Da diversi punti di vista la storia della diffusione della letteratura latinoamericana in Italia esemplifica molte delle dinamiche che hanno luogo nel campo letterario. Soprattutto nel caso in cui a essere coinvolti siano una letteratura pressoché sconosciuta – come lo era stata la letteratura latinoamericana negli anni ’50 e come, per certi versi, continua a esserlo oggi – e un contesto culturale, politico e sociale di provenienza nel quale, sistematicamente e a più livelli, si riscontrano le dinamiche di contrapposizione oppressore/oppresso e civilizzazione/barbarie che attraggono un interesse di natura più politica che letteraria. Gli studi sulla ricezione della letteratura latinoamericana sembrano suggerire che l’attenzione che il mondo editoriale europeo ha riservato, da sempre, all’America Latina sia stato più che altro il riflesso di un interesse che andava ben oltre il letterario, e che affondava le sue radici nelle dinamiche politiche che hanno interessato il subcontinente latinoamericano in particolar modo durante il XX secolo.
Per quanto riguarda l’Italia, gli studi condotti sul tema della ricezione della letteratura latinoamericana relativamente a quello che è stato il secondo Novecento mettono in luce l’esistenza di un’attenzione editoriale discontinua, monopolizzata da alcuni grandi autori – Borges, Cortázar o García Márquez, per esempio – e da un disinteresse causato in molti casi anche da alcune difficoltà tecniche e progettuali –, fatta eccezione per la casa editrice Feltrinelli, che disponeva di fondi e strumenti che le hanno permesso di tradurre moltissimi autori latinoamericani, anche se questo non ha garantito la continuità a catalogo per i titoli tradotti. A questo si sono aggiunte scelte traduttive a volte discutibili e una dispersione dei titoli sul mercato che non facilitava il lettore nella costruzione di un panorama letterario latinoamericano ben preciso.
In Italia, editorialmente parlando, l’interesse verso la letteratura latinoamericana sembra essere stato più che altro il risultato di necessità. Da una parte le case editrici furono spinte a colmare certe lacune a catalogo per riuscire a rimanere al passo con i successi che gli autori latinoamericani ottenevano all’estero (si pensi, per esempio, ai Premi Nobel e all’interesse che la letteratura latinoamericana destava in Francia); dall’altra, dovettero soddisfare l’interesse di una sempre maggiore massa di lettori che si dimostrava interessata alle vicende, soprattutto extraletterarie, che interessavano l’America Latina[1. Per studi, in lingua italiana, sulla diffusione della letteratura latinoamericana in Italia si veda S. Tedeschi, All’inseguimento dell’ultima utopia. La letteratura ispanoamericana in Italia e la creazione del mito dell’America Latina, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2005.]. Per questo motivo, la creazione di realtà editoriali come quelle de La Nuova Frontiera, nelle quali la letteratura latinoamericana trova una sua collocazione specifica, è particolarmente interessante per capire come si è evoluto il campo letterario italiano nelle sue relazioni con l’America Latina e come tale letteratura sia letta e proposta quando non si trova ai margini di un progetto editoriale ma, al contrario, ne rappresenta uno dei punti di forza.
La casa editrice La Nuova Frontiera nasce nel 2000, inizialmente per occuparsi di libri per bambini. Nel 2002 il primo libro di narrativa – In via del tutto eccezionale di Felipe Benítez Reyes – che sancisce l’impegno definitivo di Lorenzo Ribaldi e della casa nel tradurre opere scritte esclusivamente in lingua spagnola e portoghese. Già dai suoi primi anni di attività La Nuova Frontiera si presenta sul mercato come uno dei punti di riferimento per le traduzioni della letteratura latinoamericana. Da questo punto di vista per il panorama editoriale italiano si tratta di un vero e proprio cambiamento che, a nostro parere, segna quello che potrebbe essere definito come un secondo boom della letteratura latinoamericana in Italia[2. Il primo boom della letteratura latinoamericana in traduzione viene di solito fatto coincidere con il successo di Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez, pubblicato nel 1967, e con l’interesse dell’opinione pubblica europea al riguardo.]. La Nuova Frontiera è una delle poche realtà editoriali nelle quali opere di provenienza iberoamericana ottengono una collocazione editoriale privilegiata, che risponde a precise scelte tematiche decise dall’editore – basti pensare alla collana «Cronache di frontiera», dedicata esclusivamente al giornalismo narrativo.
Nell’intervista che segue Lorenzo Ribaldi, direttore editoriale de La Nuova Frontiera, descrive l’approccio che la casa editrice romana ha avuto nei confronti della letteratura latinoamericana, spiegandone sia il processo di selezione sia i principi che lo reggono, e tracciando un percorso innovativo nel quale l’editoria di progetto si sposa alla volontà di diffusione di una letteratura straniera in traduzione, circoscrivendone i limiti a un ambito linguistico specifico e letterariamente poco sfruttato come quello spagnolo e portoghese.
Com’è nata l’idea di fondare una casa editrice che si dedicasse a un ambito letterario specifico, e ancora relativamente nuovo, com’è quello della letteratura in lingua spagnola e portoghese, e come vi siete posti di fronte alla letteratura latinoamericana?
Noi abbiamo cominciato tredici anni fa: eravamo proprio agli albori perché non c’era nulla. La letteratura latinoamericana, per esempio, era arrivata in Italia per tappe: c’erano stati i grandi scrittori del boom, poi c’è stata un’interruzione; dopo questa interruzione la casa editrice Guanda aveva ripreso gli autori della generazione di Sepúlveda, i giallisti, Paco Ignacio Taibo II e anche altri, ma, quando abbiamo cominciato noi, nel 2000, la letteratura latinoamericana era quasi completamente scomparsa. Rimanevano gli autori imprescindibili, ma non c’era più un sistematico lavoro di ricerca.
Noi abbiamo deciso di ricominciare proprio da lì, dalla ricerca. Il motivo principale è stata la mia passione personale: l’unica cosa che forse so fare è questa; non so se la faccio bene, però almeno riesco a darle una concretezza. Quindi, abbiamo deciso di ricominciare a fare scouting per scoprire nuove voci alle quali affiancare quelle degli scrittori classici che hanno, diciamo, formato queste nuove voci. Perché gli scrittori latinoamericani della generazione che oggi ha circa 30-40 anni hanno conosciuto il boom, ma lì il boom negli anni ’80 era finito; in Italia, invece, si è andati avanti ed è stato venduto come un genere a sé ancora per tutti gli anni ’90. Tutta una serie di scrittori come Rodolfo Walsh, Felisberto Hernández, Saer o Julio Ramón Ribeyro sono stati “recuperati” da quelle generazioni perse nel boom, ma in Italia questo non è mai stato percepito.
Poi c’è il senso della frontiera. A noi piacciono i territori di contaminazione e di frontiera, ed è da lì che viene il nome e la fonte di ispirazione per la casa editrice. Parlando di letteratura latinoamericana, la situazione ora è molto cambiata. Non ci siamo solo noi, ci sono anche tanti altri che se ne occupano e lo fanno bene. Alcuni osano, portando in Italia voci contemporanee: dunque, c’è un lavoro di ricerca anche in altre case editrici. Per questo credo che in futuro vorremo esplorare altre frontiere, altri luoghi di contaminazione. Per ora ci stiamo attrezzando e ci piace guardare anche ad altro, tenendo presente, comunque, che la nostra passione rimane questa, la letteratura in lingua castigliana e portoghese, e che di sicuro non andremo mai a cercare letteratura mainstream. Non lo sappiamo fare e gli altri lo fanno molto meglio.
Anche La Nuova Frontiera, però, traduce scrittori contemporanei con un discreto successo, no?
Sì, il mio vanto è stato aver pubblicato i libri di Valeria Luiselli, Yuri Herrera e Emiliano Monge, e poi molti altri messicani e, nel giornalismo, di aver portato Diego Enrique Osorno in Italia.
In realtà, molti degli autori “recuperati” dalle case editrici italiane sono conosciuti o conosciutissimi sia all’estero sia, soprattutto, in America Latina. Alcuni erano anche scrittori che, semplicemente, erano rimasti “sommersi” dal boom…
Il boom è stato allo stesso tempo una formidabile generazione di scrittori e un’ottima trovata di marketing, che poi però ha coperto molte cose. Io ho recuperato autori che hanno “girato attorno” al boom, perché mi sembrava più utile. Ribeyro, per esempio, era contemporaneo del boom ma più influenzato dalla generazione precedente, più da Cechov e Flaubert che da Vargas Llosa. Ci sono poi autori che hanno preceduto il boom, come Felisberto Hernández, che aveva già sviluppato alcune tematiche che sarebbero state poi riprese; ci sono autori che hanno aggirato il boom, come Saer, o Benedetti. Benedetti, per esempio, non ne fa parte, ma in Italia è stato venduto in quel filone. Dopo c’era stato il movimento anti-boom, quello di McOndo (di cui noi abbiamo pubblicato un libro di Fuguet, Missing), ma chi realmente ha terminato con il boom è stato Roberto Bolaño.
Che però ha creato un’altra etichetta, no?
In parte sì.
Addentrandoci nel lavoro di progettazione editoriale: come si fa a proporre a un lettore che non conosce troppo bene l’America Latina uno scrittore che esce dal canone stereotipato del realismo mágico? Come gestite la confusione che i lettori italiani potrebbero avere nel riconoscere l’opera di un autore latinoamericano?
Noi ci addentriamo in questa confusione: siamo noi che dobbiamo riuscire a far capire, a spiegare e ad attrarre il lettore verso questa letteratura. È ovvio che, quando si può lavorare con un’etichetta, è tutto più facile. Però, io credo che il lettore strutturato dovrebbe andare oltre l’etichetta. Si fa per tante letterature: non si capisce perché la letteratura latinoamericana debba essere sempre venduta allo stesso modo. Anche perché il citato boom aveva una caratteristica politica, ma quel mondo politicamente non esiste più; quindi continuare a parlarne mi sembrerebbe riduttivo.
I latinoamericani di oggi sono come noi: sono globalizzati, sono internazionali. La maggior parte dei miei scrittori si è formata in America Latina, ma insegna o vive negli Stati Uniti; quindi, è tutto cambiato rispetto a quanto accadeva nel ’900. Forse i giovani scrittori latinoamericani sono addirittura molto più internazionali di noi, perché comunque il contatto con gli Stati Uniti è più immediato e perché in America Latina il mercato funziona ancora un po’ meno; dunque esistono élites culturali, molto preparate, che viaggiano molto e parlano più lingue. Poi, per tornare al discorso dello scoprire altre culture, un’altra cosa che mi ha fatto riflettere è che i miei autori contemporanei non si sono formati solo sui latinoamericani.
Le armi che La Nuova Frontiera utilizza per andare contro al cliché quali sono?
La scelta dei libri. Per andare contro il cliché devi fare delle scelte coerenti e che siano sempre di rottura, in qualche modo. Non ti devi fermare in un posto e continuare a fare le stesse cose. Scelgo con cura i libri, in base a un taglio molto definito e, poi, a La Nuova Frontiera curiamo con particolare attenzione l’aspetto fisico del libro, perché ci credo molto.
Quanto conta, secondo te, l’aspetto del libro nella riuscita di un progetto editoriale come il vostro?
Il mondo del libro è cambiato. C’è il libro digitale, il mercato è minuscolo e il libro deve essere curato in tutte le sue parti, sia dal punto di vista della lingua sia dal punto di vista della materialità. Il mercato del libro è l’unico mercato che al suo interno non fa differenza; secondo il lettore comune, non strutturato, che non ne sa nulla e ha tutto il diritto di non saperne nulla, il libro di un editore indipendente ben curato che ha un certo prezzo non è giustificato se c’è anche un altro libro che costa molto meno. Per qualsiasi altro settore merceologico, invece, tutti sanno che il prodotto artigianale ha un valore intrinseco di per sé, che il consumatore percepisce. Per quanto riguarda il libro, esso non viene mai percepito e noi facciamo di tutto per rendere questo valore intrinseco visibile, applicando una cura quasi maniacale a tutte le fasi di “produzione”.
Curate molto anche i paratesti e gli epitesti? Per esempio, la segnalazione della variante diatopica dalla quale si traducono i testi latinoamericani rientra nella cura maniacale che mettete nella preparazione del prodotto finale?
Cerchiamo sempre di lavorare al meglio: siamo una struttura piccola, quindi qualche sbavatura ci potrà essere, ma per noi la qualità è al primo posto. A noi sembra corretto fare quello che in altri mercati si fa sempre: lo spagnolo dell’Argentina non è lo spagnolo di Spagna, e questo va sottolineato. Non solo per una questione di chiarezza, ma anche per far capire che magari quel traduttore è bravo a tradurre lo spagnolo dell’Argentina ma, se lo metti alla prova con lo spagnolo di Murcia, non capisce niente e viceversa. Possono esserci dei problemi di interpretazione. Qualsiasi persona che capisce bene lo spagnolo e lo ha imparato in Europa a volte va in America Latina e fa delle gaffe. È, sì, la stessa lingua, ma è allo stesso tempo una lingua globale: ci si capisce, però ci sono delle sfumature.
Come affrontate il momento della traduzione? Lasciate tutto in mano al traduttore o interagite con le sue scelte?
All’inizio lasciamo tutto in mano al traduttore perché è compito suo. Il traduttore provo a selezionarlo bene, lo vaglio, e tutta la prima fase del lavoro è responsabilità sua. Invece, in fase di revisione rivediamo tutto insieme, con molta cura, riga per riga. Ci sembra importante perché in alcuni casi, come ad esempio nel caso di Yuri Herrera, ci siamo trovati di fronte a delle difficoltà.
Herrera utilizza uno spagnolo particolare, crea continuamente dei neologismi, mischia il messicano alla letteratura medievale spagnola, e nel suo libro Segnali che precederanno la fine del mondo, per esempio, si fa riferimento alla parola “jarchar” che viene da “jarcha“[3. La jarcha è un componimento in lingua mozárabe – la lingua parlata dalla popolazione di origine cristiana durante il dominio arabo di Al-Andalus – che chiude le Moaxajas, odi o canzoni amorose in lingua araba o ebraica molto diffuse durante il regno di Al-Andalus (IX-X sec.).] e che, se leggi in spagnolo, fa pensare a “marchar”: noi abbiamo alla fine deciso per ‘congedarsi’. In questo caso, come anche in altri, consiglio al traduttore di mettersi in contatto con l’autore e di confrontarsi con lui sulla scelta migliore. Nel caso di Herrera, per esempio, credo che senza l’aiuto diretto dell’autore avremmo avuto grossi problemi e, forse, si sarebbe capito meno.
Voi avete poi un buon ritorno in termini di lettori o notate che comunque si deve avere un tipo di lettore particolare?
Dipende da quanti lettori vuoi. Io voglio fare questo lavoro in un certo modo, quindi so che ho i lettori che ho. Ci sono alcuni titoli che per noi sono state scoperte, come i libri di Mercé Rodoreda di cui abbiamo venduto moltissime copie, ma in generale i nostri lettori sono pochi, però molto fedeli. Riconoscono le nostre scelte e questo, di solito, ci permette di pareggiare i conti e, a volte, anche di guadagnarci.
Secondo te i libri di Mercé Rodoreda hanno venduto così tanto perché sono più semplici di altri? Più lineari?
Sono più immediati. La piazza del diamante è un libro molto complesso ma ha molti livelli di lettura e anche il primo livello, il più immediato, riesce comunque a emozionare il lettore, quando si arriva a quell’urlo disperato sulla panchina: è un libro probabilmente meno strutturato di uno di Felisberto Hernández.
È anche il caso di Valeria Luiselli, no?
Valeria Luiselli è una scrittrice molto celebrale ma anche lei ha tanti livelli; quindi, è più facile per il lettore.
La Nuova Frontiera è comunque sempre alla ricerca nei margini: possiamo dirlo? Cosa vi proponete per il futuro?
Sì, siamo sempre alla ricerca. I testi li leggo, ho le bozze, li scelgo tutti io. In questo lavoro uno, a un certo punto, passa anche la sua personalità, e quindi metto particolare cura nello scegliere. Per il futuro abbiamo diverse cose in programma, tra novità e scrittori che già appartengono al nostro catalogo. Gli ultimi due libri che sono usciti sono Scritti apolidi di Julio Ramón Ribeyro, uno dei miei autori preferiti (e fortunatamente posso permettermi di pubblicare il libro nel quale credo lui scriva meglio in assoluto, non di narrativa ma di aforismi) e la terza opera di Felisberto Hernández.
La novità più grande è che a maggio faremo la nostra prima autrice russa, del Dagestan, perché anche lì si tratta di addentrarci nelle contaminazioni culturali e linguistiche di quei territori. Ci sarà la traduzione del nuovo libro di Valeria Luiselli, che per ora non ha ancora titolo in italiano, e poi stiamo tentando di portare in Italia il giornalismo narrativo. Stiamo cercando questo tipo di libri dappertutto e speriamo di farli conoscere il più possibile, perché ci crediamo molto.
(fasc. 3, 25 giugno 2015)