Ancora sulla svalutazione crociana delle scienze

Author di Giuseppe Giordano

La questione della svalutazione delle scienze da parte di Benedetto Croce è una questione trita, anche se talvolta torna pure ai giorni nostri nel dibattito culturale. La critica più attenta ha da decenni compreso l’atteggiamento di Croce nei riguardi delle scienze, che vede il filosofo, da una parte, perfettamente a conoscenza (e in consonanza) con gli scienziati e le correnti più avanzate del pensiero scientifico del suo tempo (come Mach o Poincaré) e, dall’altra, duramente critico nei confronti delle pretese assolutizzanti della scienza positivista. Quello che appare chiaro a chi si voglia davvero confrontare con i testi crociani (e segnatamente con la Logica come scienza del concetto puro[1. Cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909), a cura di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996.]) è l’ottica astorica di chi critica Croce[2. Sulla questione un’analisi encomiabile per chiarezza e acribia è quella contenuta in G. Gembillo, Croce e le scienze. Genesi di una distinzione, Napoli, Giannini, 1984. Del resto, anche scienziati attenti si sono resi conto che la polemica di Croce non era affatto rivolta alle scienze in generale, ma alla sclerotizzazione schematizzante delle conoscenze scientifiche, in prospettiva di oggettività universale, operata dalla scienza della modernità nella sua versione positivista ottocentesca. Esempio di uno scienziato che non ha esitato a definirsi “crociano” è fornito da Felice Ippolito. Si veda, in proposito, F. Ippolito, La natura e la storia, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro-Scheiwiller, 1968, su cui si veda G. Giordano, Felice Ippolito scienziato crociano, in Filosofia e storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli, III, 1. L’età contemporanea, a cura di M. Castellana, F. Ciracì, D. M. Fazio, D. Ria, D. Ruggeri, Lecce, Congedo, 2008. La questione della scienza in Croce è una di quelle che fanno del pensatore un “problema” per la cultura italiana e costituisce un problema della cultura italiana. Tale problematicità è stata messa a fuoco molto bene, di recente, da Paolo D’Angelo già nelle pagine dell’introduzione al suo volume Il problema Croce, Macerata, Quodlibet, 2015.]. Con il filosofo napoletano siamo di fronte a una prospettiva diversa sul valore della conoscenza, che è sempre fondata sulla consapevolezza che essa è produzione individuale[3. Non è un caso che nella Logica come scienza del concetto puro venga individuato come giudizio conoscitivo il giudizio storico, che altro non è che il giudizio individuale.].

Proprio questo punto di vista può portare a riconsiderare alcuni passaggi di un’opera più tarda di Croce come un’evidente smentita del luogo comune dell’antiscientismo del filosofo. Mi riferisco al Carattere della filosofia moderna, e, con più precisione, al capitolo dal titolo Suggestioni dell’estetica per riforme in altre parti della filosofia[4. Cfr. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna (1940), a cura di M. Matrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 73-87.], nel quale si incontra una rivalutazione invece dell’attività scientifica come prodotto di soggetti spirituali ricchi delle proprie esclusive capacità intellettuali.

Per affrontare il tema è però opportuno fare un passo indietro e individuare quella che è una delle caratteristiche principali della scienza della modernità: la pretesa di oggettività e definitività.

La Rivoluzione scientifica del Seicento, che ha come figura eponima Galileo Galilei, costituisce il tentativo di imporre un tipo di conoscenza che abbia valore universale e, appunto, definitivo. Questo può accadere soltanto se la conoscenza è oggettiva. Lo stigma di un tale modello gnoseologico-epistemologico è la distinzione galileiana tra qualità primarie e qualità secondarie, le prime “oggettive” in quanto proprietà dei corpi a prescindere dal soggetto che li indaga, le seconde, invece, soggettive, legate alle sensazioni di chi li osserva[5. Per la distinzione tra qualità primarie e secondarie cfr. G. Galilei, Il Saggiatore (1623), in Id., Opere, a cura di F. Brunetti, 2 voll., Torino, UTET, 1980, II ed., vol. I, pp. 777-778.]. Il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere è fondato su una distinzione netta, che avrà il suo codificatore filosofico in Cartesio con la separazione fra res cogitans e res extensa. La conoscenza si declina come una adaequatio intellectus et rei, cioè come una sorta di rispecchiamento nel pensiero di una realtà oggettivamente e autonomamente esistente.

In un simile quadro, in una visione indirizzata esclusivamente al riconoscimento di valore di ciò che è misurabile, riducibile a sola quantità; in una tale prospettiva, quello che è scomparso è il soggetto, lo scienziato. In un certo senso, il soggetto produttore di conoscenza è stato “messo tra parentesi”[6. Sto qui usando al contrario un’espressione di Humberto Maturana – l’oggettività tra parentesi ˗, che lo scienziato cileno adopera per far comprendere la relazione inscindibile tra conoscere e vivere, relazione che implica il compimento del rientro della soggettività nella scienza non soltanto a livello epistemologico, ma anche di realtà studiata. Cfr. H. Maturana, Autocoscienza e realtà (1990), trad. di L. Formenti, Milano, Raffaello Cortina, 1993, in particolare le pp. 19-23.]; e si è trattato di una scelta strategica, al fine di dare valore “oggettivo” alla conoscenza scientifica.

La cancellazione del soggetto da parte della scienza dell’età moderna è stata riconosciuta essere alla base delle crisi di senso della scienza stessa. Ha scritto Edmund Husserl che

la scienza naturale matematica è una meravigliosa tecnica per compiere induzioni di un’efficienza, di una probabilità, di una precisione, di una calcolabilità tali che un tempo erano insospettabili. In quanto operazione essa è uno dei trionfi dello spirito umano. Ma la razionalità dei suoi metodi e delle sue teorie è soltanto relativa. Essa presuppone la posizione del fondamento, il quale si sottrae a una reale razionalità. In quanto la tematica scientifica dimentica completamente il mondo circostante intuitivo, questa sfera meramente soggettiva, dimentica anche il soggetto operante, non tematizza lo scienziato stesso[7. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia (1935), in Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), prefazione di E. Paci, trad. di E. Filippini (1961), Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 354.].

L’oggettività e definitività (quindi atemporalità) della scienza finisce, allora, per sacrificare il soggetto attore della scienza stessa a esclusivo vantaggio delle conoscenze, radicalmente disancorate da chi le ha prodotte in un preciso contesto e momento storico[8. Per restare a Husserl, questa dimensione oggettivista della scienza ne cancella la dimensione spirituale, facendo sì che le scienze non abbiano nulla da dire all’uomo che chiede risposte ai suoi problemi esistenziali: «Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto» (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 35).]. Quello che viene eluso è il problema della “conoscenza della conoscenza”[9. Ha rilevato Edgar Morin che «si può mangiare senza conoscere le leggi della digestione, respirare senza conoscere le leggi della respirazione, pensare senza conoscere le leggi e la natura del pensiero, conoscere senza conoscere la conoscenza. Ma, mentre l’asfissia e l’intossicazione si fanno immediatamente sentire in quanto tali nella respirazione e nella digestione, l’errore e l’illusione hanno questo di caratteristico, che non si manifestano appunto come errore e illusione. (…) Quando il pensiero scopre il gigantesco problema degli errori e delle illusioni che non hanno mai cessato (e non cessano) di imporsi come verità nel corso della storia umana, quando scopre, correlativamente, di racchiudere in se stesso il rischio permanente di errore e di illusione, è allora che deve cercare di conoscersi» (E. Morin, Il Metodo 3. La conoscenza della conoscenza (1986), trad. di A. Serra, Milano, Raffaello Cortina, 2007, p. 5).]. L’effetto finale di questo processo è il ribadire ciò che era già nel suo inizio: l’indipendenza della conoscenza dal soggetto produttore di essa.

Da questo status riconosciuto alla conoscenza scientifica (in primo luogo quella fisico-matematica del paradigma galileiano-newtoniano) deriva la scelta di analizzare la scienza nell’oggettività dei risultati e non nella soggettività dei processi di pensiero che li hanno prodotti. I filosofi della scienza hanno codificato questo atteggiamento distinguendo tra “contesto della scoperta” e “contesto della giustificazione”: il primo assolutamente insondabile; il secondo suscettibile di analisi logico-metodologica[10. La distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione è stata espressa con grande chiarezza nel Novecento da Hans Reichenbach, che nel 1938 scriveva queste parole: «Vi è una grande differenza tra il sistema di interconnessioni logiche del pensiero e il modo effettivo in cui i processi del pensare sono eseguiti. Le operazione psicologiche del pensare sono processi piuttosto vaghi e fluttuanti; non si attengono quasi mai alle modalità prescritte dalla logica (…). Sarebbe pertanto un tentativo vano costruire una teoria della conoscenza che fosse nello stesso tempo logicamente completa e in stretta corrispondenza con i processi psicologici del pensiero. Il solo modo per evitare questa difficoltà consiste nel distinguere attentamente il compito dell’epistemologia da quello della psicologia. L’epistemologia non concerne il processo del pensare nel suo svolgimento effettivo; questo compito è interamente lasciato alla psicologia. Ciò che l’epistemologia fa è costruire i processi del pensare nel modo in cui essi devono svolgersi se sono da classificarsi in un sistema coerente (…). L’epistemologia, dunque, si occupa di un sostituto logico piuttosto che del processo reale» (H. Reichenbach, Experience and Prediction. An Analysis of the Foundations and the Structure of Knowledge (1938), with a new introduction by A. W. Richardson, Notre Dame (Indiana), University of Notre Dame Press, 2006, p. 5; traduzione mia). Un altro noto filosofo della scienza, che si pone sulla linea tradizionale della riflessione epistemologica moderna, è Karl Popper, il quale sintetizza la tesi di Reichenbach in questi termini: «La questione: come accada che a un uomo venga in mente un’idea nuova – un tema musicale, o un conflitto drammatico o una teoria scientifica – può rivestire un grande interesse per la psicologia empirica ma è irrilevante per l’analisi logica della conoscenza scientifica» (K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere auto correttivo della scienza (1934; 1959), trad. di M. Trinchero (1970), premessa di G. Giorello, Torino, Einaudi, 1995, p. 10). Sulla questione mi permetto di rinviare a G. Giordano, Contesto della scoperta e contesto della giustificazione: genesi e dissoluzione di una distinzione, in «Complessità», 2-2012, Messina, Sicania, 2013, pp. 35-59.]. Siamo di fronte alla rimozione della dimensione soggettivo-inventiva della scienza.

È Kant all’origine della separazione del contesto della scoperta dal contesto della giustificazione; è Kant che individua nella scienza newtoniana il punto più alto raggiunto dalla conoscenza, quello dal quale non si tornerà indietro[11. Il riferimento qui è alle ben note pagine conclusive della Critica della ragion pratica, laddove Kant scriveva: «Ma, dopo che, quantunque tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere altrimenti che per il sentiero di un metodo prima bene esaminato, allora il giudizio sull’universo ricevette un altro indirizzo, e, insieme con questo, un esito, senza paragone, più felice» (I. Kant, Critica della ragion pratica (1788), trad. di F. Capra (1909), rivista da E. Garin (1955), introduzione di S. Landucci (1997), Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 355).]; è Kant che, nella Critica della ragion pura, scrive:

I giuristi, quando trattano di facoltà e pretese, distinguono in una questione giuridica quel che è di diritto (quid iuris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti); ed esigendo la dimostrazione dell’uno e dell’altro punto, chiamano la prima, quella che deve dimostrare il diritto, o anche la pretesa, deduzione. Noi ci serviamo di una quantità di concetti empirici senza opposizione da parte di nessuno; e ci riteniamo autorizzati, anche senza deduzione, ad attribuir loro un senso e una portata quale noi ce l’immaginiamo, perché in ogni tempo noi disponiamo dell’esperienza per provare la loro realtà obiettiva[12. I. Kant, Critica della ragion pura (1781; 1787), trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice (1909-1910), riveduta da V. Mathieu (1959), Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 102.].

Le “questioni di diritto” kantiane assomigliano al contesto della giustificazione riguardo alle conoscenze scientifiche; esse concernono l’oggettività e non l’esperienza soggettivo-empirica. Kant, per questa via, mostrando come giustificabili solo un certo tipo di conoscenze – le conoscenze sintetiche a priori, che, poi, coincidono con le conoscenze scientifiche di tipo newtoniano –, avvia, in un certo senso, la codifica filosofica di quella che verrà individuata come la separazione fra le due culture, quella umanistica e quella scientifica[13. Su questa separazione si veda l’ormai canonico C. P. Snow, Le due culture (1959; 1963), prefazione di L. Geymonat, trad. di A. Carugo, Milano, Feltrinelli, 1964. Sul ruolo di Kant nella separazione fra le due culture, si veda I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza (1979), edizione italiana a cura di P. D. Napolitani (1981), Torino, Einaudi, 1999, III ed., in particolare le pp. 88-92.]. In un certo senso, il filosofo di Könisberg finiva con il dare valore di conoscenza certificata a ciò che interessava meno l’uomo dal punto di vista esistenziale; eppure era soltanto la conoscenza fenomenica quella che sola poteva definirsi, appunto, conoscenza; e il fenomeno kantiano coincide con l’oggetto della fisica di Newton. Hanno scritto Ilya Prigogine e Isabelle Stengers che,

nella misura in cui essa ratificava tutte le pretese della scienza, la filosofia critica di Kant circoscriveva in effetti l’attività scientifica nel campo dei problemi che non si possono chiamare altro che futili e facili, la condannava alla fatica indefinita di decifrare la monotona lingua dei fenomeni e riservava a sé il campo delle questioni che concernono il “destino dell’uomo”: ciò che l’uomo può conoscere, ciò che deve fare, ciò che può sperare. Il mondo che la scienza studia, il mondo accessibile alla conoscenza positiva, “non è altro che” il mondo del fenomeno. Non solo lo scienziato non può conoscere la cosa in sé, ma le questioni che può porre non hanno pertinenza alcuna con i veri problemi dell’umanità; né la beltà, né la libertà, né l’etica sono oggetti di conoscenza positiva e quindi di scienza: esse appartengono al mondo del noumeno, dominio della filosofia, completamente estraneo al mondo del fenomeno[14. I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, cit., p. 91.].

Il risultato della riflessione kantiana è, dunque, la certificazione di un tipo di conoscenza, quella scientifica fisico-matematica del paradigma galileiano-newtoniano, che non risponde ai grandi interrogativi dell’uomo, che restano relegati all’ambito della cultura filosofico-umanistica, incapace di produrre conoscenze incontrovertibili e definitive. In Kant, l’unica conoscenza salda è quella oggettiva della scienza; e come tale essa è, sempre, una conoscenza “anonima”[15. È vero che Kant costruisce la sua gnoseologia sul soggetto trascendentale (che non è il singolo individuo), ma resta ancora nel modello dell’adaequatio intellectus et rei, come dimostra il permanere dello scarto della “cosa in sé”.].

La mancanza di un vero soggetto costruttore della conoscenza scientifica può essere rinvenuta in un altro luogo kantiano, nella Critica del giudizio, laddove Kant colloca la genialità soltanto in ambito artistico. Scrive Kant:

Sicché l’arte bella non può trovare da se stessa la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all’arte nel soggetto (mediante la disposizione delle sue facoltà), vale a dire l’arte bella è possibile soltanto come prodotto del genio[16. I. Kant, Critica del giudizio (1790), trad. di A. Gargiulo (1906), riveduta da V. Verra (1960), Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 133.].

Da questa premessa discende una distinzione fondamentale in Kant, quella fra genio e “grande mente”, quest’ultima tipica degli scienziati:

Così, tutto ciò che Newton ha esposto nella sua immortale opera dei principii della filosofia naturale, per quanto a scoprirlo sia stata necessaria una grande mente, si può bene imparare; ma non si può imparare a poetare genialmente, per quanto possano essere minuti i precetti della poetica, ed eccellenti i modelli. La ragione è questa, che Newton avrebbe potuto, non solo a se stesso, ma ad ogni altro, rendere visibili ed additare precisamente all’imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte; ma nessun Omero o Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri. Nel campo della scienza il più grande inventore non è dunque diverso dal più travagliato imitatore e discepolo se non per una differenza di grado, ma è specificamente diverso da colui che la natura ha dotato per le arti belle. Questo non significa abbassare il merito di quei grandi uomini, ai quali deve tanto il genere umano, rispetto a quei favoriti della natura che hanno il talento per le belle arti[17. Ivi, p. 134.].

Quasi a compensazione del risultato raggiunto nella Critica della ragione pura, dove soltanto la scienza rientra nel canone gnoseologico della sintesi a priori, nella Critica del giudizio la genialità viene attribuita esclusivamente all’arte, mentre alla scienza tocca, per dir così, la “grande mente”. Per usare la terminologia dei filosofi della scienza, il contesto della scoperta è proprio della produzione artistica e le è essenziale; il contesto della giustificazione è quello che resta alla conoscenza scientifica. Tutto ciò è frutto proprio di quell’oggettivazione della conoscenza scientifica che ha fatto di essa un prodotto, almeno in un certo senso, privo di autore.

È a questo punto che entra in gioco Croce, il nemico presunto della scienza, che prende spunto da Kant proprio per sottolineare come il filosofo tedesco, dopo aver elevato la conoscenza scientifica a unica conoscenza possibile, l’ha, in un certo qual modo, svalutata, mostrandola quasi meccanica rispetto alla conoscenza artistica, che non può essere ricostruita nella sua genesi e tramandata nei suoi meccanismi in alcun modo. Osserva Croce, proprio a proposito delle pagine della Critica del giudizio prima citate:

In verità, nonostante le predisposte difese, un certo abbassamento della scienza rispetto all’arte non può negarsi che vi sia in questa teoria del Kant, e si pensa che egli, perché di ciò in qualche modo aveva il sentimento, ricorse a quelle difese. L’arte, dono della natura che conferisce il genio, pare rivestirsi nelle sue parole della rarità e del pregio che Omero riconosceva alla bellezza di Paride, “caro dono dell’aurea Afrodite”, tale che “non l’ottiene chi lo vuole”, laddove la scienza ritiene alcunché di meccanico, dovuto forse alla visione pedantescamente metodica che di essa dominava nell’ambiente universitario e scolastico tedesco[18. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 78.].

Il problema è il modo di concepire la scienza. Kant, con tutta la tradizione plasmata sul paradigma scientifico fisico-matematico di Galilei e Newton, ha fatto della scienza – lo ripeto – un’opera senza autore, un prodotto senza produttore. Questa scienza, portata proprio dal filosofo di Könisberg al vertice delle conoscenze, è quella criticata da Croce nella Logica per la sua astrattezza, dettatale dalla presunzione di oggettività assoluta. Ma non c’è prodotto spirituale senza “autore”; e, dunque, anche la conoscenza scientifica può essere conoscenza in senso crociano, radicandola in un tempo, nella storia, e riconoscendone, in modo pieno, la provenienza da un soggetto spirituale, da un uomo. Lo scienziato ha dunque, sì, i tratti della “grande mente” (può, cioè, spiegare a che punto della catena delle conoscenze si trovi la sua teoria o la sua scoperta, ricostruendo il percorso di crescita della conoscenza scientifica), ma, in quanto “autore”, può possedere anche i tratti della genialità. Argomenta Croce:

Ma non si è un Newton senza un dono di genialità altrettanto generoso da parte della natura quanto quello da lei largito al poeta; il che, nel caso di Newton, è perfino più o meno leggendariamente simboleggiato dalla caduta sulla sua testa di quel tale pomo che Hegel disse una volta, celiando, triplicemente fatale al genere umano, perché produsse il peccato del primo parente, cagionò la guerra di Troia e die’ l’avvio alla fisica newtoniana[19. Scriveva Hegel: «Inoltre, presso il grande pubblico la conoscenza della forza di gravità ebbe buona accoglienza: i corpi celesti ruotano sulle loro orbite non perché c’è una forza comune del mondo, la forza che Keplero e altri filosofi hanno stabilito che è una sola e sempre la stessa, bensì perché c’è una forza volgare per la quale quei corpi ruotano come cadono le pietre sulla terra; e ciò il grande pubblico apprese soprattutto attraverso quell’infausta storiella della mela che cade dinanzi a Newton, attingendone una salda fede verso il cielo e naturalmente dimenticando che, all’origine di tutti i guai del genere umano, in seguito di Troia, ci fu una mela, triste presagio per le scienze filosofiche» (G. W. F. Hegel, Le orbite dei pianeti (1801), a cura di A. Negri, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 37).]; né c’è differenza tra la comunicazione che ad altri si fa della scienza e quella che accade della poesia, di cui ogni tono che già risonò nell’anima del poeta si propaga in quelle degli ascoltatori, sempre che nell’un caso come nell’altro essi siano ben disposti e compiano l’adattamento necessario; né c’è differenza di qualità nell’un caso e solo di grado nell’altro, perché la poesia sarebbe disumana se non fosse in tutte le anime umane al pari della capacità di pensare e ragionare[20. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 78.].

La storia della mela caduta sulla testa di Newton appartiene al “famigerato” contesto della scoperta, che la scienza “classica” – attraverso i suoi filosofi ed epistemologi – rifiuta. Croce se ne serve per far notare come anche in campo scientifico possa essere rilevante l’analisi di come un’idea si sia prodotta nella mente dello scienziato, proprio perché si tratta di produzione di un individuo e non di un qualcosa di asetticamente esistente a prescindere dal suo creatore; il che rivaluta la scienza come conoscenza proprio nella prospettiva del filosofo italiano. Tutto il brano smonta la tesi kantiana dell’appartenenza del genio esclusivamente al mondo artistico: il genio è anche una caratteristica di Newton; così come la capacità di comunicare la propria opera è anche del poeta e non soltanto della “grande mente”, dello scienziato.

L’operazione di Croce consiste nel ricondurre all’unica radice, “spirituale”, umana ogni forma di conoscenza valida, sia artistica sia concettuale[21. Ricordo l’incipit dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: «La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti» (B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia (1902), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 3).]. In questa prospettiva non si può incontrare la differenza proposta da Kant tra genio e grande mente (differenza, come si era detto, quasi compensativa dell’abbassamento dei saperi umanistici, dal punto di vista della “certificazione”, rispetto alla scienza). Scrive ancora Croce:

Non altrimenti dalla poesia, una teoria scientifica nasce di su un fondo buio, quasi barlume che a poco a poco cresce di forza e crea la chiarezza, o come lampo vivissimo che solca le tenebre e poi par che si perda e richiede lunga tensione e paziente attesa perché ritorni e si faccia ferma luce serena. Talvolta questo processo dura cronologicamente a lungo, e delle grandi opere della scienza come di quelle dell’arte si può dire alla pari quel che è stato detto talora or delle une or delle altre, che sono pensieri giovanili attuati nell’età virile[22. La New Philosophy of Science ha sfatato dal versante epistemologico il mito della scoperta scientifica individuabile in un momento preciso. Sviluppando quasi l’idea crociana di un processo di maturazione interna delle idee, questa corrente filosofica ha posto in evidenza come non soltanto la scoperta scientifica abbia una durata nel tempo per quel concerne il singolo scienziato, ma la sua storicità abbia connotati sociologici, collettivi. Sul tema si può vedere T. S. Kuhn, La struttura storica della scoperta scientifica (1962), in Id., La tensione essenziale. Cambiamenti e continuità nella scienza (1977), trad. di M. Vadacchino, A. e G. Conte, G. Giorello, Torino, Einaudi, 1985, pp. 179-192.]. E delle une e delle altre si è notato il senso di non appartenenza all’individuo, cioè al suo arbitrio, e di una provenienza dall’alto. Il filosofo come il poeta si adegua affatto alla sua opera formando con questa tutt’uno; e se talvolta esso le sopravvive, povero mortale che ha partecipato a un dramma immortale, vede ormai precluso, come dolorosamente confessava il Vico, il “tesoro” a cui aveva largamente attinto dei suoi pensieri. Né è senza significato che il filosofo, e in genere l’uomo di scienza, chiami volentieri, usando una parola più propria dell’arte, “intuizione” il germe dal quale si è svolta l’opera da lui ragionata e dimostrata scientificamente[23. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, cit., p. 79.].

L’intuizione, l’ispirazione, di un uomo, sia egli artista o sia scienziato, è all’origine dell’opera d’arte e della teorizzazione scientifica: «E anche nella vita del pensiero si ritrova quel relativo incosciente che nella cerchia della poesia era stato malamente teorizzato come incosciente assoluto, facendone fanaticamente un processo non spirituale ma naturale»[24. Ibidem. Al giorno d’oggi la letteratura sul formarsi delle idee scientifiche si sta arricchendo sempre più, a dimostrazione di come si sia usciti dalla stagione della separazione netta in ambito di analisi della scienza tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. Ormai si intrecciano studi al confine tra la logica della scoperta scientifica e la psicologia della ricerca e non mancano scienziati stessi che riflettono sulle vie attraverso le quali si formano le idee scientifiche a partire da intuizioni simili a quelle artistiche. In questa sede mi limito a rinviare, fra i tanti, a G. Holton, L’immaginazione scientifica. I temi del pensiero scientifico, trad. di R. Maiocchi e M. Mamiani, Torino, Einaudi, 1983; e Id., L’intelligenza scientifica. Un’indagine sull’immaginazione creatrice dello scienziato, a cura di F. Voltaggio, Roma, Armando, 1984. Per delle riflessioni di scienziati sui processi di chiarificazione delle intuizioni di teorie scientifiche rinvio alle pagine autobiografiche di W. Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965 (1971), trad. di M. e D. Paggi, Torino, Einaudi, 1984. Per riflessioni di scienziati e storici della scienza sul come nascono le idee scientifiche si possono vedere, a titolo esemplificativo, J. Hadamard, La psicologia dell’invenzione in campo matematico (1945), edizione italiana a cura di B. Sassoli, introduzione di G. Giorello, Milano, Raffaello Cortina, 1993, e A. Köestler, L’atto della creazione (1964), Roma, Ubaldini, 1975.].

La rivalutazione della scienza passa dal sottolineare il suo essere prodotto di un soggetto radicato nella storia; in questa prospettiva, si è potuto leggere come Croce parta, sì, da Newton, ma finisca con il parlare del filosofo, mostrando come quella che va svalutata è soltanto l’asettica schiera degli pseudoconcetti, oggettivamente astratti (che hanno perso il loro collegamento alla storicità di chi li ha prodotti) e non la concreta (e universale) produzione di conoscenza, qualunque sia il campo in cui la rubrichiamo. La rivalutazione della scienza attraverso l’affermazione del ruolo, dell’intuizione basilare, dello scienziato emerge in parallelo alla considerazione del valore dell’opera d’arte come prodotto di un artista. Come il poeta è individuo che ha la sua personalità coincidente con la sua opera[25. Nelle pagine che stiamo prendendo in esame, Croce ribadisce che «la genuina critica e storiografia della poesia si viene configurando come penetrazione e caratterizzazione delle opere nella loro individualità, dei poeti nella loro personalità poetica che è la loro opera stessa» (ivi, p. 76).], così lo scienziato vive delle sue idee, delle teorie che produce, delle scoperte che fa sulla base delle sue intuizioni e conoscenze.

Nella prospettiva tutta crociana per cui l’uomo coincide con la sua opera[26. Basta riandare alle pagine del Contributo alla critica di me stesso per capire il senso profondo della tesi della coincidenza dell’uomo con la sua opera. Del resto, proprio in apertura del Contributo, Croce afferma: «Che cosa scriverò, dunque, se non scriverò né confessioni, né ricordi, né memorie? Mi proverò semplicemente ad abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso, ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho contribuito al lavoro comune: la storia della mia “vocazione” o “missione”» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso (1915), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 13).], la scienza può allora essere apprezzata attraverso l’opera dello scienziato. Croce l’antiscientista rivaluta il ruolo di genialità dello scienziato, contro la posizione assunta da Kant, e così rivaluta la scienza. Una scienza, però, che non coincide con l’idea tradizionale che si ha di essa, ma una scienza che recupera la soggettività del suo autore. Inserendosi in un sentiero che il pensiero scientifico stava tracciando da sé – con Albert Einstein, recuperando il punto di vista dell’osservatore; con Werner Heisenberg, scoprendo la relazione interattiva fra soggetto osservatore e oggetto osservato; con Niels Bohr e la consapevolezza di essere parte della natura che si studia; con Ludwig von Bertalanffy e la prospettiva sistemica nello studio del vivente[27. Cfr. A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; W. K. Heisenberg, Sul contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica quantoteoriche (1927), in Id., Indeterminazione e realtà (1991), a cura di G. Gembillo e G. Gregorio, Napoli, Guida, 2002, II ed.; N. Bohr, Biologia e fisica atomica (1937), in Id., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. di P. Gulmanelli, Torino, Boringhieri, 1961; L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni (1967), trad. di E. Bellone (1971), introduzione di G. Minati, Milano, Mondadori, 2004.] ˗ e la filosofia della scienza avrebbe percorso vent’anni dopo (con il superamento della distinzione tradizionale tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione)[28. Fra gli autori che hanno compreso l’impossibilità di capire il fenomeno scienza, mantenendo la separazione tra i contesti, ricordo soltanto N. R. Hanson, I modelli della scoperta scientifica. Ricerca sui fondamenti concettuali della scienza (1958), trad. di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1978; T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962; 1970), trad. di A. Carugo (1969; 1978), Torino, Einaudi, 1999; P. K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975), prefazione di G. Giorello, trad. di L. Sosio (1979), Milano, Feltrinelli, 2002.], Croce mette in campo delle idee che saranno condivise in campo scientifico anni dopo, quando anche la scienza capirà di essere un prodotto umano, di descrivere una natura che ha una storia, di parlare di una realtà di cui non siamo semplici spettatori passivi ma viventi-costruttori[29. Su tali questioni si vedano: I. Prigogine-I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, cit.; J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia (1979), trad. di V. Bassan Landucci (1981), Torino, Bollati Boringhieri, 1996; H. Maturana-F. Varela, L’albero della conoscenza (1984), presentazione di M. Ceruti, trad. di G. Melone, Milano, Garzanti, 1992. Sulle implicazioni di questi temi sul formarsi di nuovi scenari paradigmatici e nuove visioni del mondo, rinvio a G. Gembillo-A. Anselmo-G. Giordano, Complessità e formazione, Roma, ENEA, 2008.]; quando cioè, finalmente, si inizierà a mettere da parte ogni approccio riduzionista – come quello della scienza di età moderna – per accettare l’irriducibilità della complessità del reale. L’attribuzione di genialità allo scienziato si colloca quindi proprio sul versante del nuovo paradigma scientifico, il paradigma della complessità[30. Si vedano sul tema E. Morin, La sfida della complessità, a cura di A. Anselmo e G. Gembillo, Firenze, Le Lettere, 2011, e G. Gembillo-A. Anselmo, Filosofia della complessità (2013), Firenze, Le Lettere, 2015, II ed.], con cui Croce non si sentirebbe, probabilmente, in dissonanza come nei confronti della scienza riduzionista e positivista[31. Per interessanti considerazioni su questo argomento rinvio a G. Gembillo, Croce filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.].

(fasc. 7, 25 febbraio 2016)