ha né un centro né un vertice: «con questa espressione s’intende simultaneamente che la totalità sociale non è più rappresentabile in termini nominativi, e che è lasciato ai singoli di avvalersi dei criteri selettivi offerti dalle valutazioni morali, accollandosi i rischi di conflittualità derivate»[24]. Neanche le nuove narrazioni sull’identità collettiva proposte dalle società contemporanee, dunque, possono sopperire a questa frammentazione tipica della modernità.

Il quadro generale è, dunque, molto complesso e articolato. C’è sicuramente un forte sentimento di rottura con il passato, molto più forte che nelle epoche precedenti, e un legame più complesso anche con il futuro. Nella letteratura questo si tradurrà in un rapporto a volte pieno di meraviglia e speranza verso il futuro, in un elogio del nuovo e di un avvenire che si è svincolato da ogni «zavorra del passato e da ogni clausola di attenzione per la realtà effettuale delle cose»[25]; altre volte, invece, si accentuerà lo spaesamento che l’eccessiva frammentazione dell’umanità provoca, esasperando gli aspetti più negativi della globalizzazione. Il movimento Cyberpunk si muoverà tra questi due estremi, senza mai cercare di trovare una posizione mediatrice, prendendo la complessità e le contraddizioni della modernità e mettendole nero su bianco, nel bene e nel male.

Origini e nascita del Cyberpunk

Entrando finalmente nel vivo del discorso, la nascita del termine “Cyberpunk” avvenne nel 1983 grazie alla penna dello scrittore di fantascienza Bruce Bethke, autore dell’omonimo racconto pubblicato sulla rivista «Amazing Stories»[26]. La scelta del termine non fu casuale, bensì una decisione precisa dello scrittore, alla ricerca di una parola che unificasse le due nature del racconto: quella fantascientifico-tecnologica e quella di ribellione contro il sistema.

Ho scritto la storia all’inizio della primavera del 1980 e, sin dalla prima bozza, era intitolata Cyberpunk. Nel chiamarla così, stavo cercando attivamente di inventare un nuovo termine che si giustapponesse tra atteggiamenti punk e alta tecnologia. Le mie ragioni per farlo erano puramente egoistiche e orientate al mercato: volevo dare alla mia storia un titolo scattante e di una sola parola che gli editori avrebbero ricordato. […]. Come ho effettivamente creato la parola? Nel modo in cui nasce una nuova parola, immagino: attraverso la sintesi[27].

Il movimento Punk nato verso la metà degli anni ’70, infatti, ebbe un ruolo non indifferente nella letteratura Cyberpunk. Sviluppatosi a cavallo tra Inghilterra e Stati Uniti, emerse come risposta all’eccessiva complessità del rock progressivo, ormai spogliato completamente della sua autentica grezza forza rivoluzionaria e diventato molto manieristico, ingabbiato nelle logiche dello showbiz dell’epoca. La voglia d’indipendenza del Punk si rifletteva nell’atteggiamento Do-It-Yourself o in breve DIY, ovvero fai da te. Le band si esibivano in locali indipendenti, si prodigavano autonomamente per i loro album, senza appoggiarsi a etichette discografiche, e registravano i pezzi con attrezzatura amatoriale. Simile atteggiamento si manifestava anche nei testi, spesso inerenti a problematiche sociali, con toni di protesta, quando non profondamente disillusi. Basti pensare a uno dei motti del movimento, ovvero No Future[28], che rispecchia perfettamente il suo sentimento di pessimismo verso il futuro nonché il rifiuto totale delle aspettative e delle convenzioni sociali tradizionali. Lo stile grezzo e le tematiche disilluse del No Future ebbero un’eco enorme nei testi cyberpunk, che molto spesso svilupparono le loro storie su figure di emarginati in lotta contro poteri più grandi di loro e, proprio per questo, destinati, la maggior parte delle volte, a fallire.

Tornando a Bethke, il suo racconto è importante non solo per aver coniato il termine “Cyberpunk”, ma per aver tratteggiato una delle figure tipiche degli eroi di questi romanzi, una figura indissolubilmente legata alla controcultura Punk e all’idea di ribellione in generale, quella dell’hacker:

Al di là della primogenitura del termine Cyberpunk, questo racconto è importante perché inventa lo stereotipo dell’Hacker punk con un mohawk. Protagonista della storia è infatti un adolescente che vive immerso in un mondo completamente tecnologico, che affronta con i suoi coetanei e con una propria cultura, diversa da quella della società tradizionale[29].

Bruce Sterling, altro autore fondamentale del movimento, in The Hacker crackdown approfondì ulteriormente l’argomento. La figura dell’hacker che emerge dal testo ha contorni decisamente sfumati: un po’ fuorilegge e un po’ eroe impegnato a combattere il sistema oppressivo. Sterling, tuttavia, è convinto del carisma che tali personaggi possiedono e non a caso saranno proprio i pirati informatici a essere al centro dei suoi romanzi cyberpunk:

[…] ma è una parte profonda e preziosa del carattere nazionale americano. Il fuorilegge, il ribelle, l’individuo forte, il pioniere, l’agricoltore resistente di tipo jeffersoniano, il cittadino privato che resiste alle interferenze nella sua ricerca della felicità: queste sono figure che tutti gli americani riconoscono e che molti sosterranno e difenderanno con forza[30].

L’aura romantica che ammanta questi personaggi è riconducibile al periodo in cui Sterling scrive, un periodo nel quale la cultura hacker non era legata, come oggi, ai crimini digitali o alla guerra informatica, ma si concentrava per lo più sull’esplorazione creativa dei sistemi informatici e sulla condivisione di informazioni.

Per quanto riguarda la creazione delle ambientazioni cyberpunk, un ruolo fondamentale per la costruzione dell’immaginario estetico di questo movimento letterario lo hanno giocato il mondo dei fumetti e del cinema. Molte delle labirintiche megalopoli di questo genere letterario si basano, infatti, su quanto visto nelle tavole de L’Incal di Moebius e nelle scene del capolavoro di Ridley Scott Blade Runner[31], a sua volta ispirato da Do androids dreams of electric sheep? di Philip K. Dick.

Il primo capitolo di L’Incal nacqe nel 1981, a seguito dell’incontro tra Alejandro Jodorowsky, noto regista cileno, e Jean Giraud, in arte Moebius. L’opera completa composta da sei volumi venne finita di pubblicare solamente sette anni dopo. Il fumettista francese era riuscito nell’intento di tratteggiare un universo ricco di dettagli, dove tutto è possibile, alternando con abilità passaggi completamente surrealisti a design di tecnologie fantascientifiche dettagliate e verosimili, fornendo nuovi elementi agli scrittori di sci-fi sui quali riflettere e sviluppare storie, soprattutto per quanto riguarda i cyberpunk. L’opera ottenne un grande successo, tanto che lo stesso Ridley Scott la citò fra le fonti d’ispirazione principali del suo Blade Runner, soprattutto per quanto riguarda la creazione della città e delle atmosfere cupe.

Le linee guida di Mirrorshades

Chiudendo con la breve presentazione delle fonti d’ispirazione del Cyberpunk, passiamo ora al primo manifesto del movimento, ovvero Mirrorshades[32], un’antologia di racconti che contiene al suo interno, nella lunga introduzione di Sterling, alcuni dei capisaldi della letteratura cyberpunk, delle sue caratteristiche principali, dalle tematiche trattate fino allo stile di scrittura.

Il manifesto si apre con la spiegazione della scelta del nome per il movimento, nome che aveva il compito di sintetizzare al suo interno le varie anime dello stesso, quella fantascientifica e quella rivoluzionaria:

Un neologismo che sembrava ostico anche agli orecchi di un lettore anglosassone ma che ebbe la capacità di sintetizzare immediatamente, di quel fenomeno, due aspetti centrali e in apparente contraddizione, come nella musica nella seconda metà degli anni Settanta con i Sex pistols e i Clash, il termine “punk” rimandava a un atteggiamento di rottura non solo nei confronti delle regole di un linguaggio (in quel caso il rifiuto di usare la sia pur minima sintassi musicale) ma più in generale nei confronti di uno stile di vita conforme a regole di convivenza stabilite che negavano l’individualità. Il termine cyber ricordava invece esplicitamente la cibernetica di Norbert Wiener, la nuova scienza del controllo degli organismi artificiali[33].

Secondo Sterling, l’elemento che lega i racconti dell’antologia e che la rende letterariamente omogenea è la presenza di un forte legame con la cultura di strada, strettamente connessa all’atteggiamento punk, soprattutto per quanto riguarda la lingua utilizzata. Sotto un’apparente eccessiva diversificazione di tematiche e personaggi, è possibile ritrovare «la costante di un linguaggio di frontiera che permette a culture marginali, etniche, di piccole comunità, al limite individuali»[34], di riuscire a incontrarsi, comunicare.

L’autore successivamente si dedica agli aspetti più contenutistici del movimento; utilizzando come base di partenza l’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione di quel periodo, i Cyberpunk, ognuno in maniera autonoma, immagineranno un futuro diverso ma sempre simile, come spiegato nell’introduzione di Daniele Brolli e Antonio Caronia, curatori dell’edizione italiana di Mirroshades:

Questa situazione, dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione alla recente invenzione delle realtà virtuali, vede un intreccio di sensorialità, di attività cognitive, di emotività il cui luogo non è più solo la mente e il corpo dell’uomo, ma è improvvisamente una nuova sede virtuale in cui uomo e macchina si incontrano. Il cyberpunk ha intuito ed evidenziato prima di altri questo inedito destino[35].

Il Cyberpunk, afferma Sterling, è senza dubbio un prodotto degli anni ’80 e a essi riconducibile; tuttavia non va trascurata la profonda influenza che la letteratura di fantascienza precedente ha avuto sul movimento: «i loro precursori sono legioni», come dirà lo stesso autore.

Una delle prime fonti d’ispirazione del movimento a essere citata è la cosiddetta New Wave della fantascienza, un movimento che ha preso piede a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, che vede in James Ballard e Samuel Delany i suoi due massimi autori. Un aspetto centrale della scrittura di questi due autori[36], Delany soprattutto, che verrà ripreso anche dal Cyberpunk, è lo stile narrativo decisamente lontano da quello convenzionale; si predilige una scrittura non lineare, ricca di neologismi e giochi di parole, che costringono il lettore a uno sforzo per entrare appieno nel testo. La New Wave[37] si caratterizza per una forte componente emotiva dei suoi personaggi, prediligendola anche agli elementi scientifici e tecnologici della narrativa sci-fi classica; tuttavia, come nel Cyberpunk, c’è la tendenza a utilizzare la fantascienza come strumento esplorativo delle complesse dinamiche politiche e sociali presenti all’interno dei vari romanzi come, ad esempio, l’impatto della tecnologia nella vita dell’uomo e l’alto grado di disumanizzazione che un suo uso eccessivo può portare. Viene meno, in breve, l’idea della scienza e della tecnologia dei positivisti, che la vedevano come un faro per l’umanità e per la salvezza del pianeta, una lettura che all’interno di questi scrittori assume tinte più sfumate se non decisamente negative.

Il manifesto prosegue citando gli autori della fantascienza visionaria, forse la più importante per il genere Cyberpunk, che vede in Philip K. Dick e Thomas Pynchon i suoi esponenti maggiori. Quest’ultimo fu di particolare importanza soprattutto per l’influenza avuta su William Gibson, che lo citava apertamente e più volte come una delle sue maggiori fonti d’ispirazione[38], soprattutto per quanto riguarda il suo stile di scrittura articolato e l’approccio profondamente postmoderno alla narrazione.

Pynchon, infatti, è celebre soprattutto per il suo modus scribendi che spesso lega le sue strutture narrative non lineari alla costruzione di mondi intricati, non disdegnando l’utilizzo di neologismi creati ad hoc per descrivere elementi fantascientifici, tutti aspetti che comparvero in maniera massiccia nella Trilogia dello Sprawl di Gibson. L’opera di Pynchon che forse ha più influenzato lo scrittore cyberpunk è Gravity’s Rainbow[39] del 1973, un romanzo epico che esplora temi come la paranoia, la tecnologia, la guerra e il potere, e nel quale compare maggiormente la grande abilità di Pynchon nel giocare con le parole.

Pynchon, e ovviamente anche Dick, hanno inoltre contribuito allo sviluppo di tematiche molto care al movimento Cyberpunk come, ad esempio, l’onnipresente rapporto con la tecnologia. Entrambi gli autori hanno esplorato a fondo questo aspetto; Dick in Do Androids dream of Electic Sheeps? mette proprio al centro della sua narrazione la questione dell’etica legata allo sviluppo di esseri artificiali senzienti, andando oltre Isaac Asimov, e riuscendo a dipingere i suoi replicanti come più umani degli umani, in un ribaltamento completo delle prospettive. Il confine tra giusto e sbagliato tende a diventare nebuloso nei romanzi di Dick, un atteggiamento che molte opere Cyberpunk riprenderanno, dove le linee tra bene e male non sono mai tracciate in maniera netta.

Dopo aver omaggiato la base letteraria del Cyberpunk e averne riconosciuto i debiti, nel suo manifesto Sterling passa a definire la differenza del movimento rispetto alla letteratura sci-fi classica, concentrandosi prima di tutto sul profondo legame con la controcultura punk, soprattutto per quanto riguarda la forte carica eversiva e la voglia di rompere gli schemi tradizionali.

Altra peculiarità degli esponenti del Cyberpunk, secondo lo scrittore, è che sono la prima generazione di autori sci-fi a non essere cresciuti «soltanto all’interno della fantascienza come tradizione letteraria, ma in un vero e proprio mondo fantascientifico»; il legame che tiene unito il movimento, dunque, non è esclusivamente di natura letteraria, ma quasi generazionale.

Considerare il Cyberpunk un movimento più generazionale che letterario permette un approccio più trasversale all’argomento e, in parte, potrebbe spiegare il profondo successo in quegli anni; il lavoro dei cyberpunk trova diverse corrispondenze in campi apparentemente lontani da quello della letteratura, diventando un vero e proprio fenomeno pop. Grazie alla sua trasversalità, il Cyberpunk riesce a ridurre la distanza, l’enorme abisso sempre esistito tra la cultura letteraria (e delle arti) e il mondo della cultura scientifica e dell’ingegneria. Per Sterling il venir meno di questo abisso è legato al periodo storico; un periodo nel quale i progressi della scienza sono a tal punto radicali e sconvolgenti che risulta impossibile limitarli e contenerli: influenzano inevitabilmente la cultura nel suo insieme, pervadendola sotto ogni aspetto. Inevitabile, dunque, che la figura del ribelle punk degli anni ’80 finisca per intrecciarsi con argomenti legati allo sviluppo tecnologico, dando vita a questa strana unione tra controcultura e tecnologia.

Partendo dalla realtà, il Cyberpunk proietta ciò che vede in un futuro non troppo distante, esasperandone gli aspetti positivi e negativi, con il risultato di creare un qualcosa che «si stenta a definire realtà perché i suoi termini e i suoi confini sfuggono di continuo alla percezione della logica». Solo attraverso un’analisi destrutturale completa, concentrandosi sull’elemento individuale all’interno della narrazione è possibile «fare luce sul nucleo più remoto, segreto e vero, su quella più reale dei processi e delle contraddizioni del mondo dell’individuo[40]».

Nel Cyberpunk, dunque, la tipica esplorazione spaziale della fantascienza viene completamente ribaltata:

le modalità del viaggio si sono spostate dall’esplorazione dei pianeti a quelle, contrarie, dall’esterno verso l’interno: una rappresentazione interiore anche psicoanalitica, ma non necessariamente tale, a condizione che il lettore in prima persona decida quale chiave di lettura utilizzare. Perché viene posto di fronte a un mondo che si sta delineando all’orizzonte, in una presa diretta che registra gli scossoni di una nuova mutazione della sensibilità[41].

Nonostante presenti diversi elementi di rottura con la tradizione letteraria classica, il Cyberpunk può essere accostato alla letteratura di tipo fantascientifico, più precisamente al genere distopico. L’appartenenza a questa sottocategoria della fantascienza è legata al tipo di mondo e di futuro che viene descritto nei romanzi di questo genere, molto raramente positivo, anzi, molto spesso catastrofico sotto diversi aspetti. La letteratura catastrofista ha sempre suscitato un notevole interesse, riuscendo ad appassionare generazioni di lettori sin dalla sua nascita. La ragione di ciò sta nell’indubbio fascino che le situazioni di orrore, paura e terrore generano, riuscendo a tenere il lettore coinvolto nella lettura, tutte caratteristiche che sono comuni in ogni opera distopica. L’altro elemento fondamentale è il potere esorcistico che simili opere esercitano, soprattutto attraverso l’assenza del classico lieto fine a chiudere la narrazione.

Sulla maggiore utilità di un finale negativo rispetto a uno lieto si pronunciò già Leopardi nello Zibaldone. Secondo lo scrittore, il lieto fine ha la pecca d’illuderci che la giustizia e l’ordine possano essere ristabiliti in maniera definitiva, un avvenimento possibile solo nella nostra immaginazione. Senza il lieto fine, al contrario, nel lettore rimane una certa sensazione di disagio e rincrescimento per l’esito della storia; le ferite non vengono risanate, le varie tensioni e situazioni sospese all’interno dell’opera continuano ad agire anche al suo termine, lasciando così un segno più profondo in chi legge.

Il genere distopico ha la caratteristica di rapportarsi con realtà alterative, situate quasi sempre in un futuro prossimo, con lo scopo di permettere al lettore di agire al fine di evitare che un disastro annunciato diventi realtà. Contiene un «avvertimento di un esito che però, non essendo per il momento avvenuto, può essere ancora impedito»[42]. La scoperta del rapporto di continuità che intercorre tra il nostro mondo, quello di chi legge per intenderci, e l’universo parallelo immaginato dallo scrittore, un universo del quale non si conoscono le leggi e le regole e quindi imprevedibile, provoca un profondo disagio e un motivo di allerta.

Altro elemento condiviso che il Cyberpunk condivide con la letteratura distopica è l’assenza di eroi degni di questo nome, capaci di ribaltare gli esiti della storia attraverso azioni fuori dal comune. Il ruolo dell’eroe si limita per lo più a quello di osservatore, sicuramente consapevole di quello che sta accadendo ma incapace di agire in qualsiasi modo per evitare la catastrofe dalla quale spesso viene completamente travolto.

La narrativa distopica-cyberpunk, quindi, si presenta con delle caratteristiche ben precise: la prima riguarda il personaggio, che vive ai margini della società, è una «figura di outsider ribelle o sopravvissuto che sia, che entra in contraddizione con il mondo distopico e in tal modo ne porta alla luce l’aspetto aberrante»[43], una sorta di visitatore-osservatore che porta le scomode vesti del perseguitato; la seconda caratteristica fondamentale riguarda l’enunciato del racconto, sempre definito da toni cupi e pessimistici, ma che «viene negato dal suo atto di enunciazione che di per sé risulta essere intrinsecamente ottimistico, nel senso che presuppone, malgrado tutto, che valga ancora la pena raccontare[44]»; terza caratteristica fondamentale di questo genere letterario è la sua mancanza di confini ben delimitati, mancanza che si traduce nella difficoltà di individuare quale sia l’elemento più decisivo «se la trama oppure il mondo possibile perché il punto nevralgico è proprio il pericolo che quell’esito immaginario possa verificarsi»[45].

Per quanto sempre proiettato nel futuro, il genere distopico ha, come già accennato, un profondo legame con il presente e non tenta mai di proporsi come una letteratura leggera o evasiva. In un certo senso la distopia è quella che più si avvicina alla storia: forse è la forma di racconto più radicalmente storica dei nostri tempi. Questa, infatti, si mette perennemente a confronto in maniera spesso sofferta e contrastante, con il presente e con «il corso storico e i suoi esiti tendenziali»[46].

Nel Cyberpunk le tematiche maturate da speculazioni su problemi presenti sono innumerevoli: basti pensare alla rappresentazione che viene fornita della società moderna capitalista, attraverso le descrizioni dello strapotere delle megacorporazioni, agglomerati di multinazionali che con i loro investimenti e il loro denaro controllano direttamente la politica del mondo, non curandosi affatto dei danni che le loro manovre causano alla società e agli strati di popolazione meno abbienti.

La critica al capitalismo, e al sistema di valori a esso strettamente legato, è un motivo ricorrente di gran parte della letteratura Cyberpunk ma anche di quella fantascientifica classica. Ricordiamo, ad esempio, l’opera di Herbert George Wells The time Machine del 1895, dove è l’autore stesso a dichiarare in maniera esplicita che il divario tra benestanti e non è un baratro che non può far altro che allargarsi. Nel libro, ricchi e poveri abitano in due zone diverse: i primi alla luce del sole, in alto in grattacieli tra le nuvole dove l’aria è ancora respirabile; i secondi, al contrario, occupano i piani più bassi, fino ai livelli sotterranei dove sono situate la maggior parte delle fabbriche, lontane dagli sguardi della popolazione più abbiente. La stessa dinamica tra alto e basso, povero e ricco, verrà rappresentata ancora meglio dalle imponenti architetture del già precedentemente citato film di Ridley Scott, Blade Runner, a loro volta provenienti dalla space-opera a fumetti L’Incal di Moebius, pubblicata nei primissimi anni Ottanta. Nelle sue tavole, infatti, l’autore disegnava delle città a strati, dove gli edifici si sovrapponevano così densamente da rendere impossibile vedere la cima della città o il suo fondo: una metropoli di tali dimensioni da rendere gli umani solo delle sagome confuse, quando li si osserva. Un ridimensionamento del ruolo dell’uomo, ridotto a una particella insignificante facente parte di un organismo più grande, quello della città appunto, e che, attraverso questo ripensamento della sua centralità, finisce con il perdere la sua vera essenza: la sua individualità.

A questa riflessione se ne lega un’altra: quella sullo svilupparsi di mezzi comunicazione sempre più sofisticati ma sempre più virtuali, che ormai influenzano in maniera inevitabile il nostro modo di vivere la socialità e il contatto con gli altri esseri umani. I non eroi dei romanzi cyberpunk vivono in un profondo stato di solitudine in mezzo alla gente. Alla lontananza fisica provocata dai mezzi di comunicazione si aggiunge un’esasperazione dei valori della società dell’immagine, basata sull’aspetto esteriore, sul rincorrere canoni estetici inarrivabili, sul dover arrivare al successo a tutti i costi; tutti elementi che tendono a isolare ancora di più l’individuo dal suo prossimo, creando quello stato di dissociazione dall’umanità tipico dei protagonisti del Cyberpunk. Secondo Jameson, il problema nasce proprio nei tempi moderni:

nell’esaminare il declino dell’affetto, la cosa migliore forse è cominciare dalla figura umana; è evidente che ciò che è vero per la mercificazione dell’oggetto vale ancora di più per la figura umana: le stelle del cinema sono già mercificate e trasformate nella propria immagine. […] quando si costituisce la propria soggettività individuale come un campo autosufficiente e un regno chiuso su se stesso, ci si preclude l’accesso a ogni altra cosa, costringendosi all’asfittica solitudine della monade, sepolti vivi e condannati a una prigione senza uscita[47].

Riconducibile al discorso sulla paura per lo sviluppo tecnologico incontrollato, troviamo un altro tema mutuato dalla letteratura passata, ma che il movimento Cyberpunk ha fatto suo, rielaborandolo completamente e in maniera originale: il tema del cyborg e dell’orrore per l’umanità deformata. Nel Cyberpunk il tema dell’inumano viene affrontato attraverso la figura del cyborg, ibrido tra uomo e macchina che mette seriamente in discussione «la necessità delle parti e le loro gerarchie interne, permettendo di ri-significare i confini funzionali di ciò che è rispetto a come potrebbe e dovrebbe essere»[48].

Negli anni Ottanta, questi scenari con uomini metà macchina, capaci di interfacciarsi ad altre macchine o di connettersi alla rete, rimanevano confinati all’interno della narrativa di fantascienza o nel cinema. Agli occhi di un lettore del XXI secolo, invece, non sembrano distaccarsi troppo dalla realtà; basti pensare alla tecnologia Neuralink che, nel momento della stesura di questo testo, ha raggiunto lo stadio della sperimentazione umana, con una lunghissima lista d’attesa di volontari pronti a farsi impiantare questo chip nel cervello. La tecnologia, sviluppata dall’omonima azienda di Elon Musk, ha creato un microchip capace di registrare ogni segnale del cervello e di collegarsi a un computer, aprendo nuove frontiere e allargando i confini dei limiti delle capacità umane di integrarsi con la tecnologia. L’architettura interna del cervello umano è stata, ormai, quasi completamente codificata, annunciando la dissoluzione completa dei confini del corpo umano. Ciò che era semplicemente un elemento di speculazione per la letteratura distopica e cyberpunk è divenuto oggi realtà. Questa fusione tra uomo e macchina apre nuovi orizzonti e possibilità: l’essere umano diventa a tutti gli effetti un cyborg con estensioni invisibili e impercettibili.

Abbiamo precedentemente parlato della distanza tra i ceti benestanti e non nella letteratura Cyberpunk, una distanza che si concretizza in un sistema che ricorda quello delle caste; nella letteratura distopica esistono diversi tipi di organizzazioni sociali simili, spesso intrinsecamente legati al concetto di assolutismo nelle sue versioni più morbide, se così si possono chiamare. La narrazione di realtà assolutistiche negative, siano esse ottenute attraverso l’uso della forza o con mezzi più subdoli, si collega a un’altra tendenza profondamente legata alla letteratura distopica che molto spesso compare anche nel Cyberpunk, ovvero quella del complottismo.

Il complottismo, secondo Jameson, «è un processo immaginativo chiaramente osservabile in un intero filone della letteratura d’intrattenimento contemporanea», che nel Cyberpunk s’identifica spesso con una paranoia verso le tecnologie. Sovente, delle IA fuori controllo utilizzano le loro capacità per ordire complicatissime trame; altre volte, invece, il complotto è lasciato nelle mani degli umani. Nel Cyberpunk, infatti, saranno le corporazioni più che gli stati a farsi guerra, portando il conflitto su scala privata ma con conseguenze globali. Il proliferare delle teorie della cospirazione, sempre secondo Jameson, è dovuto alla grande complessità del sistema moderno, caratteristica che risulta difficile comprendere appieno e che, quindi, spinge a interpretazioni molto spesso fantasiose:

La teoria della cospirazione deve essere considerata come un tentativo degradato attraverso la rappresentazione formale di una tecnologia avanzata di pensare l’impossibile totalità del sistema mondiale contemporaneo. Soltanto nei termini di quell’altra realtà, quella delle istituzioni economiche e sociali, enorme e minacciosa ma percepibile soltanto oscuramente, è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno[49].

Luogo preferito dalla letteratura Cyberpunk nel quale ambientare i suoi complotti è il cyberspazio, termine comparso per la prima volta nel 1984 ad opera della penna di William Gibson, uno dei padri fondatori della corrente, nella sua opera Neuromante.

Il cyberspazio è, semplificando molto, una sorta di universo parallelo al nostro, basato sui sistemi delle reti globali e sulla comunicazione informatica, un mondo in cui avvengono scambi di ogni genere: conoscenze, segreti, svaghi. Una specie di rete internet ma molto più interattiva, nella quale, attraverso l’utilizzo di specifiche tecnologie, è possibile muoversi come nella vita reale. Il cyberspazio, tuttavia, non è semplicemente un’enorme banca dati accessibile a tutti, come appunto internet; il suo ruolo nella letteratura Cyberpunk è ovviamente ben più complesso: è una sorta di luogo mentale collettivo dove si vengono a configurare nuovi simboli. Siamo davanti a un fenomeno molto più complesso di quanto s’immagini: una «potente tecnologia mnemonica collettiva che promette di avere un impatto, se non rivoluzionario, almeno importante sulla futura composizione delle identità delle culture umane»[50].

Gibson, oltre ad aver coniato il termine, ha dedicato molta attenzione alle implicazioni di natura sociale ed economica di questo spazio nel contesto del mondo postindustriale e postmoderno. La sua scelta di trattare una società fondata sull’informatica e basata su di un’economia di stampo transnazionale, e cyberspaziale, è una scelta interessante soprattutto perché, come osserva anche il suo collega Sterling, viene dipinta «come se fosse viva, non come arida speculazione»[51].

La realtà virtuale del ciberspazio, come detto, permette un’interazione totale con il mondo dell’informazione; è un luogo «consensuale tridimensionale o, con la terminologia di Gibson, una allucinazione consensuale in cui è possibile visualizzare, sentire e perfino toccare i dati»[52]. I dati e gli individui o, meglio, la loro rappresentazione tridimensionale, in questa realtà alternativa, hanno una propria forma, una tecnologia che negli anni ’80 sembrava pura fantascienza ma che oggi lo è decisamente meno: basti pensare al progetto del Metaverso di Mark Zuckerberg.

Il termine Metaverso deriva direttamente dalla letteratura Cyberpunk, e più precisamente da un’opera di Neal Stephenson intitolata Snow Crash[53] dove l’autore descrive una realtà virtuale condivisa tramite internet nella quale è possibile interagire tramite un avatar. Il progetto di Zuckerberg ricalca più o meno quello del libro: la creazione di un cyberspazio condiviso da tutti nel mondo reale. Allo stato attuale siamo molto distanti dalla realizzazione di quanto immaginato da Gibson; tuttavia, alla velocità con la quale la tecnologia procede, l’obiettivo sembra oggi più che mai alla nostra portata.

Il cyberspazio rappresenta un cambiamento radicale del modo con cui interagiamo con i dati. Ad oggi, le informazioni sono altro rispetto a noi, sono esterne; l’idea di cyberspazio rivoluziona questo rapporto, collocando noi stessi all’interno dell’informazione.

La diffusione della cyber-parola: il ruolo delle riviste

La diffusione del Cyberpunk è stata molto rapida, probabilmente anche a causa del grande successo di alcune pellicole a esso riconducibili come il già citato Blade Runner, uscito nel 1982 mentre Gibson era ancora impegnato nella stesura del Neuromante ‒ che, a detta dello stesso scrittore, conteneva al suo interno tutto quello che voleva scrivere; la visione del film colpì a tal punto lo scrittore che al termine della proiezione, uscì dalla sala in lacrime ‒; o John Mnemonic[54], quest’ultimo ispirato direttamente all’omonimo racconto di Gibson; o altri numerosi film d’ambito fantascientifico come Terminator[55] o Robocop[56]. Un ruolo centrale lo ebbe anche il settore dell’animazione e quello dei fumetti con il manga Akira, successivamente portato sul grande schermo nel 1988 da Katsuhiro Otomo, autore giapponese nato come fumettista, poi divenuto un regista, e che ha contribuito, principalmente grazie alla trasposizione filmica della sua opera, alla diffusione di anime e manga in Occidente e in Italia.

Oltre all’indubbia importanza della produzione cinematografica dell’epoca, un ruolo predominante per la diffusione del cyberpunk tra il grande pubblico lo ebbero le riviste letterarie. Per quanto riguarda la lingua inglese, le più importanti, anche se non le uniche, furono l’americana «Amazing Stories» e l’inglese «Interzone», riviste nate per la fantascienza classica ma che tra gli anni Ottanta e Novanta ospitarono numerosissimi racconti dedicati al Cyberpunk.

La più vecchia è «Amazing stories», nata nell’aprile del 1926 grazie alla casa editrice di Hugo Gernsback[57], la Experiementer Publishing, fondata nel 1915 e fin da subito attiva nel campo dell’innovazione scientifica con riviste quali «Electrical Experiementer», dedicata interamente alle invenzioni più recenti.

«Amazing stories» venne pubblicata, con qualche interruzione, per novantadue anni, cambiando diversi editori a causa delle difficoltà di vendita. L’approccio editoriale pensato da Gernsback, però, fu costante, nonostante i vari cambi di gestione: una giusta commistione tra autori vecchi e nuovi, con sempre un occhio di riguardo per la qualità letteraria, senza però rinunciare all’aspetto puramente d’intrattenimento. Gernsback credeva fermamente nel potere formativo della letteratura di fantascienza e nel dialogo con il pubblico; proprio per questo decise di dedicare una rubrica della sua rivista alle lettere dei lettori: «the letter columns in Amazing, where fans could make contact with each other, led to the formation of science fiction fandom, which in turn had a strong influence on the development of the field»[58]. Numerosissimi gli scrittori che hanno pubblicato sulle sue pagine, come John Campbell, Isaac Asimov e, per quanto riguarda il Cyberpunk, Gibson, Sterling, Rudy Rucker, autore dell’articolo What is Cyberpunk, e Bruce Bethke, autore del racconto Cyberpunk!, che diede successivamente il nome al movimento letterario. La rivista ha chiuso in maniera definitiva la pubblicazione cartacea nel 2005, ma sopravvive ancora oggi in versione digitale[59].

«Interzone» nasce, invece, in Inghilterra nel 1982 grazie a un collettivo di otto appassionati: John Clute, Alan Dorey, Malcolm Edwards, Colin Greenland, Graham James, Roz Kaveney, Simon Ounsley e David Pringle, tutti fan della rivista di fantascienza «New Worlds»[60]. Secondo Alan Dorey, l’idea alla base del gruppo era quella di ricreare «New Worlds per gli anni ’80, qualcosa che pubblicasse solo grandi romanzi e sarebbe stato uno sbocco adeguato per i nuovi scrittori»[61]. Nel 1984 il progetto del collettivo editoriale destò l’interesse di David Pringle che decise di finanziarlo, diventando a tutti gli effetti il motore economico della rivista. Con l’affermarsi della stessa arrivò il sostegno di varie associazioni culturali come l’Arts Council of Great Britain, la Yorkshire Arts e la Greater London Arts Association.

La rivista viene inizialmente pubblicata con cadenza trimestrale, dal 1982 all’estate del 1988, data in cui avvenne il passaggio alla pubblicazione bimestrale, fino al 1990. Da questa data in poi, per più di dieci anni, «Interzone» è uscito mensilmente in edicola fino al 2003, dove a causa di diversi problemi di programmazione e slittamenti è tornato al formato dei due mesi. Nonostante le difficoltà, la rivista è oggi ancora in attività, unica tra quelle storiche degli anni Ottanta a non essere mai stata interrotta. Oltre ad aver ospitato al suo interno grandi firme della fantascienza classica e della New Wave, ha contribuito alla diffusione del Cyberpunk, dando spazio ad autori maggiori, come Gibson e Sterling, e a numerosi loro emulatori.

Sterling è stato particolarmente attivo sulle pagine di «Interzone», pubblicando una serie di sei articoli sulla fantascienza, di cui uno, l’ultimo, specificamente sul Cyberpunk, intitolato Cyberpunk in the Nineties, uscito nel giugno del 1991. In questo articolo lo scrittore fa il punto sullo stato del movimento, percorrendone le tappe fondamentali e partendo dal suo organo di propaganda:

Cyberpunk’s one-page propaganda organ, Cheap Truth, was given away free to anyone who asked for it. It was never copyrighted; photocopy “piracy” was actively encouraged. Cheap Truth’s contributors were always pseudonymous, an earnest egalitarian attempt to avoid any personality-cultism or cliquishness. Cheap Truth deliberately mocked established “genre gurus” and urged every soul within earshot to boot up a word- processor and join the cause. CT’s ingenuous standards for SF were simply that SF should be “good” and “alive” and “readable”. But when put in practice, these supposed qualities were something else again. The fog of battle obscured a great deal at the time[62].

Sterling sottolinea come inizialmente una delle linee guida principali del Cyberpunk fosse quella di scrivere in modo da superare, abbandonare definitivamente le forme classiche della narrativa di fantascienza classica, ormai affollata di trame sempre uguali e da invenzioni narrative di poco impatto. L’assenza di confini ben definiti e un’enorme libertà espressiva formale furono per molto tempo le due maggiori cifre stilistiche della narrativa Cyberpunk. I problemi, secondo Sterling, cominciarono quando il movimento cominciò a essere riconosciuto in quanto tale:

When “cyberpunk writers” began to attract real notoriety, the idea of cyberpunk principles, open and available to anyone, was lost in the murk. Cyberpunk was an instant cult, probably the very definition of a cult in modern SF. Even generational contemporaries, who sympathized with much Cheap Truth rhetoric, came to distrust the cult itself, simply because the Cyberpunks had become “genre gurus” themselves[63].

Sterling spiega come il Cyberpunk sia qualcosa che prescinde dalle singole opere prodotte da un autore. Non tutto quello che scrivono i Cyberpunk è cyberpunk: basti pensare che Sterling stesso ha sempre avuto un debole per il fantasy d’ambientazione storica; Shiner per i racconti del mistero; Shirley per quelli dell’orrore e Gibson, in maniera abbastanza sorprendente, ha una forte passione per le storie brevi di carattere comico. Secondo Sterling, dunque, il Cyberpunk rimarrà in vita finché gli autori di questo movimento, che si son fatti portavoce di una generazione, non saranno morti e sepolti. E, scherza Sterling, «demographics suggest that this is likely to take some time».

Sterling sposta successivamente il suo discorso su come, ora più che mai, sia necessario un movimento in grado parlare della realtà, senza voltarsi dall’altra parte. Il problema principale al giorno d’oggi, per l’autore è che «We’re just not much good any more at refusing things because they don’t seem proper. As a society, we can’t even manage to turn our backs on abysmal threats like heroin and the hydrogen bomb. As a culture, we love to play with fire, just for the sake of its allure»[64]. Proprio per questo, secondo l’autore, è necessario un nuovo cyberpunk, capace di mettere in luce le enormi contraddizioni della società contemporanea e di mostrarne tutta l’ipocrisia. Questo atteggiamento, anima del Cyberpunk, è per Sterling l’eredità del movimento, un qualcosa che sfugge alle etichette e alle definizioni, e che è destinato a sopravvivere alla morte del Cyberpunk in senso stretto.

Mentre nei paesi anglosassoni si parlava della fine del movimento, questo trovava nuova linfa vitale nel vecchio continente. In Francia, ad esempio, la rivista «Métal Hurlant»[65], dedicata principalmente ai fumetti d’autore, pubblicò proprio in quel periodo numerosi scrittori Cyberpunk.

La rivista nacque nel 1975, in un periodo contraddistinto da numerose innovazioni per quanto riguardava l’editoria a fumetti francese. Il fondatore Jean-Pierre Dionnet era uno sceneggiatore appassionato di fantascienza con il sogno di creare una rivista a essa esclusivamente dedicata e destinata a un pubblico maturo. Il numero di debutto poté contare su grandi nomi di autori francesi come Philippe Druillet[66] e Moebius, autore del già citato L’Incal e molto legato al Cyberpunk, e sulle competenze editoriali di Bernard Farkas[67].

La rivista venne pubblicata dalla neonata Les Humanoides Associes, fondata proprio dagli stessi autori in concomitanza con l’uscita del primo numero di «Métal Hurlant». Fu un esperimento inedito per la Francia, profondamente ispirato dalla fumettistica alternativa sudamericana, esplosa un decennio prima con la rivista argentina «Hora Cero», ma con linee guida più morbide per gli autori, lasciati liberi «di esprimere sé stessi senza alcuna barriera se non l’aspirazione alla qualità assoluta»:

La rivista ebbe un impatto culturale enorme sul panorama a fumetti dell’epoca, grazie al desiderio di innovare e di andare oltre quelli che erano i paradigmi della fantascienza a fumetti classica, ancora vincolata a battaglie spaziali ed eroi stereotipati o, viceversa, al minimalismo pop-fantastico dei magazine pulp degli anni ’60[68].

Grazie al fiuto editoriale di Druillet, vennero scovati nuovi giovani autori promettenti, anche al di fuori dei confini francesi, che presto finirono per ingrossare le fila della rivista come, ad esempio, l’italiano Milo Minara[69] o il cileno Alejandro Jodorowski. Il modello adottato da «Métal Hurlant» arrivò fino agli States:

Insospettabilmente, gli “umanoidi associati” sbarcarono al di là dell’Oceano prima ancora di conquistare il resto d’Europa. Merito di Leonard Mogel, editor della National Lampoon (la casa editrice dell’omonimo magazine satirico) che, imbattutosi in un numero della rivista francese, decise di acquisire i diritti per lanciare una versione americana. La storica rivista Heavy Metal esordì nell’aprile del 1977 e fu un successo, con un impatto paragonabile o superiore a quello di Métal Hurlant in Francia, e certo con una longevità ancora maggiore ‒ esce tuttora a regolare cadenza bimestrale[70].

Questa operazione consentì di far conoscere oltreoceano il meglio dei fumettisti europei, portando il successo di «Métal Hurlant» al livello internazionale. Nel 1980 la rivista cominciò ad aprire sedi anche in Germania; dopo un anno toccò a Italia e Olanda; nel 1982 e nel 1984 rispettivamente aprirono la succursale danese e svedese. «Métal Hurlant» ebbe un gran successo, dovuto soprattutto ai contenuti forti, una novità assoluta nel panorama francese ed europeo, che le fece guadagnare il bollino di «riservata agli adulti» fin da subito. La forte matrice sperimentale e innovativa della rivista, perfettamente in linea con i principi enunciati dal Cyberpunk, si rivelò tuttavia un’arma a doppio taglio; la libertà totale che venne data agli autori spesso si tradusse in interessanti tentativi di rinnovamento formale e grafico, a scapito però di sceneggiature e trame solide, problema che con il tempo portò a un calo d’interesse verso la rivista e alla sua temporanea chiusura verso la fine degli anni Ottanta.

L’eredità del periodico, però, arriva fino ai giorni nostri, con periodici come il francese «Zoulu» e l’italiano «Eternauta», entrambi profondamente ispirati da «Métal Hurlant». Nel 2022, infatti, grazie a un’operazione di raccolta fondi in rete, la rivista ha definitivamente riaperto i battenti, anche se profondamente mutata rispetto alla sua forma originale: «Oggi la fantascienza ha un volto completamente diverso da quello degli anni Settanta e Ottanta. Non propone più astronavi e guerre stellari, ma coincide quasi con la realtà, con quello che sarà fra un mese o fra un anno: «Il futuro è già domani» si legge sulla copertina di Ugo Bienvenu»[71].

In Italia invece, il Cyberpunk arrivò in ritardo, nel 1986, data in cui esplose e cominciò a diffondersi, con un successo che arriva fino ai giorni nostri; è infatti possibile affermare «senza troppi dubbi o incertezze che in Italia il movimento cyberpunk si sia trovato a vivere, e forse stia vivendo tuttora, una sorta di insospettabile primavera tardiva»[72]. Veicolo di diffusione del movimento in Italia fu la rivista «Cosmo Informatore», nata nel 1979 grazie all’Editore Nord, la prima a pubblicare testi Cyberpunk al suo interno.

L’Italia è sempre stata in ritardo rispetto al nuovo che avanza, soprattutto per quanto riguarda il settore tecnologico, fattore che ha influenzato anche l’editoria che si è accorta delle problematiche del Cyberpunk, e del movimento stesso, a ridosso degli anni Novanta. Il processo di sviluppo ha seguito delle linee diverse rispetto a quelle originali d’Oltreoceano, ma ha mantenuto un forte legame con lo spirito innovativo del movimento, con le teorie del Postmoderno e delle sue avanguardie, divenendo paradossalmente più fedele, nel tempo, alle linee guida originali del Cyberpunk. Dopo un primo periodo di forte reazione e rottura con il tradizionalismo della letteratura di fantascienza classica, infatti, gli americani cominciarono a sviluppare una «sorta di esclusivista questione del purismo cyberpunk», creando un rigido canone da rispettare per far parte a tutti gli effetti del movimento. In Italia, invece

[…] anche se si crea una forte, strutturata connection editoriale che comprende narrativa, saggistica e stampa dedicata, non prenderà mai campo un vero e proprio ‘canone cyberpunk’, né si verificheranno tentativi di redigere liste di autori istituzionalmente autorizzati a divulgare la cyberparola o di opere pure da contrapporre a spurie produzioni di epigoni[73].

Il particolare Cyberpunk italiano trovò subito terreno fertile con la casa editrice milanese Shake, nata nel 1988 per volontà di un piccolo collettivo editoriale, già attivo nell’ambito dell’organizzazione di eventi legati alla controcultura dell’epoca. Nella formazione originale troviamo Primo Moroni, Raf Scelsi, Ermanno Guarneri e Marco Philopat. Prima di aprire la casa editrice il gruppo, nel 1985, gestiva una trasmissione, in onda con cadenza settimanale, su Radio Popolare, intitolata Tensioni Radiozine al quale si affiancava una rivista che aveva il compito non facile di «proiettare il dibattito politico “oltre” gli anni Ottanta e sperimentare in maniera nuova i territori dell’arte, della cultura cibernetica e delle controculture: Decoder»[74].

Il primo numero della rivista uscì nel giugno del 1987; in pochissimo tempo divenne un punto di riferimento per chiunque in Italia volesse avvicinarsi alla controcultura Cyberpunk e ai suoi autori. «Decoder» non si limitò a questo:

La rivista non solo era orientata a produrre idee per il nuovo decennio, ma anche concretamente coinvolta nell’elaborare e progettare le reti telematiche amatoriali di base, quelle che allora si chiamavano BBS, che avrebbero permesso alle situazioni ‘antagoniste’ italiane di dotarsi di proprie reti per scambiare opinioni e comunicati, in anticipo rispetto all’esplosione del fenomeno Internet, che sarebbe avvenuto solo a partire dal 1994-96[75].

Il gruppo di «Decoder» si dedicò inoltre alla definizione dei principali temi critici di queste reti, dando un contributo centrale alla formazione del pensiero di questi movimenti antagonisti. Particolare attenzione fu data al tema della privacy, alla questione del copyright, alla distribuzione gratuita di materiale, al digital divide, all’overload informativo e ad altri argomenti affini. La rivista arrivò a vendere circa diecimila copie per numero, tra il 1987 e il 1996, ricoprendo un ruolo importante nello «sviluppo di una coscienza critica e democratica nell’uso delle nuove tecnologie nel nostro paese»[76].

Nel 1990 la Shake si confermava ancora una volta la più attiva in ambito Cyberpunk, pubblicando Cyberpunk. Antologia di scritti politici[77], a cura di Raf Valvola Scelsi. Il testo ebbe un grande successo, arrivando a vendere più di ventimila copie ed entrando in ristampa nel 2007; divenne, inoltre, centrale nel dibattito italiano sulle problematiche legate all’informatizzazione e alla sua eccessiva pervasività all’interno delle nostre vite. Durante la presentazione del libro avvenuta al Festival del teatro di Sant’Arcangelo di Romagna, la cooperativa di Shake organizzò una serie di eventi a tema Cyberpunk, rimanendo fedele all’organizzazione di eventi controculturali che l’aveva contraddistinta prima dell’apertura della casa editrice.

La collaborazione con il Festival del Teatro durò per circa tre anni, intersecandosi anche con la partecipazione al Festival di Poesia di Milano, organizzato dal gruppo ruotante intorno a Gianni Sassi, occasione nella quale l’ensemble Shake-Decoder poté organizzare una serie di dibattiti con alcune delle figure più importanti della scena hacker mondiale: Wau Holland, Bill Squire, il gruppo olandese di Hacktic e il Chaos Computer Club di Amburgo[78].

In ambito internazionale, la casa editrice Shake iniziò una collaborazione, all’inizio degli anni Novanta, con la rivista californiana «Re/Search», della quale vennero pubblicati e tradotti alcuni numeri dedicati a singoli scrittori come, ad esempio, William B. Burroughs e James G. Ballard, o ad altre tematiche specifiche come il femminismo cyber di Donna Haraway o a studi sulle controculture più importanti del mondo e sulla loro diffusione. In poco più di vent’anni la Shake edizioni arrivò a costruirsi un catalogo di circa centocinquanta titoli diversi, tra romanzi Cyberpunk, saggistica e narrativa di genere, senza dimenticare i vari movimenti ispirati, le attività culturali organizzate e l’impegno in campo artistico e politico: «Sue creature furono i “Decoder media party”, delle straordinarie feste dedicate al cyberpunk, la mitica “Piazza Virtuale” del 1992 sotto la direzione del Ponton Media Lab di Amburgo che diventò un vero e proprio topos mondiale della comunicazione digitale e decine di altri happening underground»[79].

Alcuni dei fondatori di Shake hanno lavorato anche per altre case editrici, come, ad esempio, Raffaele Scelsi, che dal 1995 ha curato la collana «Interzone», nome ispirato alla rivista di fantascienza inglese, per la Feltrinelli. Questa collana ha avuto il merito di portare in Italia alcuni autori fondamentali del movimento Cyberpunk come Pierre Lévy, Donna Haraway, Tim Berers-Lee e Mike Davis, solo per fare alcuni nomi. Sterling stesso ha ammesso il grande valore del lavoro svolto da Shake; durante un’intervista in una delle librerie della casa editrice, Sterling riconobbe come l’ambiente creato da Shake «sia una sorta di mondo cyberpunk realizzato, qualcosa di simile a quanto previsto nei racconti e nei romanzi»[80].

La Shake edizioni, tuttavia, non ebbe il monopolio sul Cyberpunk. Un’altra casa editrice che rivestì un ruolo fondamentale nella diffusione del movimento in Italia fu l’Editore Nord, anch’essa con sede a Milano. Il primo volume prettamente Cyberpunk venne pubblicato nel 1994, nella collana «Grandi Opere», con il titolo Cyberpunk; al suo interno erano presenti ventotto racconti dei maggiori autori del movimento, come William Gibson, Pat Cadigan, Rudy Rucker, Bruce Sterling, John Shirley e Paul de Filippo. Il volume edito nel 1994 fu importante soprattutto per il ruolo che svolse all’interno del dibattito intorno al movimento Cyberpunk, fornendo un punto di partenza nello stabilire un canone letterario ben definito:

[…] rappresenta il principale tentativo in Italia, anche se non l’unico, di affrontare l’ostico argomento di una canonizzazione basata su di un approccio critico, e fondata, in ogni caso, su quanto era stato detto e scritto negli Usa. La curatela fu affidata a Piergiorgio Nicolazzini […] La sua lettura, anche a quasi trent’anni di distanza ci permette di capire molto di cosa è stato e su cosa ha influito il cyberpunk nel corso del tempo[81].

L’antologia andò a ruba, nonostante le dimensioni importanti di circa settecento pagine. Quando venne ristampata, sempre dalla Nord nel 2001, venne divisa in tre volumi diversi intitolati L’universo Cyber[82]. Il materiale della nuova edizione, tranne qualche leggera differenza, rimase sostanzialmente invariato. Il numero dei racconti passò a ventisei; vennero inoltre abbreviate le parti bibliografiche sugli autori e l’introduzione di «Larry McCaffery, che, insieme a Brian McHale, fu uno dei principali critici letterari che si erano rivolti alla letteratura degli anni Ottanta»[83]: due dei fondatori del Postmodernismo, corrente letteraria che, come visto precedentemente, fu strettamente legata a quella del Cyberpunk.

La terza casa editrice che si occupò attivamente di Cyberpunk e della sua diffusione italiana fu Stampa Alternativa. Nacque a Roma nel 1969, ispirandosi alle varie Alternative Presses americane e inglesi, grazie a Marcello Baraghini, attivista ed editore molto vicino ai valori della controcultura hippie.

La collana più conosciuta di Stampa Alternativa è quella delle «Millelire», che ha avuto il merito di lanciare, prima in Italia, le edizioni supereconomiche. Proprio in questa collana, nel 1995, uscì un’altra antologia di racconti, anch’essa intitolata Cyberpunk, a cura di Franco Forte. La raccolta ha il grande merito di riunire numerosi racconti inediti di autori italiani, oltre a diversi saggi dedicati al movimento, il tutto confezionato in un cofanetto molto particolare, ispirato alle famose barrette di cioccolato della Ferrero. Altro elemento distintivo di questa pubblicazione fu la presenza al suo interno di un floppy disk con conteneva un testo a opera di Fabio Gadducci e Mirko Travosanis, due autori cyberpunk italiani, e un programma informatico, un software che consentiva l’installazione del browser indispensabile per collegarsi alla rete internet Netscape 1.0[84]. L’iniziativa fu molto innovativa e riscosse molto successo, tanto che in Giappone «tali cofanetti sono diventati degli autentici oggetti di culto, e il direttore editoriale Marcello Baraghini è stato più volte invitato a Tokyo per tenere lezioni universitarie in qualità di docente di marketing»[85].

Un’altra casa editrice molto attiva nell’ambito Cyberpunk è stata la bolognese Synergon, nata nel 1990 e rimasta molto attiva per metà del decennio. Tra i suoi fondatori troviamo nomi di spicco come quello di Giancarlo Guglielmi, padre del più famoso Federico Guglielmi[86]. La casa editrice dedicò un’intera collana alla letteratura Cyberpunk italiana e straniera; tuttavia, dopo la sua brusca chiusura, causata dalla morte di uno dei fondatori, Giorgio Schiavina, e lo sfaldarsi del gruppo, gran parte del suo ricco catalogo è andato perduto. Alcuni romanzi inediti, stampati ma mai arrivati sul mercato, sono ormai divenuti delle costose rarità per tutti i collezionisti.

Uno dei protagonisti di Synergon, Vanni De Simone, ha deciso gentilmente di condividere la sua esperienza nella casa editrice. De Simone lavorò con la casa editrice di Bologna come traduttore fino alla sua chiusura nel 1997, e fu anche scrittore vicino al movimento Cyberpunk e autore di due opere ascrivibili a questo genere: Cyberpass[87] e La leggenda dei fantasmi[88].

De Simone si avvicina al movimento Cyberpunk, come molti altri autori dell’epoca, spinto dal potenziale innovativo di un genere che si presentava come venuto a scardinare completamente i dettami della letteratura di fantascienza classica:

Era un argomento che mi interessava molto. Il movimento cyberpunk si prospettava come un qualcosa di diverso dalla fantascienza classica, la quale, allora, come oggi, ritengo abbia esaurito molta della sua visione ‘futuristica’, dal momento che gli avanzamenti tecnologici hanno in qualche misura colmato il gap che solo 30 anni fa parevano appunto, fantascienza. A mio parere, la realtà ha superato di gran lunga la fantascienza, che però ha (avuto?) il merito di anticipare tali progressi tecnici[89].

Molti scrittori condivisero questa visione del Cyberpunk, intuendone la forza innovativa, mossa più dallo sperimentalismo linguistico che dalla sua capacità di anticipare il futuro: una letteratura che ricerca nuove forme più che trame, poiché, se «non sostenuta da una ricerca in questo senso, rischia di essere ripetitiva. Non si tratta più certo più di ufo o di robot», sostiene De Simone, «ma di elaborazione strutturale dei testi». Fu proprio questo approccio alla base della linea editoriale di Synergon, che ebbe il merito di dare voce a diversi nuovi scrittori italiani Cyberpunk; la casa editrice divenne così centrale nel dibattito culturale dell’epoca a Bologna:

A Bologna c’era un background antagonistico/culturale che anticipò molti dei contenuti poi divenuti quasi scontati. Non va dimenticata l’importanza di figure di grandi intellettuali come Roberto Roversi e tutta l’intellettualità che ruotava attorno all’ex gruppo di Officina (appunto di Roversi e dei suoi amici, nonché di intellettuali ‘free’ come Bifo, o in passato, lo storico “quaderno bimestrale di poesia” di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e Francesco Leonetti, rivista culturale degli anni Cinquanta, antirealistica)[90].

De Simone si riferisce qui agli attriti tra il gruppo di Bologna, che ruotava intorno alla rivista ormai chiusa da tempo «Officina», e quello milanese condensatosi intorno alla rivista «Alfabeta» del Gruppo ’63, un dibattito che vide protagonisti numerosi grandi artisti del panorama letterario italiano contemporaneo. Facendo tesoro del vivace scambio culturale tra questi due gruppi, tra le loro tesi di un rinnovamento stilistico, di linguaggio e di contenuti, Synergon impostò la propria linea editoriale, pescando da tutti e due gli schieramenti:

Io avevo rapporti personali sia con Roversi che con Porta, e francamente non capivo le motivazioni di tanta ostilità, anche perché, visti i percorsi di Officina e quelli del Gruppo ’63, gli autori dei due ‘schieramenti’, le loro tematiche, la loro ricerca, gli autori (Paolo Volponi, Nanni Balestrini, ecc.) e certi testi come I centomila cavalli, di Roversi o Dopo Campoformio, sempre di Roversi o L’Orda D’oro di Balestrini), tesi al rinnovamento stilistico […] non capivo il perché delle loro polemiche.

Oltre a promuovere nuovi autori italiani, Synergon si dedicò alla traduzione di testi utopici classici per lo più sconosciuti al pubblico, come Il sogno di John Ball[91] o RUR Rossum’s universal robots[92]. Un lavoro sempre complesso, che lo diventa ancora di più quando ci si trova sommersi di neologismi ed espressioni settoriali, come accade sovente nella fantascienza: «Un autore spesso ricorre a passaggi linguistici, semantici, di invenzione che non è facile interpretare. Hai mai pensato a cosa verrebbe fuori da una traduzione in tedesco di La Luna e i Falò, di Pavese, Balestrini o simili? Qualsiasi autore degno di questo nome non può esimersi da una manipolazione linguistica»[93].

Intorno all’ambiente di Synergon si condensarono molti scrittori esordienti che divennero successivamente dei capisaldi del Cyberpunk italiano, come la scrittrice Pina D’Aria, autrice sempre per la casa editrice bolognese del romanzo Flatline Romance del 1993, o Oscar Marchisio, autore della Stanza mnemonica del 1996. Purtroppo, l’improvviso suicidio di Giorgio Schiavina, principale finanziatore della casa editrice, pose un brusco freno all’esperimento di Synergon. Secondo De Simone, il Cyberpunk italiano presentava delle caratteristiche del tutto peculiari rispetto a quello americano, che si traducevano in una maggiore cura formale e nello sperimentalismo linguistico:

Rispetto ai creatori americani di questo movimento, ritengo che non si muovessero su un piano elaborativo linguistico ma puramente inventivo. Il loro successo fu dovuto alla contrapposizione rispetto alla fantascienza classica, ma personalmente non amavo particolarmente questi autori (Sterling, Gibson, ecc.), perché, a parte il loro muoversi su questo terreno specifico, non mi pareva che apportassero nulla di nuovo nel ‘grado zero della scrittura’, tanto per fare una citazione colta[94].

Gli autori che Synergon ricercava per la collana erano accomunati da una base di partenza condivisa, come lo stesso De Simone spiega, che partiva da un input proveniente dalla realtà e che, successivamente, rielaborava tale realtà in modo da renderla «veramente dirompente», attraverso una scrittura visionaria e dotata di un grande potere evocativo, senza però essere oscura. La realtà nuda e cruda non bastava più alla letteratura dell’epoca: «Nessun prodotto cinematografico, narrativo o poetico del cosiddetto neorealismo è realmente ‘realistico’, perché l’elaborazione artistica annulla il realismo. Non esiste realismo neanche nei telegiornali, viste le manipolazioni politiche o ideologiche delle notizie»[95].

Il quadro che emerge del Cyberpunk dal punto di vista editoriale fa comprendere appieno l’importanza del movimento che, partito da un gruppo di autori statunitensi amanti della fantascienza, riuscì ad allargarsi in tutta Europa e nel resto del mondo; dagli innovatori inglesi di «Interzone» agli sperimentalismi grafici dei francesi di «Métal Hurlant» fino ad arrivare alla primavera tardiva ma intensa del Cyberpunk italiano, che conta ad oggi diverse riviste a tema ancora attive[96], senza dimenticare l’influenza che questo movimento ebbe anche in Giappone, che ne ha proposto una versione profondamente originale.

Nonostante non abbia più la forza propulsiva degli anni Ottanta e Novanta, il Cyberpunk continua ad affascinare i lettori anche oggi, grazie a nuovi autori e alla miriade di sottogeneri da esso derivati come il Solar Punk o lo Steel Punk, senza dimenticare il più famoso, lo Steam Punk, genere nel quale gli stessi Sterling e Gibson si sono cimentati più volte. Il Cyberpunk, dunque, ha ancora molto da dire[97].

  1. Le organizzazioni collettive continuavano a essere viste con sospetto in quanto accusate di favorire il comunismo in America, una paura maturata durante il periodo del maccartismo nei primi anni del 1950. Il maccartismo fu caratterizzato da una repressione totale ed esasperata nei confronti di persone o gruppi anche solo sospettati di essere filocomunisti. Proprio per questo, quando si parla di questo periodo, si utilizza il termine di caccia alle streghe. Cfr. E. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. B. Lotti, Milano, Rizzoli, 2014.
  2. Ivi, p. 450.
  3. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 furono il primo tentativo di ragionamento economico su scala mondiale. Le due caratteristiche principali sono la stabilizzazione del tasso di cambio delle varie valute mondiali in relazione al valore del dollaro e il tentativo di equilibrare gli squilibri durante i pagamenti tra stati, compito che venne affidato al Fondo Monetario Internazionale (FMI).
  4. «Questo fenomeno inedito, che è stato definito col termine “stagflazione”, ovvero stagnazione più inflazione, era dovuto in parte all’origine “esterna” dell’inflazione»: P. Viola, Il Novecento, Torino, Einaudi, 2000, p. 449.
  5. G. Sabatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea: il Novecento, Bari, Laterza, 2012, p. 314.
  6. P. Viola, Il Novecento, op. cit., p. 420.
  7. N. Luhmann, Modernità e differenziazione sociale, in Moderno e Postmoderno, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 88.
  8. Ivi, p. 89.
  9. G. Mari, Tecnica, Storia e Azione, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 8.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 9.
  12. Ivi, p. 10.
  13. Ibidem.
  14. Ivi, p. 11.
  15. G. Vattimo, Postmodernità e Fine della Storia, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 98.
  16. J. F. Lyotard, Le Differend, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 19.
  17. G. Vattimo, Postmodernità e Fine della Storia, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 98.
  18. Ivi, p. 99.
  19. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, p. 17.
  20. Ivi, p. 62.
  21. J. Chesnaux, Il vincolo planetario della modernità, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 48.
  22. M. Vacatello, Morale e società moderna, op. cit., p. 148.
  23. Ibidem.
  24. Ivi, p. 149.
  25. R. Bodei, Tradizione e modernità, in Moderno e Postmoderno, op. cit., p. 41.
  26. «Amazing Stories» è stata una rivista di fantascienza statunitense ideata nel 1926 da Hugo Gernsback e pubblicata fino al 2005: la prima rivista in lingua inglese dedicata e rivolta unicamente alla fantascienza, tanto che la data di nascita del genere stesso viene convenzionalmente fatta coincidere con l’uscita del primo numero (10 marzo 1926).
  27. B. Bethke, La prima volta della parola Cyberpunk, in Nothing is true nothing is untrue, a cura di E. Di Marco; cfr. l’URL: https://emilianodimarco.wordpress.com/2019/11/04/la-prima-volta-della-parola-cyberpunk/, 4 novembre 2019 (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  28. Cfr. S. Jones, No future: A Brief History of Punk, in “First hand”, 23 gennaio 2018: https://www.frsthand.com/story/no-future-a-brief-history-of-punk (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  29. M. Emiliano, La prima volta della parola Cyberpunk, in «Nothing is true nothing is untrue», 4 novembre 2019.
  30. B. Sterling, Giro di vite contro gli hacker, Milano, Mondadori, 2006, p. 87.
  31. Film di Ridley Scott del 1982 liberamente ispirato all’opera di Dick Do androids dreams of electric sheep? Contribuì notevolmente, soprattutto attraverso la sua particolare estetica e alle sue ambientazioni futuristiche, a plasmare l’immaginario cyberpunk.
  32. Traducibile in ‘occhiali a specchio’. L’uso di questo accessorio era comune a tutti gli scrittori Cyberpunk, tanto che prima per un periodo Mirrorshades divenne un sinonimo di cyberpunk.
  33. Mirrorshades: l’antologia della fantascienza Cyberpunk, a cura di B. Sterling, traduzione di D. Brolli, A. Caronia, Milano, Bompiani, 1994, p. 9.
  34. Ivi, p. 11.
  35. Ivi, p. 13.
  36. Cfr. S. R. Delany, The Jewel-Hinged Jaw: Notes on the Language of Science Fiction, Middletown (Connecticut), Wesleyan university press, 2009.
  37. Cfr. E. James, Science Fiction in the twentieth century, Oxford, Oxford University Press, 1994.
  38. In numerose interviste ripeterà come, a differenza di molti altri scrittori cyberpunk che vedevano in Philip Dick la loro massima fonte d’ispirazione, nel suo caso essa fosse Thomas Pynchon: «il mio Dick è stato Pynchon». Cfr. L. Grazioli, Gibson sulla trilogia dello Sprawl, in «Doppiozero», 8 novembre 2017; Url: https://www.doppiozero.com/william-gibson-sulla-trilogia-dello-sprawl (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  39. La trama segue le vicende di diversi personaggi, molti dei quali sono coinvolti in operazioni segrete durante la Seconda guerra mondiale. Il titolo si riferisce alle traiettorie dei missili V-2 tedeschi, utilizzati durante il secondo conflitto mondiale per colpire l’Inghilterra dalla Germania.
  40. V. De Simone, Missione Deadline, in La letteratura nell’era dell’informatica, Roma, Bevivino Editore, 2007, p. 115.
  41. Ivi, p. 116.
  42. F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi Editore, 2008, p. 12.
  43. Ivi, p. 23.
  44. Ibidem.
  45. Ivi, p. 24.
  46. F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, op. cit., p. 21.
  47. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, op. cit., p. 33.
  48. M. Calabrese, Il realismo Cyberpunk, in “CICLES Magazine”, 30 giugno 2021.
  49. F. Jameson, Il Post-moderno o la logica del tardo capitalismo, op. cit., p. 73.
  50. M. Benedikt, Cyberspace: primi passi nella realtà virtuale, Padova, Francesco Muzzio Editore, 1993, p. 8.
  51. B. Sterling, Mirroshades l’antologia della fantascienza Cyberpunk, trad. it. Daniele Brolli e Antonio Caronia, Milano, Bompiani, 1994.
  52. A. S. Stone, A proposito del corpo reale: storia della frontiera sulle culture virtuali, in Cyberspace: primi passi nella realtà virtuale, op. cit., p. 91.
  53. N. Stephenson, Snow Crash, trad. it. Paola Bertante, Milano, Rizzoli, 2007.
  54. Film del 1995 con protagonista Keanu Reeves, diretto da Robert Longo.
  55. Diretto da James Cameron nel 1984.
  56. Film del 1987, diretto da Paul Verhoeven.
  57. Inventore, editore e scrittore d’origine lussemburghese. Viene ricordato come uno dei padri della fantascienza insieme a Wells e Verne. Fu lui a coniare il termine science-fiction.
  58. Da Amazing stories: https://amazingstories.com (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  59. Raggiungibile al seguente sito: https://amazingstories.com/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  60. Rivista inglese di fantascienza nata nel 1936 con il titolo di «Novae Terrae». In attività fino al 1987.
  61. A cura di A. Dorey, Celebrating 25 Years of Interzone, in «Interzone», N. 212, September-October 2007, pp. 4-5.
  62. B. Sterling, Cyberpunk in the nineties, in «Interzone», giugno 1991, Url: http://lib.ru/STERLINGB/interzone.txt (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  63. Ibidem.
  64. Ibidem.
  65. Cfr. A. Curiat, 5 ragioni per conoscere metal hurlant, in Wired, 23/05/2020. URL: https://www.wired.it/play/fumetti/2020/05/23/ragioni-conoscere-metal-hurlant/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  66. Nato nel 1944, il fumettista francese è uno dei fondatori della casa editrice. Famoso per il suo lavoro Lone Sloane, caratterizzato da uno stile tra il gotico e l’Art Nouveau.
  67. Di professione contabile, ma da sempre un grande appassionato di fumetti. È tra i fautori del rilancio del 2022 di «Métal Hurlant».
  68. A. Curiat, 5 ragioni per conoscere metal hurlant, art. cit.
  69. Fumettista italiano di fama internazionale, vanta collaborazioni con grandi nomi del cinema italiano e internazionale (Fellini e Almodovar), con i quali ha collaborato come illustratore, per lo più di locandine.
  70. Ibidem.
  71. A. Michelucci, Metal Hurlant, il ritorno, in «Il manifesto», 16 ottobre 2021. URL: https://ilmanifesto.it/metal-hurlant-il-ritorno (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  72. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  73. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, in «Quaderni di altri tempi», 16 febbraio 2021. URL: https://www.quadernidaltritempi.eu/cyberpunk-antologia-assoluta/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  74. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  75. Ibidem.
  76. Ibidem.
  77. R. Scelsi, Cyberpunk. Antologia di scritti politici, Milano, Shake Edizioni underground, 1990.
  78. In Spaghetti Neuromancer, anonimo, URL: https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/525bf7aa-fd97-442e-a1d2-799af4048a95/content (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  79. A. Capriolo, S. Molho, Reale iperreale virtuale: echi di Cyberpunk nella rivista Decoder, in Iris volume 7, 1° gennaio 2023. URL: https://air.uniud.it/handle/11390/1238974 (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  80. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, in «Quaderni di altri tempi», 16 febbraio 2021. URL: https://www.quadernidaltritempi.eu/cyberpunk-antologia-assoluta/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).
  81. Ibidem.
  82. L’universo Cyber vol. 1, 2, 3, a cura di P. Nicolazzini, Milano, Editore Nord, 2001.
  83. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, art. cit.
  84. Come si ricorderà, Netscape navigator fu il primo browser con interfaccia grafica della storia dell’informatica. Nacque nel 1994 e per lungo tempo rimase il motore di ricerca più utilizzato del mondo, fino alla comparsa di Internet Explorer che lo avrebbe scalzato in maniera definitiva costringendolo alla chiusura nel 2008.
  85. L. Giudici, Orizzonti del fantastico: attualità del cyberpunk, art. cit.
  86. Uno dei fondatori del collettivo Wu Ming, Federico Guglielmi, in arte Wu Ming 4, partecipò anche al progetto Luther Blisset, pubblicato proprio con Synergon nel 1995. Cfr. M. Fieramonti, Wu Ming e il “new italian epic”, in «Diacritica», a. VIII, 25 dicembre 2022.
  87. V. De Simone, Cyberpass, Bologna, Edizioni Synergon, 1994.
  88. V. De Simone, La leggenda dei fantasmi, Bologna, Edizioni Synergon, 1992.
  89. Intervista di Simone Pitti a Vanni De Simone: Roma, 13 dicembre 2023.
  90. Ibidem.
  91. W. Morris, Il sogno di John Ball, a cura di V. De Simone, Bologna, Edizioni Synergon, 1995.
  92. K. Capek, R.U.R. Rossum’s universal robots, a cura di V. De Simone, Bologna, Edizioni Synergon, 1995.
  93. Intervista di Simone Pitti a Vanni De Simone cit.
  94. Ibidem.
  95. Ibidem.
  96. «Cyberzone» e «Psychoattiva» edite da Shake, disponibili sia in formato digitale che cartaceo. Si rifanno ad alcune tematiche classiche del movimento, riadattate ai tempi presenti.
  97. Estratto dalla tesi di Laurea Magistrale in Filologia moderna dal titolo Il cyberpunk come fenomeno transnazionale, discussa a marzo 2024 presso il Dipartimento di Lettere e Culture moderne della Sapienza Università di Roma: relatori Maria Panetta e Francesco Saverio Vetere, correlatore Giampiero Gramaglia.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)

Il fascinoso incontro tra mondi lontani: note sulla letteratura giapponese e sulla sua ricezione in Occidente

Author di Marta Fieramonti

Nella tristezza
i colori del cielo
Svegliano i sogni
Nell’ora grigia
della rassegnazione
Una musica

Kobayashi Issa

Nel XIX secolo alcuni storici giapponesi elaborarono una periodizzazione della storia del Giappone basandosi sul concetto di Jidai (‘epoca’ o ‘periodo’) che utilizza sia i nomi delle località in cui risiedeva l’autorità politica, come quartieri o città, sia i cognomi delle famiglie detentrici del potere ed esterne alla famiglia imperiale[1]. Esiste, però, anche un altro sistema di periodizzazione storica introdotto nel VII secolo e mutuato dalla Cina conosciuto come nengo, cioè ‘era’, che riconosceva alla corte imperiale la speciale prerogativa di decidere l’inizio di un’era che poteva coincidere con il regno di un sovrano o con una parte di esso, e a cui veniva dato un nome tratto solitamente dai classici della cultura cinese. Ognuna di queste “porzioni storiche” ha dato vita a tipologie letterarie differenti.

La letteratura giapponese, così come ogni altra, riflette il gusto e il modo di pensare dell’ambiente in cui è stata prodotta. La mentalità nipponica si è plasmata in un territorio che fino al 1800 è stato isolato dal resto del mondo; dunque, i giapponesi hanno sempre scritto per sé stessi, senza pretese di universalità: da ciò che raccontano emerge questa sorta di esclusivismo geografico che si riflette in quanto viene narrato. «Se infatti la consapevolezza del loro isolamento li ha spinti a imparare dagli altri, essa li ha anche portati a sviluppare una delle civiltà più singolari, tale che è difficile trovarne l’eguale tra comunità delle stesse dimensioni»[2].

Nella storia della civiltà giapponese si distinguono due grandi periodi, cioè quello della forte influenza della cultura e della civiltà cinese del IV secolo, seguito dall’introduzione del Buddhismo nel VI secolo; e il periodo dell’influenza delle culture occidentali, introdotte con l’apertura del Giappone al mondo nel 1868.

La storia letteraria e culturale ricalca, invece, la periodizzazione politica dell’isola e si suddivide in cinque periodi. Il primo è detto “Epoca di Nara” e va dal 710 al 784; è caratterizzato dalla nascita della storiografia nipponica e dalla comparsa del Man’yoshu, pilastro della poesia. Il secondo prende il nome di “Epoca di Heian”, va dal 784 al 1185 ed è definito l’Età dell’oro della letteratura poiché questa, interamente sviluppatasi all’interno delle corti, aveva carattere prettamente aristocratico. Il terzo è chiamato “Periodo di transizione” e va dal 1185 al 1600, suddividendosi in “Epoca di Kamakura”, dal 1185 al 1333, “Epoca di Nanbokucho”, dal 1334 al 1392, ed “Epoca di Muromachi” o degli Ashikaga, dal 1393 al 1573. In questo periodo la letteratura esce dalle corti e raggiunge gli ambienti militari, seguendo il flusso della storia che a mano a mano fa perdere potere agli aristocratici in favore dei militari; in questo stesso periodo il Buddhismo cerca di democratizzare la cultura fondando delle scuole, le terakoya, che cercano di istruire il popolo. Il quarto periodo è quello dell’“Epoca di Edo” o dei Tokugawa, dal 1600 al 1868, in cui finalmente nasce anche la produzione letteraria popolare; l’ultimo periodo è quello caratterizzato dall’influenza dell’Occidente, iniziato con la Restaurazione Meiji del 1868 e con l’apertura verso il mondo esterno.

La storiografia e la letteratura hanno, dunque, avuto origine quando l’arcipelago ha adottato l’alfabeto cinese e ha cominciato a mettere per iscritto gli eventi a cui assisteva. Presto, però, i giapponesi non si accontentarono più delle idee mediate dai migranti e diedero il via a una serie di spedizioni in Cina per studiare direttamente dalle fonti ufficiali i testi che conoscevano solo per tramite. Per secoli, dunque, i nipponici si dedicarono allo studio e alla scoperta della grande civiltà cinese e spesso adottarono in Giappone le stesse idee con cui venivano in contatto per cercare di rinnovare le strutture politiche e sociali del loro paese.

Il rinnovamento, agevolato e favorito dagli studi cinesi, era però in realtà già iniziato con la pubblicazione del Jushichikajo Kenpo, l’Editto in 17 articoli promulgato nel 604 dal principe Shòtoku Taishi, che per la prima volta guardava al Giappone come a una nazione, ne istituiva l’autorità politica e fissava una sorta di morale di stato ispirata ai principi del Confucianesimo e del Buddhismo.

Vi fu nel 604 la promulgazione della cosiddetta Costituzione dei diciassette articoli, un corpus di precetti basati sul Buddhismo e i principi etico-politici del confucianesimo. Un’altra iniziativa fu quella di inviare nel 607 una grande ambasceria ufficiale in Cina. E questa e le molte altre che si susseguirono nel corso dei successivi due secoli e mezzo ebbero un ruolo vitale nella diffusione della civiltà cinese in Giappone[3].

L’“Epoca di Nara” è, quindi, caratterizzata dall’introduzione del Buddhismo nella vita nazionale del paese, importante a livello di maturazione filosofica e religiosa, e fondamentale per l’impulso dato alle arti e alle lettere.

La poesia del periodo era costituita dall’alternarsi di quinari e settenari. Queste coppie di versi avevano un numero indeterminato, ma presto si affermò la consuetudine di chiudere il componimento con un verso unico da sette sillabe. Questo tipo di poesia lunga era definito Nagauta o Choka, ma presto venne sostituita da una più corta, la Mijikauta o, più comunemente, Tanka, composta con uno schema 5-7-5-7-7 per un totale di sole trentuno sillabe.

La maggior parte di queste composizioni seguono un modello rigido di trentun sillabe, detto tanka (breve poesia) e sono brevissime. Da questa sua caratteristica, il tanka non poteva prestarsi che a fuggevoli tocchi di scene naturali, a incastonare singole intuizioni o ad accennare in abili sintesi qualche moto dell’anima, ma nonostante queste sue limitazioni esso era in grado di raggiungere delicatezza e commozione[4].

Tutta la produzione poetica dell’“Epoca di Nara” è contenuta in un’unica grande raccolta di cinquemila componimenti, il Man’yoshu. Questo nome indica la raccolta (shu) di diecimila (man) foglie (yo), e due sono le interpretazioni possibili: o ‘raccolta di una miriade di poesie’ oppure ‘raccolta di una miriade di generazioni’.

Dopo l’“Epoca di Nara” inizia l’“Epoca di Heian”, durata circa quattrocento anni e che ha fatto da palcoscenico a moltissime trasformazioni nella civiltà e nella cultura giapponese. Heian è l’abbreviazione di Heinankyo, antico nome dato a Kyoto che significa ‘capitale della pace e della tranquillità’. In quel periodo il potere passò nelle mani della famiglia aristocratica più importante, i Fujiwara, e nel campo culturale, fino al IX secolo, proseguirono indisturbati gli studi cinesi fino ad arrivare poi a una sorta di risveglio nazionale che avrebbe portato il paese alla sua epoca classica, caratterizzata da una letteratura aristocratica, sviluppatasi nelle corti e distinta da un carattere aulico.

La prima parte dell’“Epoca Heian” si aprì con un avvenimento che avrebbe segnato profondamente la storia culturale dell’isola. Il ministro Sugawara no Michizane, che avrebbe dovuto guidare un’ambasceria, inviò ai regnanti un memoriale in cui spiegava la difficile situazione politica cui si assisteva in Cina, sconvolta dall’anarchia e dal caos che precedettero la caduta dei Tang, la famiglia al potere: con questo scritto sconsigliava di inviare ulteriori studiosi nel continente. Il documento segnò la fine delle ambascerie ufficiali.

Non si dimentichi che in quel momento il Giappone era ancora un paese in cui il centro culturale era rappresentato dalla corte, divenuta sempre più raffinata e dedita agli svaghi; in un panorama simile le ambizioni dei nobili iniziarono ad aumentare e le lotte per il potere non tardarono a comparire. Da queste uscì vittoriosa la famiglia Fujiwara che, invece di mettersi contro i sovrani, scelse di legarvisi tramite matrimoni, cosicché nel giro di pochi anni i suoi membri divennero a tutti gli effetti parte della famiglia imperiale grazie alla rete di parentele che si era ormai sviluppata.

Al livello letterario, sebbene i viaggi in Cina avessero subito un arresto, la fascinazione e il fervore per gli studi cinesi rimase preponderante almeno fino alla metà del IX secolo, quando essi cominciarono a perdere centralità e cominciarono a comparire alcune antologie private e alcuni lavori di carattere giuridico e storico che forniscono un quadro della società giapponese in quel momento storico.

Per quanto riguarda la poesia, quel periodo fu dominato dal Mono no Aware, che raggiunse la sua piena maturità intorno all’anno Mille e che può essere tradotto come: il turbamento (aware) delle (no) cose (mono), ovvero la commozione e il senso di comunione che il mondo, la natura e gli umani ci ispirano, il trasporto dell’io e dell’interiorità che partecipa del dolore e dell’essenza del mondo.

Dalla cessazione dei rapporti con la Cina si ebbe un forte risveglio dell’interesse nazionale con l’affermazione del gusto per le lettere e i fatti prettamente nipponici. Anche in ambito poetico, dunque, si assistette a una forte fioritura che si affermò su quella cinese. Il Man’Yoshu venne superato e iniziò a essere visto come troppo primitivo e semplicistico: lasciò il posto a una poesia più misurata, raffinata e riflessiva.

Tipici della letteratura del X secolo sono i Monogatari, ovvero i ‘racconti di cose’, da Mono, cioè ‘cosa’, e Kataru, cioè ‘raccontare’. Questi consistevano praticamente in qualunque tipo di narrazione di fatti storici o immaginari; erano, dunque, l’equivalente della nostra narrativa nei suoi vari generi, i derivati dei miti e delle leggende delle epoche passate. La caratteristica principale dei monogatari è che sono scritti in giapponese: si stavano finalmente abbandonando le lettere cinesi in favore di un risveglio nazionale sempre più consistente. Si era, infatti, affermato in quegli anni l’uso del sillabario Hiragana, che aveva permesso ai giapponesi di esprimere agevolmente in una lingua viva e che sentivano propria i loro sentimenti, le loro passioni e le loro fantasie.

Il secondo periodo dell’“Epoca Heian” è quello in cui le lettere raggiunsero il loro apogeo, parallelamente alla totale acquisizione del potere da parte del ministro Fujiwara no Michinaga. L’isolamento del Giappone dal resto del mondo ha in quest’epoca favorito un’evoluzione pacifica della civiltà nipponica, che né riceveva impulsi dall’estero né era tormentata da lotte civili interne. Tutto questo favorì il fiorire della cultura e delle arti, coltivate in corti raffinate ed eleganti, e si raggiunse grande libertà anche in usi e costumi, che furono profondamente ingentiliti. Questa società chiusa nelle sue belle corti non conosceva i problemi economici del resto del Giappone e del mondo, e ignorava completamente i bisogni del popolo; era, dunque, una società felice, sempre alla ricerca di nuovi piaceri, che trascorreva le giornate tra mostre d’arte e gare di poesia, profondamente assorta nel proprio presente dorato e del tutto inconscia della situazione del resto del Paese.

In quel momento il Buddhismo si affermò con grande prestigio, più che in ogni altro periodo. Il clero, infatti, era caduto preda di vizi e intrighi ed era addirittura diventato pericoloso per lo Stato, in quanto i templi avevano iniziato ad assoldare milizie, i Sohei, per difendere i propri feudi. Per combattere queste agitazioni la corte ricorse all’aiuto di due clan guerrieri, i Taira e i Minamoto, precisamente quando una crisi di successione mise l’ex imperatore Sutoku contro il successore designato, Go Shirikawa. Sutoku ricorse ai Minamoto, mentre Go Shirikawa ai Taira. Le lotte che ne nacquero modificarono per sempre la storia del Giappone ed ebbero una grandissima influenza anche nel campo delle lettere. In questo secondo periodo dell’“Epoca Heian” vennero infatti compilate, per ordine imperiale, quattro antologie ufficiali che dimostrano perfettamente la degenerazione della poesia, che si ridusse a virtuosismi poetici e stilistici.

Per quanto riguarda la narrativa, è invece a questo periodo che risale il più grande capolavoro giapponese mai scritto, ovvero il Genji Monogatari, La storia di Genji, prodotto dell’ingegno di una donna della famiglia Fujiwara ricordata con l’altisonante nome di Murasaki Shikibu, che significa ‘il cerimoniale color porpora’.

l protagonista Genji è nato dall’amore dell’imperatore per una delle sue concubine di basso rango, che è costretta a subire vessazioni da parte delle compagne invidiose finché, stanca, non decide di togliersi la vita. Il protagonista, rimasto orfano a soli tre anni, soffrirà sempre la mancanza della madre e subirà le conseguenze di questo profondo vuoto, andando per tutta la vita alla ricerca di una donna ideale che possa colmarlo. La grandezza del testo è tutta nell’approfondimento psicologico dei personaggi e nella descrizione dello stile di vita della corte giapponese dell’anno Mille. La lingua utilizzata è quella colta e raffinata degli ambienti cortigiani in cui viveva l’autrice, e d’altronde in quel periodo, dopo la chiusura dei rapporti con la Cina, soprattutto la letteratura scritta dalle donne cercava di conferire spessore alla lingua nazionale, vista come uno strumento duttile con il quale poter raggiungere le vette più ricercate dell’espressione.

Ma come i loro colleghi medievali d’Europa, la maggior parte degli uomini di cultura giapponesi disdegnarono di servirsi della loro lingua per opere importanti, e continuarono a scrivere libri di storia, saggi e documenti ufficiali in cinese, mentre le donne della corte imperiale, che in genere non avevano abbastanza cultura per scrivere in questa lingua, furono costrette, se volevano esprimersi letterariamente, a usare il giapponese. Il risultato fu che, mentre gli uomini di questo periodo scrivevano, non senza darsi arie, in cattivo cinese, le loro dame si consolavano della loro ignoranza scrivendo in buon giapponese e dando vita, senza volerlo, alla prima grande prosa letteraria in questa lingua[5].

La fase della letteratura giapponese che si apre nel 1185 e prosegue fino al 1600 rappresenta un periodo di transizione in cui le lettere vengono profondamente influenzate dallo spirito militare e dal Buddhismo: troviamo, quindi, affiancati il fervore militare e il sentimento religioso. Si apre con l’“Epoca di Kamakura”, che va dal 1185 al 1333 e che inizia con l’indebolimento dei Taira e con l’insediamento di Minamoto no Yorimoto nel Kanto, a Kamakura appunto, da cui egli organizzò un proprio governo militare, il Bafuku, con un’amministrazione centrale che controllava tutto il Giappone dislocando funzionari nelle varie zone. Il sentimento militare influiva sul mondo delle lettere con il suo fare deciso, che mirava dritto allo scopo, tutto energia e volontà; il Buddhismo era, invece, molto mutato rispetto alle epoche precedenti in cui donava alle lettere grazia e colore, e allora era visto come qualcosa di profondamente serio. Ne derivò che dalla letteratura religiosa l’amore, le donne e le passioni vennero completamente estromessi.

Al livello poetico, se l’“Epoca di Nara” aveva avuto come suo testimone il Makoto, ovvero il sentimento leggero e immediato, e l’“Epoca Heian” il Mono No Aware, quest’epoca vide la nascita e l’affermazione dello Yugen, da You, che significa ‘arcano, misterioso’, e Gen, che significa ‘nero’. Si ebbe, dunque, una poesia oscura, misteriosa e arcana.

Per quanto riguarda la narrativa, si affermarono in quel periodo i Rekishi Monogatari, ovvero le storie romanzate, e i Gunki Monogatari, cioè le storie guerresche. Mentre i primi trattano periodi di tempo più o meno lunghi, e spesso recenti, della storia del paese che affascina e verso cui si prova nostalgia, i secondi trattano di periodi di tempo molto più corti e raccontano le grandi epopee della storia del Giappone, ispirate non più da nostalgia, ma da ammirazione per i grandi guerrieri e condottieri e per le loro imprese eroiche.

Nel 1573 iniziò lo shogunato dei Tokugawa, un periodo di relativa pace e serenità che durò fino alla metà del diciannovesimo secolo. Da un punto di vista prettamente letterario, una nota positiva del tempo è stata la diffusione dell’istruzione grazie alle scuole aperte a tutti, fondate dai monaci nei loro templi. Di conseguenza, le lettere, che erano state fino ad allora solo appannaggio della corte e della nobiltà, si diffusero a macchia d’olio nel popolo. A quel periodo, inoltre, va ascritta la ripresa dei traffici con la Cina, che era guidata dalla dinastia Ming e viveva un periodo di rinnovamento e fermento culturale. Tutti gli stimoli che arrivarono dal continente diedero nuova vitalità alla cultura nipponica, che soprattutto venne influenzata dal pensiero Zen, che impresse un marchio inconfondibile di sobrietà, eleganza e compostezza a tutta l’arte.

In aggiunta, si sviluppò in quel periodo il fascino verso un diverso tipo di poesia, la Renga o Poesia a catena, composta ed eseguita da più persone. La Renga va distinta in Tan Renga, ovvero la renga breve, e Kusari Renga, la renga a catena. La Renga breve fu la prima ad affermarsi, ma fu solo il primo passo verso la Renga a catena, che si ispirava al Lianju cinese, e in cui il numero di partecipanti era in genere ristretto a un massimo di sedici poeti, ognuno dei quali agiva aggiungendo a quelli superiori un emistichio legato per significato al precedente e al seguente.

Legata alla diffusione della cultura tra il popolo fu la ripresa della narrativa di immaginazione, che assunse nuovo vigore grazie agli Otogizoshi. Otogi significa ‘tener compagnia’, mentre Zoshi significa ‘quaderno, fascicolo’. Sono dunque storie che si leggono per intrattenere: è una letteratura di svago, leggera e solitamente breve. Lo stile è semplice e chiaro, e la lingua utilizzata è quella che si parla, non più quella letteraria: le concezioni della letteratura di corte, infatti, erano ormai sentite lontane e si stavano cercando nuove forme di espressione più vicine alla realtà.

Se quella dominata dagli Shogun e dal Buddhismo è un’epoca di transizione, tale è anche la sua letteratura, che cerca di allontanarsi dai modelli dell’era precedente e di proiettarsi verso il futuro. Gli Otogizoshi, privi quasi completamente di valore artistico, ne hanno uno altissimo per quanto riguarda la prospettiva storica, dato che non solo forniscono una testimonianza sulla civiltà del tempo e sui suoi usi, ma rappresentano proprio quella fase di passaggio che congiungerà la letteratura aristocratica a quella popolare dell’epoca dei Tokugawa.

Per duecentocinquant’anni, gli shogun Tokugawa, discendenti di Ieyasu, nella pace più totale governarono il paese attraverso il Bafuku, ‘il governo delle tende’, creando un sistema rigido di stampo militare. In quel momento storico i Daimyo e i Samurai erano rimasti inoperosi per mancanza di guerre da combattere; siccome il sistema governativo impediva loro di impegnarsi in altre attività a eccezione degli studi, vi si dedicarono anima e corpo e portarono un grande e vigoroso sviluppo alla cultura del paese. Il fervore negli studi cinesi portò a una forte reazione in senso nazionalistico e nacque così il movimento detto Kokugakusha, ovvero dei ‘cultori di studi giapponesi’.

Il fenomeno principale dell’“Epoca Tokugawa” fu il sorgere e l’affermarsi di una nuova categoria sociale, la Chonin, ovvero la borghesia. Durante quella fase storica, il popolo era molto partecipe dell’agone letterario, tanto da creare un nuovo tipo di letteratura che ne rifletteva i gusti e le idee: si assistette così al fiorire di una letteratura borghese e popolare. Questa società borghese si definiva Ukiyo, che significa ‘mondo fluttuante’[6], e si riferiva appunto al dinamico contesto socio-economico dominante; la stessa parola potrebbe alludere anche al termine omofono diffuso nella tradizione buddhista che significa ‘mondo di tristezza’, giocando su un doppio senso che conferiva al termine tristezza l’accezione di fluttuante, e che veniva inteso come ‘mondo alla deriva’, con una leggera sfumatura erotica.

Per quanto riguarda la poesia, in quel periodo si rinnovò la Renga, che anticamente presentava come strofa iniziale lo Hokku, che stabiliva l’andamento di tutto il componimento. Allora lo Hokku viveva una fase in cui andava sempre di più individualizzandosi, fino ad arrivare a costituire un nuovo genere poetico particolarmente breve, formato da uno schema di diciassette sillabe suddivise in versi da cinque-sette-cinque, che dopo poco tempo cominciò a essere chiamato Haikai. L’Haikai iniziale aveva come caratteristica l’umorismo, era composto con giochi di parole e doppi sensi, e ricorreva spesso alla lingua popolare e viva parlata nella quotidianità; presentava dunque un’occorrenza di termini cinesi. Questo carattere umoristico si mantenne fino alla comparsa di Basho e della sua scuola: fu infatti grazie al suo ingegno che l’Haikai perse la sua vena comica e si elevò a vera forma d’arte per serietà e spessore.

Si è già parlato della diffusione e della democratizzazione della cultura durante il periodo dei Tokugawa, ma questa non si comprende a fondo se non viene introdotto uno dei grandi cambiamenti di questa era, ovvero l’introduzione della stampa, arrivata in Giappone dalla Cina.

Si tratta di stampa non con caratteri mobili, che pare rimontino in Cina all’XI secolo, ma di stampa in xilografia su clichés, per cui ogni pagina di libro veniva incisa in rilievo su una tavoletta di legno, sulla quale era poi passato l’inchiostro e quindi premu­ta la carta. Questo sistema divenne subito di uso comune in Cina, ma non in Giappone, perché qui, fino al 1500, la cultura era limitata a un ambiente ristretto e si preferiva fare o far fare copie manoscritte delle opere che interessavano[7].

Fra le prime opere a stampa della letteratura popolare ci sono i Kanazoshi, i testi scritti in Kana, cioè seguendo i sillabari giapponesi privi dei caratteri mutuati dalla Cina. I kanazoshi sono spesso testi brevi, di una ventina di pagine, e vengono affiancati da illustrazioni; sono, a tutti gli effetti, lo specchio letterario del periodo di transizione che viveva il Giappone, che stava passando da una società aristocratica ed elitaria a una più varia e borghese. Verso la fine del 1600 fece, infatti, la sua comparsa Ihara Saikaku, uno scrittore dotato di particolare talento che creò un nuovo genere, quello del romanzo realistico, l’ukiyozoshi, che divenne il simbolo vero e proprio dell’epoca della chonin. La sua produzione spazia fra tre macro-aspetti della società nipponica: l’erotismo (e si hanno i koshokumono), la casta militare (con cui si hanno i bukemono) e la vita borghese (con i choninmono).

Durante i primi cento anni del dominio Tokugawa il sistema da loro fondato aveva dato frutti, fornendo un periodo di stabilità e tranquillità diffusa in cui il commercio, l’economia e le attività spirituali erano di molto progredite. I problemi, però, non tardarono a farsi sentire e le contraddizioni di un sistema fondato su due principi contrapposti come il feudalesimo e l’accentramento del potere emersero potentemente.

L’economia in sviluppo che i Tokugawa avevano stimolato, infatti, cominciò a ritorcersi contro di loro, mostrando come fosse ormai impossibile sostenere una società impostata con al vertice i militari, che, in un paese in pace e con una legislazione che impediva loro di dedicarsi a qualunque altra attività, non facevano altro che continuare a impoverirsi, divenendo parassitari. A peggiorare la situazione, in seguito al diffondersi delle antiche teorie shintoiste diffuse dalla kokugakusha sulla discendenza divina degli imperatori, cominciarono a essere definiti usurpatori gli shogun che avevano sottratto loro il potere. La situazione precipitò definitivamente con lo sbarco del commodoro americano M. Calbraith Perry nella baia di Uraga con la richiesta diretta al Giappone di uscire dal suo isolamento secolare. La crisi si protrasse per quindici anni, fino al 1868, quando il Sol Levante si aprì al resto del mondo, andando incontro a una serie di mutamenti radicali.

Durante quel periodo di transizione, tra il 1830 e il 1865, al livello letterario fiorirono i ninjobon, libri in cui i veri protagonisti erano i sentimenti umani. L’epoca d’oro dei ninjobon è quella in cui operò Tamenaga Shunsui e in cui si affermò l’ideale di condotta e di atteggiamento che viene definito Iki, temperamento.

Si tratta di una specie di combinazione di elementi contrastanti: di uggia e di civetteria, di raffinatezza e di rozzezza, di esibizionismo e di riser­bo, di eleganza discreta associata a manierosità tutta urbana in cui la nota dominante è la civetteria. I personaggi dei ninjobon ci appaiono, così, dotati di un fascino erotico che non è frivolezza, di una fermezza di propositi che non è ostinazione, di una rassegnazione che non è cieca sottomissione, di una raffinatezza che non è affettazione[8].

La fortuna dei ninjobon proseguì praticamente ininterrotta fino all’inizio dei rivolgimenti politici e sociali che gettarono le basi per la Restaurazione del 1868: essi furono di fatto, insieme con i kokkebon (i libri umoristici), le fondamenta da cui sarebbe germogliato il romanzo contemporaneo.

Nel 1868 l’imperatore Mutsuhito spostò la capitale da Kyoto a Edo, che prese il nome di Tokyo, e tutto il paese visse un periodo molto particolare, caratterizzato dall’affluire continuo di nuovi stimoli e nuove idee provenienti dall’Occidente, sia a livello culturale sia a livello civile e sociale. La foga con cui vennero studiati i pensatori occidentali, però, portò a una loro assimilazione nozionistica e superficiale piuttosto che a una vera comprensione e maturazione di pensiero critico che potesse avere delle implicazioni pratiche nella vita sociale del paese[9]. La letteratura divenne, dunque, lo specchio di una società divisa tra la fascinazione estrema per il nuovo e la nostalgia per la vecchia tradizione indigena e di solito, fra i due estremi, l’atteggiamento più ricorrente fu quello di cercare di mitigare la tradizione con i nuovi influssi modernisti.

Nell’aprile del 1868, l’imperatore firmò il Giuramento dei Cinque Articoli in cui si legge:

Con questo giuramento ci poniamo come obiettivo l’instaurazione del bene nazionale su ampia base e la composizione/delineazione di una costituzione e di leggi.

  1. Saranno istituite su ampia scala assemblee deliberative e tutte le decisioni verranno prese in seguito ad una discussione aperta.

  2. Tutte le classi, agiate ed umili, dovranno essere unite nell’occuparsi dell’amministrazione degli affari di stato.

  3. Alla gente comune, non meno che agli ufficiali civili e militari, dovrà essere permesso di compiere la loro professione in modo tale che non sia insoddisfatta.

  4. Il mal costume del passato dovrà essere eliminato e tutto dovrà basarsi sulle giuste leggi di Natura.

  5. Si cercherà la conoscenza nel mondo per rafforzare la base del potere imperiale[10].

Si nota subito, in questo documento, la comparsa di concetti di provenienza strettamente occidentale (come le assemblee deliberative, le discussioni pubbliche, l’unione e la mescolanza delle classi, nonché una velata critica ai cattivi costumi del passato) che per la prima volta proiettavano il Giappone verso una nuova democrazia sociale e verso un nuovo modo di guardare al mondo e alla politica.

È comprensibile come in questa prima fase la fascinazione per i modi artistici dell’Occidente incuriosisse molto i giapponesi; è tuttavia fondamentale sottolineare che questa non prevaricò né uccise mai lo spirito tradizionale a cui il paese era molto legato. Sebbene nella prima fase di questa contaminazione si assistesse a un comportamento prettamente emulativo da parte dei giapponesi, questi non dimenticarono mai l’importanza della preservazione della propria identità nazionale e culturale, e riuscirono presto a interiorizzare i nuovi concetti e a integrarli con una prospettiva strettamente nipponica. Lentamente, dunque, la nuova cultura che si venne a creare non fu solo il frutto delle influenze occidentali, bensì l’espressione di un pensiero che si andava sviluppando spontaneamente dai nuovi sistemi di vita che si erano adottati nelle isole.

L’idea, quindi, che gli influssi internazionali abbiano soffocato completamente i metodi dell’espressione nipponica sostituendoli con quelli occidentali e producendo una cultura fatta solo di imitazione è fuorviante e per nulla realistica. È importante, dunque, non avvicinarsi a questa letteratura paragonando i prodotti giapponesi a quelli europei e americani coevi, ed è altresì fondamentale non giudicare questi prodotti partendo dal punto di vista occidentale.

Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, prima della Restaurazione, la lingua della burocrazia e della cultura alta era nettamente differente da quella parlata, ma con l’adozione del dialetto di Tokyo come lingua nazionale la situazione si modificò radicalmente anche sul piano letterario. Nel 1882, infatti, Yatabe Ryokichi cominciò a lavorare a questo progetto col fine di trasformare la lingua parlata a Tokyo in lingua di tutto il Giappone.

Sebbene sia molto difficile ordinare cronologicamente tutte le tendenze e le correnti che si affermarono nel periodo Meiji grazie all’incontro con l’Occidente, sicuramente importante fu la comparsa delle traduzioni che fecero conoscere ai giapponesi alcuni dei più importanti autori europei come Scott, Bacone, Dickens e Carlyle[11].

I narratori giapponesi scoprirono nel romanzo occidentale il mezzo più consono per narrare delle storie che non potevano più essere costrette nei vecchi schemi del monogatari o del gesaku. Risale infatti al 1885 la stesura di un famoso opuscolo, lo Shosetsu Shinzui (L’essenza del romanzo) di Tsobouchi Shòyò, che si scagliava contro le teorie di Kyokutei Bakin (1767-1848) sul romanzo, sostenendo che questo, per interpretare davvero la vita, non dovesse far altro che ritrarla così come si presentava, senza slanci emozionali e immaginativi. Questo saggio diventò un vero e proprio manifesto del romanzo moderno giapponese, ed è così che nacque lo Shajitsu shugi, il realismo, che sarebbe durato per circa una decina di anni. Ozaki Kòyo, capo di una corrente estetico-realistica, nel 1885 diede vita al circolo Ken’Yusha (‘Gli amici del calamaio’) con cui raccolse i romanzieri di nuova generazione intorno appunto a due riviste, «Garakuta Bunko» (‘La biblioteca di cartacce’) e «Miyako no Hana» (‘I fiori della capitale’).

Il circolo Ken’Yusha fu accusato di superficialità e incapacità di cogliere i veri problemi del momento da Kòda Rohan, che nel 1890 portò alla luce il Romanticismo, il Roman Shugi, con il quale intendeva comporre una letteratura che fosse pura espressione dei sentimenti umani. Anche il Romanticismo ebbe le sue riviste di punta, ovvero il «Bangakukai», ‘Il mondo letterario’, fondata nel 1893, e il «Kokumin no Tomo», ‘Gli amici della nazione’, del 1887.

Una data storica fondamentale dell’epoca Meiji è poi senza dubbio il 1905, anno in cui il Giappone si affermò come grande potenza mondiale sconfiggendo la Russia; la vittoria del conflitto non portò però a un periodo di prosperità, bensì aumentò le insicurezze. In letteratura, questo portò all’affermazione del Naturalismo, lo Shizen-shugi, la corrente ideale per descrivere le miserie della società e la realtà del periodo vissuto. Tuttavia, presto si sviluppò anche una tendenza a esso contraria, ovvero quella idealista, che si può riassumere nella figura di Natsume Sōseki, che racchiude in sé gli echi della letteratura inglese, dello spirito zenista e dell’haikai.

Verso la fine del primo conflitto mondiale sorse ancora un’altra corrente, il Neorealismo, lo Shin genjitsu shigi, che si proponeva di dare un significato sociale alla realtà afferrandone l’essenza più intima e concentrandosi non più sulle esperienze personali, bensì su quelle della società tutta. La fine della Prima guerra mondiale portò anche alla nascita di una letteratura proletaria, la Musansha Bungaku, che può essere distinta in tre diversi ordinamenti: una letteratura borghese-proletaria, una socialista e una di stampo marxista.

Con l’attacco della Manciuria nel 1931 iniziava il periodo letterario definito Kurai Tanima, ovvero baratro oscuro, che durò fino al 1945. Il governo, infatti, per mostrare un Giappone coeso nella decisione dell’invasione, aveva attuato una serie di censure e di misure limitanti nei campi della stampa, della cultura e dell’istruzione, e ovviamente i primi bersagli verso cui ci si scagliò furono i proletari. È così che in questo periodo nacque e proliferò la letteratura di guerra, la cui prima voce fu quella di Hino Ashihei, che al seguito delle truppe scrisse nel 1938 la trilogia che ne esaltava il coraggio e lo spirito di sacrificio, composta da Mugi To Heitai (‘Orzo e soldati’), Tsuchi to heitai (‘Terra e soldati’) e Hana to heitai (‘Fiori e soldati’).

Con l’invasione della Manciuria e con l’entrata nel secondo conflitto mondiale, il governo giapponese si appropriò della letteratura e di tutti i suoi generi, caricandoli di ideologie volte a esaltare la guerra e a pubblicizzare le scelte fatte dal paese. Le riviste più importanti del periodo bellico furono il mensile «Shiki», ‘Le stagioni’, che mirava a un classicismo mitigato dagli influssi della modernità; e «Rekitei», ‘Il cammino’, che riuscì ad armonizzare la lirica indigena tradizionale con la visione occidentale. Finita la guerra, anche la poesia, come il romanzo, vide una proliferazione repentina e divenne uno strumento di critica della società e di sfogo per le sofferenze patite a causa della guerra.

Nel 1941, con l’aumentare delle ostilità nel Pacifico, la censura divenne sempre più rigida e le lettere vissero un periodo di forte stagnazione; si risolleveranno solamente dopo la disfatta del 1945, generando una fioritura sbalorditiva del romanzo. Sebbene il periodo del dopoguerra fosse caratterizzato da devastazione e impoverimento, la reazione giapponese fu quella di una sfrenata corsa ai piaceri, che mise da parte completamente le vecchie virtù tradizionali e sommerse anche le lettere, dando vita alla cosiddetta Nikutai Bungaku, la letteratura della carne, tutta fatta di erotismo elevato a simbolo di critica della società.

Passato questo periodo funestato dalle guerre e dalle loro conseguenze, le correnti letterarie ripresero piano piano il loro corso e già dal 1946 comparvero i primi romanzi realistici, tra cui Senbazuru (‘Le mille gru’) di Kawabata Yasunari, primo premio Nobel giapponese per la letteratura nel 1968. Si svilupparono inoltre il romanzo in prima persona, quello psicologico e quello di costume, e riprese vita la letteratura comunista, che ben presto però venne nuovamente messa a tacere.

Per quanto riguarda la sfera della poesia, predominò a lungo la tradizione; la sua evoluzione può studiarsi secondo linee differenti: da una parte c’era una ripresa delle due forme tradizionali della Tanka e dell’Haikai; dall’altra si sviluppò invece una poesia nuova, la Shintaishi, nata dall’incontro con la poesia occidentale. Nonostante la proliferazione di gruppi e circoli poetici dedicati al rinnovamento della Tanka, non si riuscì tuttavia a raggiungere una visione chiara di come modernizzarla; pertanto, essa perse ancor di più il suo slancio vitale. Solo nel 1900, grazie a Yosano Tekkan che fondò la Shinshisha, ovvero il Circolo della nuova poesia, la Tanka riassunse la sua prerogativa di esprimere l’anima della società e venne finalmente rinnovata, iniziando a descrivere e raccontare i sentimenti legati alla quotidianità utilizzando un linguaggio libero e privo di costrizioni. Il movimento ebbe ovviamente un suo organo ufficiale, la rivista «Myojo», la ‘Stella mattutina’.

Il fondatore del circolo letterario Negishi, Masaoka Shiki, colui che portò il realismo nella Tanka, sosteneva la necessità di mantenere uno stile sobrio ed elegante e di raccontare con riserbo i propri sentimenti. Si assistette così a una sorta di impressionismo poetico, un leggero ermetismo in cui i sentimenti e le passioni vennero offuscati e presentati come attraverso una coltre di nebbia. Masaoka Shiki fu fondamentale anche per il rinnovamento dello Haikai, che veniva ora scritto eliminando dalla poesia ogni immaginazione soggettiva e ogni riflessione profonda. La sua scuola prese il nome di Nihonha (‘Scuola Giapponese’) e il suo organo di riferimento fu il giornale «Nihon» (‘Il Giappone’).

Invece, il circolo Shinkeiko, ‘La nuova tendenza’, fondato nel 1911, rivendicava per lo haikai una libertà stilistica assoluta nel concentrarsi sulla contemplazione del mondo naturale alla luce delle nuove tecniche e delle nuove idee arrivate nell’isola. La vera innovazione di questo periodo fu però la Shintaishi, la poesia mitigata dagli influssi occidentali, primi fra tutti la lunghezza non definita, il ricorso alla rima e la divisione in strofe. Anch’essa però, col passare del tempo, subì l’influenza delle varie correnti letterarie che si alternarono velocemente in questo periodo: la prima fu la corrente romantica, che caratterizzò i componimenti con un certo trasporto emotivo.

Complessivamente, l’haikai, la tanka e la shintaishi si evolsero parallelamente e ognuno dei tre generi subì le influenze delle nuove poetiche occidentali a cui si guardava sempre con grande curiosità e con una predisposizione intellettuale volta a conoscere e ad assimilare quanto più possibile.

Lo sguardo occidentale

Per avere un panorama completo della storia dei rapporti culturali tra Occidente e Giappone risulta necessario fare un passo indietro e tenere in considerazione quello che è stato lo sguardo dell’Occidente, e dell’Europa soprattutto, verso l’alterità che da sempre il mondo Orientale costituisce. Se è vero che il Giappone ha vissuto per secoli isolato dal resto del mondo, è vero anche che la cultura occidentale, e la cultura europea più nello specifico, si sono distinte nei secoli per la loro visione profondamente etnocentrica del mondo e del sapere. È in questo panorama che la parola Oriente, sin dai tempi antichi, venne accostata al pensiero occidentale in modo ossimorico e contrastivo. Da una parte ci siamo noi, e dall’altra c’è il diverso, l’alterità. L’Oriente è dunque sempre stato collegato a un concetto di diversità, di esotismo, di misterioso e di affascinante.

È negli studi di Edward Said, e principalmente nel suo saggio del 1978 Orientalism[12], che la visione occidentale dell’Oriente viene affrontata e spiegata: a partire dalle critiche mosse verso di essa comincia a essere messo in discussione il concetto di Oriente associato a qualcosa di “diverso da me”. Com’è noto, negli studi di Said il termine “Orientalismo” indica la maniera in cui la cultura europea è entrata in contatto con l’Est del globo, cioè cercando di dominarlo, di fornirne un’immagine determinata che lo rendesse il luogo in cui risiede l’alterità.

Nel saggio, l’autore descrive come una visione stereotipata dell’Est abbia portato a individuarne tutte le civiltà etichettandole con modelli fissi e sempre uguali, e sottolinea poi come questo tipo di comportamento abbia scoraggiato l’approfondimento e la progressione degli studi al riguardo, continuando dunque ad avallare una visione ristretta e statica delle culture orientali. Per “orientalismo” si intende dunque la conoscenza dell’Oriente mediata dal punto di vista occidentale, quello cioè di porre come presupposto una distinzione ontologica tra Oriente e Occidente come due entità contrapposte e portatrici di valori assai differenti. L’orientalismo è divenuto il risvolto intellettuale del predominio europeo e occidentale.

In Orientalismo, Said sostiene ancora che la maggior parte degli studi occidentali sull’Est del mondo sono nati con lo scopo di giustificare e spiegare storicamente le motivazioni delle dominazioni coloniali europee; egli ritiene infatti che ciò che è stato prodotto sull’Oriente non sia altro che la dimostrazione della percezione e del sentimento occidentale di superiorità nei confronti dell’Oriente, visto come tradizionale, arretrato, povero e caratterizzato da chiusura e ignoranza, in opposizione al progressista e democratico Occidente. Come spiega lo stesso autore, uno dei propositi del suo saggio è quello di analizzare la forza dell’affermazione di una cultura e della prevaricazione sull’altra; uno dei suoi grandi meriti è proprio quello di aver aperto gli occhi su questa concezione altamente etnocentrica del mondo e della civiltà, sebbene alcuni preconcetti persistano ancora.

Per quanto riguarda l’eredità culturale giapponese, si ricordi che nel 1638 il Giappone chiuse le frontiere al mondo intero e si ritrovò in un totale e profondo isolamento, che alimentò la curiosità degli altri popoli verso quelle culture così difficili da conoscere. La ripresa dei commerci con l’Occidente, avvenuta con la Restaurazione dei Meiji nel 1868, cambiò però la situazione, introducendo le capacità tecniche e i modi di agire occidentali in Giappone e modificandone le politiche interne. Nell’Ottocento, infatti, con lo sviluppo dei trasporti e delle tecnologie, l’Oriente sembrò avvicinarsi molto: le descrizioni al riguardo aumentarono, e così il numero di coloro che lo avevano davvero visitato.

In Europa, il gusto per i prodotti provenienti dal Giappone raggiunse il culmine nel XIX secolo. In questo periodo, frequentatori dei salotti letterari particolarmente attratti dalla cultura del paese del Sol Levante furono i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, che più volte nelle loro opere si trovarono a presentare le fantasie suscitate da questo lontano paese, dando così vita a quella moda nata a Parigi grazie alle grandi Esposizioni Universali che prese il nome di Japonisme.

Il termine fu coniato dal critico e collezionista francese Philippe Burty, che lo utilizzò per la prima volta in una serie di articoli pubblicati tra il 1872 e il 1873 sulla rivista letteraria «La Renaissance littéraire et artistique». Questi artisti avevano l’abitudine di riunirsi nei salotti per parlare dell’arte orientale e di come questa venisse recepita in Occidente, e discutevano insieme sul modo corretto di apprezzare e far conoscere le xilografie giapponesi.

Nel loro Journal[13] (1851-1870) e in Maison d’un artiste[14], i fratelli De Goncourt parlarono spesso della loro passione per il Giappone, da loro molto conosciuto in quanto mercanti d’arte e scrittori, nonché appassionati sin dal momento in cui lo scoprirono. Da queste pagine emerge chiaramente la progressiva diffusione che la cultura nipponica stava avendo in Europa e l’influenza che acquisiva soprattutto sugli Impressionisti. I De Goncourt giunsero a individuare e descrivere le analogie che riconoscevano tra la lontana cultura giapponese e quella parigina.

Tutto ciò che fanno è prendere da ciò che osservano. Loro rappresentano ciò che vedono: l’effetto incredibile del cielo, le strisce su di un fungo, la trasparenza di una medusa. La loro arte copia la natura così come fa l’arte gotica. In sostanza non c’è alcun paradosso nel dire che un album giapponese ed un dipinto di Watteau sono disegnati a partire da un intimo studio della natura[15].

I due, grazie alla loro professione, ebbero infatti la possibilità di vedere non solo le stampe più comuni provenienti dal Giappone, ma anche i disegni a inchiostro della raccolta Siebold a Leiden nel 1861.

I fratelli non erano mai stati in Giappone e ne hanno scritto studiando i materiali che arrivavano in Europa e parlando con i giapponesi che vivevano in Francia e che incontravano alle mostre d’arte e nei saloni delle Esposizioni Internazionali. Edmond pubblicò molti scritti sugli artisti del paese del Sol Levante, tra cui una monografia storica su Kitagawa Utamaro e una su Katsushika Hokusai, che divennero gli unici due testi allora in circolazione con un approccio critico sugli artisti giapponesi e che vennero presto tradotti e diffusi in varie lingue. Un canale molto sfruttato per la diffusione delle stampe giapponesi e della loro cultura in generale fu rappresentato a Parigi dall’apertura in Rue de Rivoli nel 1862 del negozio La porte chinoise di Madame Desoye, che divenne presto un centro propulsore e un punto di incontro per tutti gli artisti affascinati dall’arte orientale.

Al livello letterario, il primo incontro tra il Giappone e l’Europa vi fu grazie alla penna di Pierre Loti, pseudonimo di Louis Marie Julien Vlaud, un ufficiale navale dell’esercito francese che si dilettava a scrivere storie di amori e di passioni ambientate in paesaggi esotici e lontani. Nel 1888 pubblicò Madame Chrysantème, un testo scritto in forma di diario dal protagonista, alter ego letterario dell’autore, un ufficiale navale costretto a rimanere a Nagasaki per alcuni mesi a causa di un guasto alla sua imbarcazione. Il racconto presenta, in forma letteraria, una consuetudine a cui gli ufficiali occidentali fecero largo ricorso, ovvero quella di poter sposare temporaneamente le geishe mentre si trovavano in Giappone e di avere poi tutta la libertà di rescindere il contratto, una volta deciso di ripartire. Il romanzo si articola dunque sulle dicotomie tra l’Europa e il Giappone e tra uomo e donna: è presentato dal punto di vista occidentale, secondo il quale l’uomo è bianco e l’Europa è l’Occidente, mentre la donna è l’esotico, il fascinoso, l’altro, e il Giappone è l’Oriente.

A essere particolarmente attratti dall’arte nipponica furono, poi, senza dubbio i fauves e i pittori dell’Impressionismo francese, primo tra tutti Edgar Degas, che studiò i modi della composizione e del punto di vista alla giapponese e li riutilizzò nei suoi dipinti.

Van Gogh anche subì la fascinazione del lontano Oriente e non solamente dal lato artistico, bensì anche nella concezione e nella visione della vita di ogni giorno: «Tutto il mio lavoro è più o meno basato sull’arte giapponese»[16], si legge in una lettera indirizzata al fratello Theo. Riteneva, infatti, che gli artisti nipponici non si sentissero in competizione gli uni con gli altri, ma che lavorassero insieme scambiandosi idee e prospettive che arricchivano quotidianamente il loro modo di fare arte, e questa visione divenne per lui un’ispirazione anche nella vita di tutti i giorni.

Come è ben noto, Van Gogh ebbe una vita molto difficile e piena di sofferenza e una delle poche consolazioni era data dall’amore di e verso il fratello Theo, che conosceva molti esperti del mondo dell’arte giapponese, come l’illustratore Henri Guérard e il gallerista Siegfried Bing, creatore del mensile «Le Japon Artistique»[17] pubblicato dal maggio 1888 in poi con lo scopo di insegnare a guardare l’arte giapponese dal punto di vista corretto, quello giapponese appunto; proprio grazie ai contatti di Theo, Van Gogh fu in grado di coltivare questa forte passione nata per il Sol Levante.

La prima volta che l’artista menzionò il nuovo interesse fu in una lettera del novembre 1885, poco dopo essersi trasferito ad Anversa, città nella quale ogni giorno il porto accoglieva merci provenienti da tutto il mondo. La moda nata in Francia una ventina di anni prima e implementata dall’Esposizione Universale del 1885 tenutasi proprio ad Anversa aveva portato Van Gogh a imbattersi in varie stampe, al tempo molto economiche: in breve tempo riuscì a crearsi una collezione personale di tutto rispetto. Tra le varie opere che comprò vi fu anche il celebre Ponte di Shin-Ohashi sotto la pioggia, opera di Utagawa Hiroshige (1857). Il dipinto s’inscrive nel genere noto come Ukiyo-e, che significa ‘immagini del mondo fluttuante’. È a questa opera che Van Gogh si ispirò per la realizzazione del suo Ponte sotto la pioggia, di cui decorò anche la cornice con caratteri giapponesi, sebbene ignorandone il significato, in un chiaro omaggio al mondo orientale e giapponese da cui aveva tratto ispirazione.

Per quanto riguarda l’aspetto letterario, è importante soffermarsi sul concetto di letteratura giapponese che «è stato costruito quando il Giappone è emerso come uno stato nazionale moderno alla fine del diciannovesimo secolo, mentre esercitava il potere coloniale su altre parti dell’Asia»[18].

L’Oriente doveva, infatti, allora fornire un’idea unica di Giappone che risultasse in opposizione a quella occidentale e principalmente a quella americana: la rigidità e inflessibilità morale che spesso associamo al Giappone è figlia proprio di quel periodo storico, in cui il paese sentì la necessità di proteggere le proprie specificità contro gli influssi del mondo.

Questo sentimento esasperato di conservazione della propria identità andò via via modificandosi, intorno agli anni Settanta del Novecento, quando il volto del Giappone cambiò ancora e si passò a una fase in cui si sentiva meno l’opposizione tra Est e Ovest; seguì una maggiore apertura verso il mondo esterno e verso gli altri modi di vivere, tanto che molti scrittori giapponesi ricorsero a dei modelli letterari occidentali nelle loro opere, proprio per sottolineare gli influssi che lo studio e la conoscenza di quelle culture avevano avuto su loro.

La letteratura giapponese contemporanea

In ambito strettamente letterario, il connubio tra l’introspezione tipica dei romanzi occidentali e lo stile evanescente orientale trova il suo massimo esponente in Kawabata Yasunari, un grande scrittore che fu molto apprezzato in Occidente, tanto da divenire il primo letterato giapponese a essere insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1968; per lo stile di scrittura e le tematiche che affrontò divenne il portavoce dei valori nipponici della misura e della raffinatezza, pur non esimendosi dalla presentazione di tematiche difficili come quella della morte. La sua vita fu costellata di lutti e gravi perdite sin dalla tenera età, quando rimase orfano dei genitori e venne separato dalla sorella, e la morte divenne ben presto una presenza costante nella sua vita, fino al gesto estremo del suicidio nel 1972.

Kawabata è famoso per la perfezione formale dei suoi testi nonché per la sua capacità di introspezione e analisi psicologica nel delineare i propri personaggi. Queste qualità sono perfettamente riscontrabili nella sua opera Nemureru bijo, ‘La casa delle belle addormentate’[19], che ebbe larga fortuna in Occidente. Già dal titolo capiamo che la ben nota favola di Perrault assume qui caratteristiche del tutto differenti che si declinano nelle varie riproduzioni delle giovani e inconsapevoli ragazze narcotizzate del testo.

Questo racconto, velato di un raffinato erotismo, ha una trama molto semplice e lineare: un anziano signore, Eguchi, consigliato da un suo amico, si reca in una casa molto particolare all’interno della quale viene permesso ai clienti, la maggior parte dei quali anziani, di trascorrere la notte accanto a delle vergini addormentate artificialmente, forse addirittura ignare di quanto accade loro. Tutto il romanzo si muove tra questi non-incontri e le riflessioni che suscitano nella mente del protagonista.

Quando giacevano sfiorati dalla nuda pelle delle giovani donne addormentate, a insorgere dal fondo del loro animo non era forse soltanto il terrore della morte che si avvicinava, l’inalienabile tristezza della gioventù perduta; era forse il rimorso per le immoralità da loro stessi commesse e – come capita spesso agli uomini che hanno raggiunto il successo – l’infelicità familiare[20].

L’erotismo sotteso al testo si gioca tutto sulla privazione del desiderio; Eguchi si limita a sfiorare queste donne, a prenderle per mano, a odorare il loro profumo e a osservare i gesti incoscienti che fanno nel sonno. Il protagonista vive così nelle sue memorie, risvegliate ogni volta da un piccolo particolare. Gli incontri avvengono in un’ambientazione quasi magica, sospesa nella luce rossa delle tende di velluto che isolano la casa, e procede tra memorie e ricordi, tra gli aromi e i piaceri di una sessualità non consumata, bensì mostrata e negata, ma che allo stesso tempo mantiene viva la sua carica propulsiva e si trasforma in attaccamento alla vita contro l’inesorabile scorrere del tempo.

I veri protagonisti dell’opera diventano i sensi, l’olfatto, la vista, il tatto, e tutto si trasforma in una sorta di sogno in cui ricordi reali e immagini oniriche si mescolano inesorabilmente. L’ultimo incontro è quello spiazzante, traumatico, quello che cambia completamente il volto del testo: Eguchi, venuto a conoscenza della morte di un anziano signore durante un incontro e rimasto un po’ scosso dal fatto che per non creare problemi alla casa il cadavere è stato trasportato altrove, vive la notte con le due ragazze tra cattivi presagi e incubi inquietanti, in cui sogna che la stessa sorte possa toccare a lui. Al risveglio, però, Eguchi ha superato la notte, mentre per una delle due ragazze accanto a lui è ormai troppo tardi. La giovane è morta, forse a causa di un eccesso di sonniferi, e la dicotomia tra giovani e anziani, tra morte e vita, si sgretola su sé stessa come un castello di carte. L’opera si chiude su una frase che la tenutaria della casa, dopo il terribile evento, rivolge al protagonista: «Non datevi pensiero inutilmente. Riposatevi con calma. Di ragazza ce n’è un’altra no?»[21]. Il commento brutale può essere inteso forse in senso filosofico, ribaltando il legame tra anziani e morte/giovani e vita: riveste l’esistenza di un velo opaco che a volte svela e a volte nasconde la tragicità di ogni vita.

Da questo racconto e dal suo approdo in Occidente verrà tratto il romanzo di Gabriel García Márquez Memoria delle mie puttane tristi[22], che in apertura presenterà in omaggio l’incipit dello stesso Kawabata, e che svilupperà il suo scritto seguendo l’impostazione del giapponese. Nel testo del sudamericano, un anziano decide di regalarsi «una notte d’amore folle con un’adolescente vergine»[23] per il suo novantesimo compleanno; prende così i contatti con la proprietaria di una casa di appuntamenti che gli trova una quattordicenne. La bambina è però così terrorizzata da quanto dovrà accadere che la donna è costretta a sedarla; così, nel loro primo incontro, l’anziano riesce solamente a guardarla dormire e quello è il pretesto da cui inizia a riflettere sulla sua vita e sulla sua giovinezza. Tornerà più volte a trascorrere la notte con la ragazza, senza mai neppure sfiorarla, e, sebbene anche qui un sottile erotismo pervada tutto il testo, questo ben presto si trasforma in un sentimento che l’anziano non aveva mai provato: l’amore. Quel che non ha mai sperimentato nella sua vita fatta di estremi e dissolutezza lo troverà nella candida compagnia di quella giovane dormiente al tramonto della sua esistenza e così, finalmente appagato di sentimenti ed emozioni positive, per il suo novantunesimo compleanno avrà raggiunto la serenità che gli occorre per avvicinarsi al proprio tramonto.

Non solo la trama, dunque, ricalca quella di La casa delle belle addormentate, ma anche le tematiche affrontate, i pensieri ricorrenti, l’avvicinamento della morte, l’erotismo latente sotteso a tutto il testo, ma che si trasforma in delicatezza e gentilezza. Un vero omaggio al Giappone e a uno dei suoi migliori esponenti nonché un felice esempio di contaminazione artistica tra Occidente e Oriente.

Italia e Giappone

Come accennato, il rapporto di scambio e influenza culturale tra Giappone e Occidente fu reciproco. In Italia, oltre che attraverso l’arte, un ruolo fondamentale nella presentazione e nella descrizione delle usanze tradizionali giapponesi lo ebbe la stampa nazionale. Gabriele d’Annunzio fu molto importante per i legami che instaurò con il Giappone e soprattutto per l’inserimento, all’interno dei suoi testi, di elementi tipici del paese del Sol Lavante.

Esemplificativo è il racconto Mandarina[24], che venne pubblicato sulla rivista «Capitan Fracassa» il 22 giugno 1884 e in cui emerge il gusto della protagonista per il japonisme. Qui l’autore racconta la storia d’amore tra la marchesa romana Aurora Canale e il giapponese Sakumi e si concentra molto sulle descrizioni della casa della donna, molto attratta dagli oggetti provenienti dall’Oriente. Nello stesso anno, sul quotidiano «Tribuna», d’Annunzio curò la rubrica Giornate Romane, in cui inserì come primo articolo quello dal titolo Toung-Hoa-Lou, Cronica del fiore dell’Oriente, in cui raccontava l’incontro fra il Re d’Italia e l’ambasciatore giapponese Fujimaro Tanaka e in cui scelse di firmarsi con lo pseudonimo Shiun-Sui-Katsu-Kava. Nel 1885 pubblicò sul noto quindicinale «La domenica letteraria ‒ Cronaca bizantina», l’articolo Letteratura Giapponese, in cui inserì anche delle illustrazioni del pittore Yamamoto Hosui, e l’Outa occidentale, una poesia composta secondo la metrica giapponese dell’haiku, costituita cioè da sole trentuno sillabe divise in cinque versi. Così la poesia giapponese arrivò in Italia.

La fascinazione per il Sol Levante non si limitò però solo a d’Annunzio: molti scrittori italiani, tra i quali Umberto Saba, Dino Buzzati, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Fosco Maraini e Alberto Moravia, viaggiarono e si dedicarono alla stesura di articoli sul Giappone, rimanendo affascinati dalla sua cultura.

Questi autori viaggiarono principalmente come inviati dei vari giornali, soprattutto per la Terza Pagina del «Corriere della Sera», e quindi i loro scritti, più che narrazioni romanzesche, si configurano come veri e propri reportages giornalistici, mancanti di quella parte di soggettività ed emozionalità tipica del racconto di viaggio fatto per piacere.

L’atteggiamento generale non è, quindi, quello di uno studio accurato, bensì quello di una semplice osservazione e descrizione degli aspetti più esotici e più di impatto del Giappone; ne consegue una conoscenza lacunosa e superficiale per quanto riguarda la cultura e la letteratura prodotta nel Sol Levante, tanto che in Italia le prime traduzioni dei grandi letterati giapponesi come Kawabata Yasunari e Mishimi Yukio saranno molto tardive, di non prima degli anni Cinquanta, e il più delle volte mutuate dalle traduzioni dall’inglese, quindi senza cimentarsi direttamente col testo in giapponese.

Una figura che merita una citazione a parte in questo contesto è Fosco Maraini, che compì numerosi viaggi in Giappone non solo in qualità di letterato, ma anche di antropologo ed etnologo, e che rappresenta uno dei più grandi conoscitori del Paese del Sol Levante del Novecento italiano. Maraini viaggiò per piacere, per passione, per la voglia di scoprire il mondo e le sue genti; è per questo che dalle sue opere non emergono solo descrizioni molto accurate degli usi e dei costumi nipponici, ma vengono presentati dei veri e propri spaccati di vita che mostrano, senza confronti e senza giudizi, la diversità della quotidianità di un italiano o di un europeo rispetto a un giapponese. Maraini, sin dall’età di ventiquattro anni, iniziò a immaginare un progetto ambizioso, quello di una biblioteca che raccogliesse testi sull’Oriente: Orientalia conta oggi più di ottomila volumi, gran parte dei quali salvatisi miracolosamente dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che sono andati tutti a confluire nel Gabinetto scientificoletterario Vieusseux, ancora oggi uno dei più importanti centri di studio sull’Oriente.

Nel periodo del dopoguerra e del post-fascismo, solo un altro autore oltre a Maraini andò in Giappone, Alberto Moravia, che arrivò nel Sol Levante nel 1957 un po’ per caso, in occasione del Congresso mondiale del P.E.N. Club[25] a cui era stato invitato Ignazio Silone e a cui Moravia partecipò, dunque, come sostituto[26]. Vi soggiornò per circa tre mesi, e compì successivamente altri tre viaggi in Giappone, nel 1967, nel 1971 e nel 1982: da quelle esperienze nacque la serie di articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» e successivamente raccolti nel volume del 1994 Viaggi: articoli 1930-1990, caratterizzati dalla commistione tra saggistica, storia, giornalismo e letteratura.

Altro letterato italiano che si recò in Giappone e ne riportò descrizioni e osservazioni fu Dino Buzzati, anch’egli partito come corrispondente della Terza Pagina del «Corriere della Sera». Buzzati era molto avvezzo ai viaggi, avendo vissuto molta della sua vita come corrispondente dall’estero ma, diversamente da quel che si può pensare, egli non ritenne l’esperienza del viaggio edificante né tantomeno utile per aprire gli occhi e conoscere nuovi aspetti di sé stesso grazie al confronto con paesi, genti e abitudini sconosciute.

Questa visione la si ritrova in La mamma e il quadrigetto, primo articolo dedicato al Giappone del novembre 1963, che l’autore aprì con una nota autobiografica e con l’introduzione del suo alter ego, Stefano Cara, la cui solitudine e disperazione nel trovarsi in un paese straniero e lontano fu la marca distintiva di tutto lo scritto. Diversamente da Maraini, Buzzati trovò il Giappone troppo distante dall’Italia e non si appassionò né ai suoi paesaggi né al suo cibo, né tantomeno uscì mai da Tokyo, cosicché tutte le sue descrizioni dei venti giorni trascorsi sul suolo nipponico si ridussero a un reportage su questa sola città.

Italo Calvino nel 1976 visitò il Giappone, anch’egli come inviato del «Corriere della Sera», e in seguito a questa esperienza scrisse ben nove articoli, L’osservatorio del signor Palomar, apparsi poi sulla rivista «L’Approdo Letterario» col titolo Il signor Palomar in Giappone, e raccolti in Collezione di Sabbia nel 1984. La visita in Oriente segnò a fondo la sua vita, tanto che l’influenza della cultura giapponese è riscontrabile sia nel capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore intitolato Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna, scritto con uno stile orientaleggiante ispirato probabilmente all’estetica giapponese di Kawabata Yasunari, sia nel capitolo L’aiola di sabbia di Palomar. L’esperienza di Calvino diventa essa stessa un’esperienza dei sensi e anche questa prospettiva, che in lui predilige la vista, sembra derivare dalla lettura di Kawabata, che in La casa delle belle addormentate fornisce all’olfatto, e ai ricordi che questo richiama alla memoria, la speciale prerogativa di aiutare a comprendere il mondo.

Fondamentale, nella diffusione della cultura del Sol Levante in Italia, è poi il contributo del settore accademico, che vanta al suo interno diversi luminari. La città di Roma ha ricoperto e ricopre un’importanza rilevante come centro di studi e di attività varie che mirano a porre al centro della loro ricerca l’Estremo Oriente e il Giappone. È qui infatti che sono nati centri di ricerca come l’Is.M.E.O., l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente; l’Istituto Giapponese di cultura e l’Istituto Orientale della Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma. Del 1950 è poi il Centro di Studi di Cultura Giapponese, che nel 1959 ha cambiato nome in Centro Culturale Italo-Giapponese. Nel 1956 il Centro iniziò la pubblicazione della rivista bimestrale «Cipangu» diretta da Mario Teti, in cui vennero tradotti molti autori giapponesi moderni e contemporanei, come Akutagawa Ryunosuke, Jun’Ichiro Tanizaki e Ihara Saikaku.

Altra rivista fondamentale nel settore della ricerca fu «East and West», fondata nel 1950 e sulla quale è possibile incontrare lavori e studi di Giacinto Auriti, Marcello Muccioli e Mario Teti, tre grandi traduttori ed esperti della cultura giapponese. È proprio Muccioli che a Napoli, tramite l’Istituto Universitario Orientale e il suo organo di divulgazione, gli «Annali», dirige e coordina la parte sugli studi giapponesi, che continuano così a progredire nella nostra penisola.

Le prime traduzioni giunte in Italia di autori giapponesi, oltre a quelli precedentemente citati, sono quelle delle opere di Natsume Sōseki, Kawabata Yasunari e Jun’Ichiro Tanizaki.

Sōseki è nato a Tokyo nel 1867 e la sua opera, molto legata all’idealismo, rappresenta al meglio la fase di transizione vissuta dal Giappone durante la Restaurazione Meiji. Egli ha infatti analizzato i valori della nuova epoca evidenziandone i lati positivi e quelli negativi, ponendo in primo piano la riflessione sull’individualismo nipponico messo a confronto con altre culture e la solitudine e il vuoto di ideali davanti ai quali gli intellettuali giapponesi si sono trovati una volta che il loro paese si è aperto al mondo. Egli diventa una figura di riferimento in un momento di grandi cambiamenti sociali, politici e culturali, e si fa portavoce del senso di incertezza, curiosità e difficoltà con cui i Giapponesi si trovano a confrontarsi.

La sua fama verrà consolidata dal suo primo capolavoro, Wagahai wa neko de aru (吾輩は猫である, Io sono un gatto, 1905), tradotto in Italia nel 2006 da Antonietta Pastore per la casa editrice Neri Pozza[27]; qui l’autore crea il personaggio di un gatto filosofo che, trovando rifugio a casa di uno strano professore di inglese, assiste a una miriade di situazioni particolari che lo fanno riflettere sullo stile di vita libertino e dissoluto che si è sviluppato nell’età moderna.

Tra le varie speculazioni compiute, una delle più importanti verte proprio sulla situazione in cui si trova il Giappone, nella sua visione ormai talmente inebriato dal contatto con l’Occidente da trovarsi incagliato all’interno di una cultura estremamente individualista che ruota tutta intorno alla soggettività, segnando inevitabilmente, per ogni individuo, una chiusura che non genera altro che una profonda solitudine.

Sempre per Neri Pozza, e sempre con traduzione di Antonietta Pastore, esce nel 2007 Boccan, Il signorino[28], uno dei romanzi più letti di tutta la letteratura giapponese moderna. Protagonista è proprio questo signorino, termine usato nella duplice accezione di giovane e immaturo, infantile. Una volta cresciuto, non perderà il suo temperamento ribelle e anticonvenzionale, divenendo in tal modo un alter ego dell’autore che ha sempre difeso la propria estraneità alle norme sociali e non ha mai nascosto il proprio duplice rapporto con la letteratura occidentale, da una parte amata, dall’altra detestata. Proprio per questo, Sōseki è ritenuto lo scrittore che meglio ha saputo interpretare il proprio periodo storico, nonché quello che ha saputo mettere per iscritto la crisi dell’uomo moderno.

Altro autore fondamentale che arriva nella nostra penisola è Jun’Ichiro Tanizaki, nato a Tokyo nel 1886 e altro rappresentante fondamentale dell’epoca Meiji. Diversamente da Sōseki, che incentrava le sue opere sul tema della solitudine, l’attenzione di Tanizaki si concentra sulla bellezza femminile e sul piacere provocato dai sensi, il tutto filtrato attraverso un’estetica del delicato e del raffinato tutta di stampo giapponese.

Tra le fonti più vicine all’autore e da cui ha tratto insegnamento e ispirazione ci sono sicuramente il decadentismo occidentale di Wilde e Baudelaire e la scrittura oscura di Edgar Allan Poe, che viene infatti citato nelle prime pagine di Morbose Fantasie. Questo viene pubblicato in Giappone nel 1918, nel pieno dell’epoca Taisho, ma lo stile di scrittura sembra assolutamente più moderno del periodo in cui vede la luce. In Italia viene edito da Feltrinelli nel 1982 e da subito si imprime nelle coscienze dei lettori della penisola. In Morbose fantasie, un omicidio di una violenza inaudita diventa il motivo scatenante da cui parte la narrazione delle ossessioni e delle perversioni umane. I protagonisti sono i due amici Takahashi e Sonomura e l’opera inizia con la chiamata ricevuta da Takahashi che viene invitato dall’altro a seguirlo in quanto la sera, a mezzanotte in punto, sarà assassinata una persona. L’omicidio viene commesso davvero e Takahashi sarà talmente terrorizzato da questa scena che trasformerà l’iniziale compassione verso l’amico, ritenuto quasi uscito di senno per la chiamata effettuata, in un sentimento di angoscia e paura verso quell’uomo che pensava di conoscere e che invece scopre attratto e addentro a tale genere di eventi. Sarà da qui che partiranno le sue riflessioni su quanto visto e quanto accaduto; le sue meditazioni arriveranno fino al termine del racconto, in cui lo stesso Sonomura sarà coinvolto in incredibili situazioni con la misteriosa donna della stanza.

Tanizaki reinventa a suo modo il noir e nelle sue opere capovolge completamente il ruolo della donna, che diventa una femme fatale caratterizzata da una crudeltà distruttiva e deviata, capace con la sua sensualità di asservire a sé qualsiasi uomo ella desideri e per qualunque fine abbia in mente.

Altro giapponese che ha riscosso molto successo in Occidente e in Italia è il già citato Kawabata Yasunari di La casa delle belle addormentate. Tra i suoi temi ricorrenti vi è sicuramente la ricerca della bellezza, che pone inevitabilmente in contrasto un mondo ideale di purezza e innocenza con quello reale delle miserie dell’essere umano. Nelle sue storie la trama è molto semplice e lineare, mentre la parte davvero notevole è quella che riguarda ciò che accade nell’interiorità più profonda dei personaggi; la grandezza di Kawabata sta nel saper dar voce alle profondità più remote dei suoi personaggi e nel descriverle con delicatezza e raffinatezza, in un estetismo poetico che assume anche i connotati di un’analisi psicologica.

Nell’opera considerata il suo capolavoro, Il paese delle nevi, tradotta per la prima volta in Italia da Luca Lamberti per «I coralli» Einaudi nel 1957, Kawabata racconta la storia (ispirata a un amore di gioventù dell’autore) di un ricco esteta borghese, Shimamura, e del suo amore per la geisha Komako, una giovane che inizia questo lavoro per altruismo e vi rimane poi incatenata.

I due protagonisti si trovano in un villaggio termale sempre ricoperto di neve, descritto nel testo così a fondo che lo si può immaginare in tutti i suoi dettagli. È un paesino in cui il ritmo della vita è scandito dalla natura, ed è proprio questa, come nella migliore tradizione giapponese, che diventa il centro delle descrizioni operate dall’autore, che sembra quasi si diverta a dilatare brevi haiku nelle sue prose. Mentre è in viaggio in treno per raggiungere il paesino, Shimamura si trova davanti a una scena molto dolorosa di una giovane donna che accudisce un anziano malato, e il personaggio assiste agli eventi guardandoli dal riflesso sul finestrino. Questo fa già presagire che questa distanza nelle relazioni, questo ricorso a uno specchio che filtri la realtà, sarà la cifra sulla quale si articolerà anche il suo rapporto con Komako; Shimamura non si lascia mai coinvolgere veramente dalla realtà, preferisce il filtro del sogno, tramite cui può creare nella sua mente qualsiasi immagine egli desideri. Allo stesso tempo Komako, ben conscia della differenza sociale tra lei e l’uomo, non si lascia mai completamente andare, nonostante la piena devozione a Shimamura. Questo rapporto rimane incagliato nei risvolti psicologici dei due protagonisti e diviene ovattato proprio come il villaggio sotto la sua coperta di neve. Ciò che più colpisce è lo stile, effimero e delicato, di una raffinatezza che ha tutte le caratteristiche della cultura giapponese.

Per tornare al tempo attuale, si può constatare in maniera inequivocabile che la cultura orientale ha permeato diversi aspetti di quella occidentale, instaurando un legame così stretto da dissolvere in parte il senso di alterità ed esotismo che un tempo caratterizzava tale interazione culturale. Nel contesto letterario internazionale, gli autori giapponesi si ergono ora a figure di primo piano, contribuendo in maniera significativa alla ricchezza e alla diversità del panorama letterario globale. Nomi come Banana Yoshimoto, Kazuo Ishiguro e, soprattutto, Haruki Murakami si distinguono per la loro capacità di intrecciare narrazioni complesse e coinvolgenti, attraverso una fusione unica di tradizione e modernità. Le opere di questi scrittori hanno contribuito a creare un ponte culturale tra i due mondi, consentendo al lettore occidentale di immergersi in realtà letterarie distanti, ma al contempo affini nella loro umanità condivisa. Questa intersezione tra culture rappresenta un fenomeno in continua evoluzione, che arricchisce la scena letteraria mondiale e favorisce una comprensione reciproca più profonda tra Oriente e Occidente[29].

  1. Cfr. R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Bari, Laterza, 2004, pp. XXVIII-XXXIV.

  2. E. O. Reischauer, Storia del Giappone, Milano, Rizzoli, 1974, p. 18.

  3. Ivi, p. 32.

  4. Ivi, p. 46.

  5. Ivi, pp. 46-47.

  6. In corso la mostra dedicata a Ukiyoe. Il Mondo Fluttuante. Visioni dal Giappone, a cura di Rossella Menegazzo, visitabile al Museo di Roma di Palazzo Braschi fino al 23 giugno prossimo: https://www.museodiroma.it/it/mostra-evento/ukiyoe-il-mondo-fluttuante (ultima consultazione: 29 febbraio 2024).

  7. M. Muccioli, La letteratura giapponese, a cura di M. T. Orsi, Roma, L’asino d’oro, 2015, p. 300.

  8. Ivi, p. 404.

  9. Per ulteriori informazioni, cfr. Yoshie Okazaki, Japanese Culture in the Meiji Era, Tokyo, Obunsha, 1955.

  10. Testo tratto dall’URL: https://www.tuttogiappone.eu/il-patto-dei-cinque-articoli/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).

  11. Sulle traduzioni di opere letterarie occidentali in Giappone cfr. S. Ito, “Pioneers of the new literature”, in «Japan Quarterly», II, 1955, pp. 224-234.

  12. E. Said, Orientalism, traduzione di S. Galli, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

  13. E. e J. De Goncourt, Journal. Vol. I, tomo I (1851-1859); tomo II (1860-1864); tomo III (1865-1870).

  14. E. e J. De Goncourt, Maison d’un artiste, trad. Di B. Briganti, Palermo, Sellerio, 2005.

  15. Ibidem.

  16. Lettera 510, Arles 15 Giugno 1888; si può leggere in cartaceo in V. Van Gogh, Lettere a Theo, Parma, Ed. Guanda, 2009. Sul sito The Vincent van Gogh Gallery sostenuto dal Museo Van Gogh di Amsterdam, è consultabile l’intera raccolta di lettere scritte da Vincent ad amici e parenti alla URL: https://vangoghletters.org/vg/ (ultima consultazione: 31 gennaio 2024).

  17. S. Bing, Le Japon Artistique, Paris, Charles Gillot, 1888.

  18. E. Tai, “Rethinking Culture, National Culture, and Japanese Culture” in «Japanese Language and Literature», 2003, p. 9 (traduzione nostra).

  19. Y. Kawabata, La casa delle belle addormentate, trad. it. Di M. Teti, prefazione di Yukio Mishima, Milano, Mondadori, 1972.

  20. Ivi, p. 20.

  21. Ivi, p. 137.

  22. G. G. Márquez, Memoria delle mie puttane tristi, trad. di A. Morino, Milano, Mondadori, 2005.

  23. Ivi, p. 5.

  24. G. d’Annunzio, Mandarina, in Id., Tutte le novelle, a cura di A. Andreoli e M. De Marco, Milano, Mondadori, 2006.

  25. Associazione internazionale di poeti (poets), saggisti (essayists) e romanzieri (novelists), fondata a Londra nel 1922 dagli scrittori Catharine A. Dowson Scott e J. Galsworthy allo scopo di sviluppare collaborazione fra gli intellettuali di tutti i paesi. La sigla contenuta nel nome coincide nella lettura con il sostantivo inglese pen, penna, in modo tale che il nome è stato volutamente assunto a indicare l’associazione internazionale degli uomini di «penna».

  26. Per ulteriori informazioni cfr. T. Ciapparoni La Rocca, Moravia e il Giappone, in «Quaderni 1.’98», Fondo Moravia, Roma 1998.

  27. Il signorino e Io sono un gatto vengono pubblicati nella collana «Le Tavole d’Oro», a cui si affiancano, dello stesso autore, Fino a dopo l’equinozio, con traduzione di Andrea Maurizi, La porta ed E poi, tradotti da Antonietta Pastore; nella collana «Biblioteca Neri Pozza» compaiono, invece, Il cuore delle cose, tradotto da Gian Carlo Calza, e Guanciale d’erba, con traduzione di Lydia Origlia.

  28. N. Sōseki, Il signorino, traduzione it. di A. Pastore, Vicenza, Neri Pozza, collana «Le Tavole d’Oro», 2007.

  29. Estratto dalla tesi di Laurea Magistrale in Filologia moderna dal titolo La ricezione occidentale del Giappone e il fenomeno di Haruki Murakami, discussa a marzo 2024 presso il Dipartimento di Lettere e Culture moderne della Sapienza Università di Roma: relatori Giampiero Gramaglia e Maria Panetta, correlatore Francesco Saverio Vetere.

(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)

Ripellino e la narrativa russa all’Einaudi

Author di Chiara Benetollo

Nel 1955, Angelo Maria Ripellino, allora giovane slavista con già due importanti pubblicazioni alle spalle[1] avvia un rapporto di collaborazione con la casa editrice Einaudi. La collaborazione, limitata inizialmente alla preparazione di due volumi di traduzione e di un saggio su Majakovskij, viene rapidamente estesa e finirà per durare sino alla morte dell’autore. Dai Nuovi poeti sovietici alle poesie, le lettere e i racconti di Pasternak, Ripellino porterà all’Einaudi un gran numero di testi anche diversi tra loro, molti dei quali restano pietre miliari nella storia della slavistica italiana. Continua a leggere Ripellino e la narrativa russa all’Einaudi

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)

Angelo Maria Ripellino e l’Einaudi: un poeta sull’orlo del rifiuto

Author di Riccardo Deiana

Premessa

Che Angelo Maria Ripellino sia stato un importante e apprezzato slavista è noto; altrettanto nota e parimenti apprezzata è la sua produzione saggistica[1], accademica e divulgativa[2], nonché l’attività di recensore[3] e giornalista[4]. Pressoché sconosciuta è, invece, la trama che si cela dietro alle raccolte poetiche pubblicate dall’Einaudi. Lo scopo del presente lavoro è di fare luce proprio su questo punto. Continua a leggere Angelo Maria Ripellino e l’Einaudi: un poeta sull’orlo del rifiuto

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)

Nuovi itinerari nella letteratura russa. Dalle lettere di Angelo Maria Ripellino alla Redazione Einaudi

Author di Giulia Baselica

Il termine “itinerario” – che naturalmente richiama il noto saggio ripelliniano Letteratura come itinerario nel meraviglioso, pubblicato nel 1968 – assume qui un duplice significato. Se da un lato indica i nuovi percorsi conoscitivi che Angelo Maria Ripellino propone ai lettori italiani nel periodo compreso fra il 1945 e il 1977, dall’altro designa le nuove esplorazioni e le scoperte dello studioso, traduttore e poeta. Gli itinerari ripelliniani identificano altrettanti progetti editoriali le cui storie, non di rado complesse e tormentate, trovano testimonianza nella copiosa corrispondenza che Ripellino intrattenne con Giulio Einaudi, Italo Calvino, Luciano Foà, Daniele Ponchiroli, Renato Solmi, Mario Fruttero, Guido Davico Bonino, collaboratori della Casa editrice Einaudi[1]. Il lungo e intenso dialogo – particolarmente fitto negli anni Cinquanta e Sessanta – si apre il 24 febbraio 1945 con la richiesta, pervenuta dalla sede romana della Casa editrice Einaudi, di valutare «il manoscritto Ciarovsky Questo avvenne a Stalingrado»[2]. Continua a leggere Nuovi itinerari nella letteratura russa. Dalle lettere di Angelo Maria Ripellino alla Redazione Einaudi

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)

Una passeggiata nella bibliodiversità veneziana: viaggio tra le librerie indipendenti della Laguna

Author di Susanna De Angelis

Ci sono due modi d’intendere Venezia[1]: come una città afflitta nel suo essere uno dei maggiori centri turistici d’Europa, che sconta pesantemente un successo mondiale fatto di trenta milioni di turisti l’anno e che rischia di vivere nella costante ricerca del miglior offerente; oppure come una città d’arte, una città che resiste.

Riprendendo le parole dello scrittore romano Graziano Graziani, «c’è una Venezia dei luoghi fuori dalle rotte turistiche, che sembrano essere ovunque in un luogo in cui ogni scorcio è cartolina, è parte dell’immaginario che inchioda la città al suo passato dal quale non può e forse nemmeno vuole uscire»[2]. Il volume celebrativo dello scrittore è stato uno dei principali testi di riferimento per la nostra ricerca, anche perché si pone l’interrogativo se sia possibile parlare di una città da non-cittadino. Graziani parla di sé stesso come di «uno dei tanti che vengono risucchiati […] da quella forza di attrazione che non ha altro nome che quello di Venezia»[3]; noi abbiamo, invece, cercato di raccontarla attraverso la voce di chi per vocazione o per scelta ha costruito a Venezia il proprio spazio, vale a dire dei fondatori e dei direttori di alcune librerie indipendenti sparse per le calli della città: ve ne sono ben 16. Continua a leggere Una passeggiata nella bibliodiversità veneziana: viaggio tra le librerie indipendenti della Laguna

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)