Angelo Maria Ripellino: il “Professore”

Author di Rita Giuliani

Quarantacinque anni fa, il 21 aprile 1978, Angelo Maria Ripellino ci lasciava all’età di cinquantacinque anni. In questo lungo lasso di tempo hanno visto la luce ricordi di chi l’ha conosciuto, saggi critici dedicati a indagare la sua eredità poetica, critica, giornalistica, bibliografie delle sue opere[1]. Dall’angolo di visuale più ampio consentito dalla distanza cronologica, vorrei qui stilare un bilancio del magistero accademico di Ripellino, tratteggiare il suo profilo di docente, il suo modo peculiare di essere Maestro, non solo dal punto di vista didattico, ma anche da quello umano, formativo.

La vita mi ha fatto dono di una lunga vicinanza col “Professore”, dapprima come studentessa (1967-71), poi come borsista e assegnista (dal 1973) alla sua cattedra di Lingua e letteratura russa alla “Sapienza”, fino a quell’irrevocabile 1978. Ho avuto, quindi, modo di osservare da vicino, sperimentare su di me, introiettare, per quanto possibile, la sua maniera di essere “il Professor Ripellino”.

Lo conobbi nell’autunno 1967, l’anno del suo indimenticabile corso sulla poesia di Aleksandr Blok. Ero al secondo anno del corso di laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne, alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Stavo seguendo inglese come lingua quadriennale e mi affacciai a russo, che avevo scelto come lingua biennale. L’incontro con lui mi rivelò quel magico mondo cui avrei poi dedicato la mia vita professionale: iniziai col cambiare la lingua quadriennale, suscitando il disappunto del grande anglista Agostino Lombardo, la cui domanda – «Perché ci lascia?» – mi fa ancora stringere il cuore. Non seppi rispondergli. Al tempo, Ripellino teneva lezione per gli studenti di tutti e quattro gli anni di corso in un’ampia stanza, attorno a un grande tavolo rettangolare: lui a capotavola, noi, incantati, intorno. Uscivo dalle sue lezioni stupefatta, sgomenta: la sua erudizione, i continui rimandi ad altre letterature e ad arti apparentemente lontane dalla poesia mi davano l’esatta misura della mia ignoranza e al tempo stesso mi spingevano a colmare quelle lacune che “il Professore” mi costringeva impietosamente a constatare in me stessa: allora mi mettevo a studiare, a cercare nelle enciclopedie ogni nome che mi suonasse sconosciuto.

Il programma di Letteratura inglese prevedeva la lettura di diciassette libri, a russo invece, all’epoca non esisteva un programma preciso. Alla fine del corso su Blok, sull’onda della suggestione creata dalle sue lezioni e dai temi che vi aveva toccato, portai all’esame un mio, personale, programma che includeva, accanto ai principali titoli russi, un profluvio di testi di altri autori citati a lezione, che io avevo diligentemente “scoperto”: Laforgue, Strindberg, E. T. A. Hoffmann, nonché un album di figurini di abiti femminili del primo Novecento – opera di una mia amica che sapeva disegnare –, ricopiati alla Biblioteca Nazionale da giornali dell’epoca. Quando Ripellino mi chiese quali fossero state le mie letture, gliele elencai, raggiante, e gli porsi l’album, che lui sfogliò attentamente. Un professore “normale” mi avrebbe o compatito o fatto notare il guazzabuglio di letture eterogenee, lui invece mi ascoltò attentamente e alla fine dell’esame mi chiese di lasciargli l’album: non poteva saperlo, ma era la mia gratificazione. Quando Anjuta Maver Lo Gatto, amatissima docente di Lingua russa della Cattedra, mi fece domande su Turgenev e io risposi farfugliando, Ripellino non si scompose e mi diede comunque trenta e lode.

Questo ricordo personale[2] ben illustra la personalità accademicamente eterodossa di Ripellino, la sua curiosità, la sua attitudine a sconfinare in ambiti assai lontani dalle letterature slave. Quando subentrò a Ettore Lo Gatto sulla cattedra di Lingua e letteratura russa (1961), ne fu onorato e felice ed espresse la sua gratitudine al Maestro in una lettera molto bella, affettuosa, pubblicata di recente, in cui affermava comunque l’intento di intraprendere, pur nella continuità, un percorso diverso dal suo:

Sì, io volevo esser diverso, tentare altre strade, trovare come Treplev[3] nuove forme, tuffarmi da acrobata in mosaici e rompicapi a lei estranei, ma la mia ricerca, i miei esperimenti avevano le radici nella sua immensa e abbagliante fatica, nei mille viottoli della sua opera-labirinto, nelle sue invenzioni di poeta […][4].

Ripellino era eterodosso anche per il suo distacco nei confronti della “bassa cucina” accademica, non era un facitore di concorsi, ma piuttosto un poeta prestato all’accademia, che a sua volta lo avvertiva come non omogeneo al sistema. Ho tanti altri ricordi che custodisco come un dono e una lezione di vita e professionale.

Ovviamente, in ciascuno degli allievi il suo magistero di docente si è sedimentato in modi diversi; ma alcuni elementi si impongono come oggettivi, peculiari, originali.

Innanzitutto il suo concetto quasi sacrale dell’insegnamento. Ripellino arrivava nell’allora Istituto di Filologia Slava immancabilmente con un quarto d’ora di anticipo sull’orario della lezione, subito seguito nel suo studio dalla bidella Marcella che lo aggiornava sulle novità (che cosa avesse mai da raccontargli non l’abbiamo mai capito!). Non una volta che fosse arrivato in ritardo. Le sue lezioni erano sempre accuratamente preparate, senza improvvisazioni, basate sulla lettura, l’analisi, il commento dei testi. Egli seguiva immancabilmente una traccia scritta in cui figuravano i testi e il suo commento. Le sue divagazioni erudite e curiose erano strettamente funzionali e complementari all’interpretazione e contestualizzazione dei testi, generalmente poetici. Non parlava mai di sé, della sua vita, della sua vocazione e pratica poetica, dei premi e riconoscimenti che riceveva, non divagava mai su temi di attualità. Ricordo un’unica eccezione, il 16 marzo 1978, allorché durante la lezione si interruppe per comunicarci che Aldo Moro era stato rapito. Qualche giorno dopo venne all’università per l’ultima volta. Si presentò emaciato, sfiancato dalla sofferenza, nello sforzo estremo di continuare ad essere Maestro a dispetto del male. Volle sedersi al suo posto, e, circondato dagli studenti increduli e commossi, lesse e tradusse a memoria (i suoi occhi erano diventati troppo deboli per decifrare quelle sottili righe nere), una poesia di Pasternak a lui molto cara e che in quel momento si rivestiva di una struggente carica autobiografica:

Oh, s’io avessi allora presagito,

quando mi avventuravo nel debutto,

che le righe con il sangue uccidono,

mi affluiranno alla gola e mi uccideranno.

Mi sarei nettamente rifiutato

di scherzare con siffatto intrigo.

Il principio fu così lontano,

così timido il primo interesse.

Ma la vecchiezza è una Roma

che, invece di ciarle e di ciance,

non prove esige dall’attore,

ma una completa autentica rovina.

Quando detta una riga, il sentimento

manda uno schiavo sulla scena,

e qui l’arte vien meno,

qui respirano la terra e il fato[5].

Il verso di Eliot «April is the cruellest month» avrebbe assunto nella sua vita una tragica concretezza: morì ad aprile – il 21 aprile 1978 –, come il suo amato Majakovskij, di cui amava citare i versi di La nuvola in calzoni: «io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta sino a maggio, / e nella mia vita passata / c’è solo il centesimo aprile»[6].

Nel privato aveva stabilito un solido e affettuoso rapporto personale con gli allievi della “prima generazione”[7], i pochi, entusiasti e devoti, che avevano seguito i suoi corsi nei primissimi anni Sessanta, dopo che, nel 1961, era diventato titolare della cattedra di Lingua e letteratura russa alla “Sapienza”. Addirittura li invitava a casa sua, intrattenendosi con loro in interminabili conversazioni. Il ’68 si abbatté con violenza sul piccolo cenacolo che “il Professore” aveva creato; anche se egli non fu mai contestato dai propri studenti, quella magica atmosfera si fece più rarefatta, ma ritornò a vibrare all’inizio degli anni Settanta, quando Ripellino coinvolse gli allievi nella messinscena di due spettacoli da lui diretti e tratti dai drammi lirici di Blok Balagančik (Il piccolo baraccone), andato in scena nella cantina dell’“Abaco” nel 1971, e Neznakomka (La Sconosciuta), rappresentata al “Teatro Politecnico” nel 1974, sempre a Roma. Aveva dato alla sua troupe il nome di “Skomorochi”, vocabolo con cui nella Russia antica venivano chiamati i giullari, i saltimbanchi che percorrevano le campagne.

Ancor prima che il termine divenisse d’uso comune – forse non esisteva ancora – Ripellino a lezione produceva girandole di interdisciplinarietà, da lui coltivata con passione. Del resto, l’attitudine a vedere il collegamento tra varie culture, varie forme d’arte e anche con arti minori, come le stampe popolari e il teatro dei burattini, gli era congeniale − si potrebbe dire, congenita −, presente già nelle sue prime prove adolescenziali di critico e recensore[8]. Nel 1968, nell’introduzione a Letteratura come itinerario nel meraviglioso avrebbe reso esplicito il suo metodo critico, rivendicandone la specificità:

volevo leggere con occhi vigili e pronti all’analogia, senza farmi irretire da prospettive fallaci, da omissis, da reticenze […]. Apprendendo 1’amore della compattezza da Puškin e il ritmo da Belyj e da Blok, che anche i saggi tramuta in cantilene e tessuti lirici, mi convinsi che il discorso critico, trovando nel testo a cui si avviluppa sostegno come una pianta epifitica, può diventare un autonomo poemetto in prosa, con cesure e cadenze e metafore e divagazioni e sortite in campi adiacenti […][9].

Quest’introduzione costituisce il suo autoritratto da critico (o, il “ritratto dell’artista da critico”): è una dichiarazione d’intenti e di prassi cui restò sempre fedele, mai smentita né negli scritti critici né nell’insegnamento universitario. In questo manifesto critico il termine «analogia» ricorre spesso, a sottolineare la continua ricerca di risonanze, confluenze, echi «fra il lavoro verbale e le zone contigue delle arti e della cultura: oreficeria, balli in maschera, jazz, pirotecnica, cinema, arredamento: giovandomi dell’esempio dei formalisti»[10].

Il fulcro del suo insegnamento era l’approccio filologico all’opera letteraria: per lui era l’analisi testuale la chiave di comprensione della poetica di un autore. La sua lettura critica di un autore era ancorata ai testi, non alle mode e alle tendenze della critica, che peraltro conosceva benissimo e da cui traeva strumenti ermeneutici da utilizzare per il proprio, personale, scavo critico del testo, ma senza epigonismi. Ad esempio, alla fine degli anni Sessanta, quando la cultura italiana scoprì l’opera critica di Michail Bachtin, non lo sentii mai pronunciare, né ho mai trovato nei suoi scritti, il termine “carnevalizzazione”, allora sulla bocca di tutti.

In Ripellino, però, lo studio critico non si riduceva mai alla sola analisi formale del testo, alle aride «strutture», perché egli cercava, e stabiliva, un rapporto empatico con la personalità e la psicologia dell’autore, reso possibile anche, o forse soprattutto, dal suo essere a sua volta poeta, dal suo sentire del poeta tutta l’intima fragilità e solitudine. Ripellino si rifiutava di vedere in un’opera solo una somma di congegni stilistici: «la smània delle strutture non si è in me mai disgiunta dal desiderio di indagare le magiche circostanze che le sottendono, il vincolo tra l’assurdità della vita, che i poeti interpretarono a volte come un incongruo spettacolo, e le più falotiche architetture verbali»[11].

Il suo desiderio di strappare gli autori trattati agli stereotipi critici, ai ruoli fissi in cui la storiografia letteraria l’aveva confinati, di salvarli dall’oleografia e dalle “incrostazioni” su di loro sedimentate ci faceva intravedere gli ampi spazi che potevano aprirsi per la critica letteraria. Anche di questo suo pervicace desiderio avrebbe dato conto, ad esempio, nel saggio Majakovskij ride, Majakovskij piange: «Quando a Parigi visitai la mostra di Vermeer, per la troppa folla non riuscii a veder niente. Che fatica guardar Majakovskij attraverso la folla. Bisogna fare a gomitate tra le turbe di critici e glossatori, che sono come turisti fastidiosi»[12].

La magica miscela di analisi formale, scavo di un’anima, sicurezza nel giudizio critico e grande sensibilità artistica ha fatto sì che i suoi studi rimanessero a tutt’oggi attuali, ancora validi, anche se, con grande umiltà intellettuale, riconosceva che «la critica è un “travesti” di romanzo e poesia, un alibi. Il critico dissimula una parte di sé e trucca a suo modo in parte gli autori che si studiano, e li illumina attraverso le proprie predilezioni o i propri “difetti” (non c’è, credetemi, esattezza scientifica)»[13].

L’osmosi tra metodo critico e metodo d’insegnamento era in Ripellino totale e continua: noi allievi ritrovavamo nelle sue lezioni le stesse «invarianti» presenti nei suoi saggi e sapevamo per esperienza diretta che non c’era divario tra i suoi saggi e le sue lezioni, come non ce n’era tra i saggi, i racconti e le liriche[14].

A lezione egli contemporaneamente insegnava e sviluppava l’analisi, l’interpretazione di un dato fenomeno letterario, di un autore. Il libro Praga magica (1973) crebbe e si sviluppò sotto i nostri occhi alle lezioni di letteratura ceca. In lui didattica e ricerca si mescolavano in un risultato di straordinaria acutezza critica, altrettanta potenza formativa e fascino intellettuale. Sapeva come stregare un uditorio, e lo stregava. Mentre preparava il corso monografico su Blok nel sanatorio di Dobřiš, scriveva a Serena Vitale, nella lettera già citata: «Preparo il mio corso su Blok e mi auguro un uditorio con occhi sgranati, non una siepe di fagotti di cenci»[15]. No, non fummo fagotti di cenci, semmai bambini stregati dalla melodia del pifferaio di Hameln. Come aveva sostenuto nella prima lezione del corso monografico su Majakovskij (anno accademico 1976-77), Ripellino non ambiva a formare suoi replicanti, che ripetessero a pappagallo le sue tesi, ma a fornire agli studenti quella metodologia e attrezzeria che avrebbe loro permesso di sviluppare un senso critico e formarsi una propria opinione. E ciò è il cuore della missione formativa di un docente. Dopo la sua scomparsa, alcuni allievi hanno ricordato aneddoti relativi al “Professore” e il significato che questi ha avuto nella loro formazione. Serena Vitale ha scritto di lui:

è rimasto per sempre nella mia memoria e nella mia devozione: non gli ho mai dato del tu, non l’ho mai chiamato “Angelo” – era ed è “il Professore”, la figura più luminosa della mia giovinezza, la più importante della mia iniziazione alla cultura in genere, non solo quella russa o boema […]»[16].

A sua volta, un’altra allieva, Neliana Tersigni, ha ricordato:

Avere studiato con Angelo Maria Ripellino significa non solo avere acquisito la conoscenza della letteratura russa, ma anche e soprattutto non poter più prescindere dalla ricerca spasmodica del bello. Una sensazione sottile e struggente che assorbivamo inconsapevolmente quando in un’aula permeata dallo squallore anodino di tutte le aule universitarie, ci rimbalzavano negli occhi le cupole d’oro della “Zolotaja Moskva” di Esenin o ci arrivavano, in timpani ormai pronti alla ricezione, le note della viola d’amore di Majakovskij […][17].

Una volta, per stimolare negli studenti l’attitudine alla critica letteraria, all’assimilazione profonda e creativa di un testo, assegnò loro questo tema: «“Che cosa c’è nell’armadio del primo atto del Giardino dei ciliegi?” Cechov naturalmente non lo dice: era tutto da immaginare»[18].

Il “Professor” Ripellino trasmetteva valori, affinava il gusto degli allievi, sovente orientandone col proprio carisma le scelte professionali. Alle sue lezioni si entrava ragazzi e si usciva adulti.

Con gli allievi si era creato un comune sentire, di cui era felice. Scriveva a Gabriella Di Milia il 18 settembre 1965:

spero di riprendere a fine gennaio con un corso su Esenin, e spero di poter tornare al lavoro, ho molte idee e piani e trovate, e taccuini gonfi di appunti, e vorrei divider con voi questo brulichìo di pensieri, mi piacerebbe veder continuare in voi quel poco che ho colto e inventato […][19].

E confessava ancora a Serena Vitale:

vagheggio, non dico una “scuola”, ma un’intesa che faccia valere un nostro modo di vedere, di cogliere, di ammiccare, un nostro sistema di lettura dell’arte e forse della vita stessa, un modo a dispetto, caparbiamente diverso, ma immensamente duttile e sveglio, un nostro inconfondibile gusto, un nostro stile. Io sono molto attaccato all’idea d’una nostra solidarietà, di una nostra tenacia di gruppo, di un lavoro comune […][20].

Ripellino non ha creato una vera e propria “scuola”, ma nei lavori dei suoi allievi si coglie talvolta il suo inconfondibile, inafferrabile stigma, un’aria di famiglia, un che di comune che ancora affratella.

Nel “Professore” esisteva una netta demarcazione e distinzione tra il campo della politica e quello dell’arte. I tumultuosi e fertili anni Sessanta in Russia stavano finendo e presto l’URSS sarebbe entrata nell’epoca della stagnazione brežneviana, ma lui non parlava mai della situazione politica, non contaminava i due campi. Come studioso e docente, dell’URSS non gli interessava ciò che accadeva al di là della cortina di ferro, ma la lezione di umanesimo, di vertigine creativa che ci ha trasmesso la letteratura russa. Sarebbe un approccio da ricordare ai nostri giorni, in cui anche Dostoevskij viene considerato da alcuni correo di ciò che sta accadendo in Ucraina.

Fuori dalle aule universitarie Ripellino era un intellettuale dallo spirito libero, non vassallo delle ideologie politiche così come non lo era delle scuole critiche. Nel 1967 assistette a Mosca al IV Congresso degli scrittori sovietici, che descrisse con sarcasmo e sdegno per la pavida e morta acquiescenza al Partito nell’articolo I topi del regime, pubblicato sul settimanale «L’Espresso»: «Non mi rammarico di avere assistito a questa tetra commedia, perché ritengo che non mi accadrà mai più di vedere una così folta radunanza di mummie sincronizzate, un così dovizioso museo delle cere»[21]. Definiva l’accolita là riunita un «paradiso di tromboni»[22], dov’erano assiepati «scrittorelli, scribi, scrivani, amanuensi, imbrattacarte di tutte le risme, una plebe di austeri ‘faticatori della penna’ (trugeniki pera), di sembianze di legno e di marmo, le quali hanno, per dirla col Sacchetti “quel sentimento che l’uomo morto”, solo che non si corrompono […]»[23]. L’articolo gli costò lo status di “persona non grata” in URSS, dove non sarebbe mai più tornato. Nel luglio dell’anno successivo era a Praga come inviato dell’«Espresso», testimone diretto della Primavera di Praga e della sua agonia[24].

Il 20 agosto 1968 l’entrata in Cecoslovacchia dei carri armati del Patto di Varsavia lo sorprese a Monaco, da dove rientrò precipitosamente nella capitale boema. Nei due mesi in cui vi rimase, si fece cronista appassionato e indignato di quei drammatici eventi, autentico corrispondente di guerra, nei reportage e negli articoli per «L’Espresso» e per altri organi di stampa[25]. Si calò con parole di fuoco nell’attualità politica. Costretto a rientrare in Italia, scriveva su «L’Espresso» il 1° settembre 1968:

Sono tornato da Praga con disperazione e con rabbia. Dopo aver vissuto per due mesi le speranze e le apprensioni di un popolo, alla cui cultura ho dedicato gran parte della mia esistenza. Tanto più amaro è il mio ritorno in quanto questo magnifico popolo è stato offeso e schiacciato dall’esercito di un altro paese, della cui letteratura io sono da lunghi anni testimonio e amico in scritti e lezioni[26].

Gli fu vietato l’ingresso anche in Cecoslovacchia, dove però una volta riuscì a tornare, nel 1969[27]. Aprì la sua casa romana ai fuoriusciti e ai perseguitati del regime. Continuò a sostenere nei suoi articoli il dissenso e a denunciare la repressione, ma nemmeno l’invasione della Cecoslovacchia scalfì il suo amore per la cultura russa, né lo distolse dal proseguire il suo itinerario nel meraviglioso delle lettere russe.

In vita, non ritornò mai più in URSS, ma, da poeta, vi tornò coi suoi scritti. La sua Praga magica è uscita in traduzione russa nel 2015[28]. Per me è stato emozionante vederne l’edizione russa su una bancarella a una fiera del libro allestita sulla Piazza Rossa nel 2018.

L’insegnamento più profondo che ho tratto dalla vicinanza con Ripellino e la sua opera mi è venuto indiscutibilmente dall’aver curato per la stampa alcuni suoi saggi inediti di russistica, toccando quotidianamente con mano il suo metodo di lavoro e la sua peculiarità: dapprima, nel 1978, il breve inedito Il cilindro di Esenin[29], curato in collaborazione con Claudia Scandura, poi i saggi: Pasternak, Majakovskij ride, Majakovskij piange, Esenin, Blok e Gogoliana, raccolti in volume nel 1987[30], e un saggio su Anna Karenina, pubblicato nel 1994[31].

Come Chlebnikov, Ripellino scriveva anche su materiali poveri e casuali: inviti a teatro, a conferenze, biglietti di auguri, ma, più ordinato di Chlebnikov, riuniva i materiali raccolti in tempi diversi, organizzandoli in un organico discorso critico che prendeva l’aspetto di un variopinto collage, di una festa di forbici e colla. Curare la pubblicazione dei suoi inediti è stato per me come risolvere un rebus, ricomporre un gigantesco puzzle, in quanto i testi erano irti di indicazioni “interne”, annotate da Ripellino a proprio uso e consumo, alle volte intellegibili solo per lui. Ad esempio, indicava le fonti delle citazioni solo col numero del volume e della pagina, ma non l’edizione da cui le aveva tratte.

Nella nota autobiografica Di me, delle mie sinfoniette, apparsa postuma, Ripellino si chiedeva che cosa sarebbe rimasto, nel tempo, della sua opera, affidata forse allo zelo di «un unto, barbuto, infelice glossatore»[32]. Oggi possiamo rassicurarlo: siamo in molti ad aver glossato i suoi lavori; qualcuno di noi è sì barbuto, ma nessuno è unto. E, se non sempre siamo stati felici, la riconoscenza che nutriamo verso il suo magistero ha il sorriso sulle labbra.

La mia vita professionale è stata segnata dal tentativo di percorrere a mia volta l’itinerario del mio Maestro, con la sua stessa meraviglia e curiosità. Sconfinata è la mia gratitudine verso di lui per il mondo che mi ha dischiuso e a cui ho dedicato la mia vita professionale, e per essere stato, al di là dell’incommensurabile distanza dei risultati, il mio modello, il mio faro inamovibile e luminoso.

Vorrei concludere facendo mie le parole che Ripellino indirizzò a Ettore Lo Gatto dopo essergli succeduto sulla cattedra di Lingua e letteratura russa: «Fu lei ad aprirmi una rapinosa infilata di porte che davano su incantevoli lontananze, fu lei a rivelarmi le immagini, i nomi, i filtri d’un mondo che doveva affascinare la mia fantasia per sempre»[33].

E dire a mia volta: «Sono contenta di averti continuato».

  1. Vd. A. Pane, Nota bibliografica, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, Torino, Aragno, 2006, pp. 21-27; Id. Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino, in «Russica Romana», XXVII, 2020, pp. 87-133.
  2. Questo e altri episodi della mia frequentazione di Ripellino sono stati brevemente ricordati subito dopo la sua scomparsa, vd. R. Giuliani, Una filiazione spirituale, in Omaggio a Ripellino, «La Nuova Rivista Europea», a. III, 1979, n. 10/11, pp. 119-21.
  3. Protagonista del Gabbiano di Čechov.
  4. Lettera di A. M. Ripellino a E. Lo Gatto del 20 novembre, senza indicazione dell’anno, datata dai curatori al 1961, in Sono contento di averti continuato. Lettere a Ettore Lo Gatto conservate alla Biblioteca Nazionale centrale di Roma, a cura di V. Bottone e G. Mazzitelli, con la collaborazione di P. Avigliano, Roma, Biblioteca nazionale centrale di Roma, 2020, p. 153. Il volume mutua il titolo da una frase di Ripellino contenuta in una lettera del 20 settembre 1976: vd. ivi, p. 154.
  5. B. Pasternak, Poesie, intr. e versione di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 19717, p. 120.
  6. V. Majakovskij, La nuvola in calzoni, in Poesia russa del Novecento, versioni, saggio introduttivo, profili biografici e note a cura di A. M. Ripellino, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 269.
  7. Vd. la lettera scritta il 18 settembre 1965 dal sanatorio di Dobřiš (Boemia) a Gabriella Di Milia, in G. Di Milia, Il poeta, il clown e l’armadio di Cechov, in Omaggio a Ripellino, op. cit., pp. 124-25; e la lettera del 1° novembre 1967 a Serena Vitale, Lettera di Angelo Maria Ripellino a Serena Vitale, in «il Majakovskij», a. IX, 1998, n. 32, pp. 6-7.
  8. Vd. le prime recensioni pubblicate, non ancora diciottenne, a libri di N. Lisi e C. Govoni e a un’antologia di narratori ucraini, in A. M. Ripellino, Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), a cura di U. Brunetti e A. Pane, Torino, Aragno, 2021, vol. I, pp. 5-17.
  9. A. M. Ripellino, Introduzione a Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, pp. 6-7.
  10. Ivi, p. 8. Nel saggio su Esenin avrebbe affermato: «Ogni critica, per essere buona critica, deve essere un’irriverenza», in A. M. Ripellino, Esenin, in Id. L’arte della fuga, intr. e cura di R. Giuliani, Napoli, Guida, 1978, p. 156.
  11. A. M. Ripellino, Introduzione, op. cit., p. 9.
  12. A. M. Ripellino, Majakovskij ride, Majakovskij piange, in Id. L’arte della fuga, op. cit., p. 83.
  13. A. M. Ripellino, Esenin, op. cit., pp. 158-59.
  14. «Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti», in A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, in Id. Scontraffatte chimere. Poesie, a cura di G. Spagnoletti, Roma, Pellicanolibri, 1987, p. 17.
  15. Lettera di Angelo Maria Ripellino a Serena Vitale, op. cit., p. 7.
  16. Lettera di Serena Vitale a Evgenij Solonovič, in «il Majakovskij» cit., p. 6.
  17. N. Tersigni, L’arduo cammino, ivi, p. 16.
  18. G. Di Milia, Il poeta, il clown e l’armadio di Cechov, op. cit., p. 124.
  19. Ibidem.
  20. Lettera di Angelo Maria Ripellino a Serena Vitale, op. cit., p. 7.
  21. A. M. Ripellino, I topi del regime, in Id., L’ora d Praga. Scritti sul dissenso e sulla repressione in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’Est (1963-1973), a cura di A. Pane, con la collaborazione di C. Panichi, prefazione di N. Ajello, contributi di A. Catalano e A. Fo, Firenze, Le Lettere, 2008, p. 219.
  22. Ivi, p. 221.
  23. Ivi, p. 219.
  24. Su YouTube è disponibile un suo intervento trasmesso da Rai 3 (Angelo Maria Ripellino e la Primavera di Praga) sulla Primavera di Praga https://www.youtube.com/watch?v=ejyUuPr5nwc (ultima consultazione: 29/06/2023).
  25. Ora riuniti in A. M. Ripellino, L’ora d Praga, op. cit.
  26. A. M. Ripellino, Ai miei amici patrioti che sono stati messi in carcere: ivi, p. 86.
  27. Vd. A. Pane, Storia di Ripellino, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, op. cit., p. 42.
  28. A. M. Ripellino, Magičeskaja Praga, trad. di I. Volkova e Ju. Galatenko, Moskva, Izdatel’stvo Ol’gi Morozovoj, 2015.
  29. A. M. Ripellino, Il cilindro di Esenin, a cura di R. Giuliani e C. Scandura, in Omaggio a Ripellino, op. cit., pp. 83-94, e, a cura delle stesse, Negli anni di «Zivago»: due lettere inedite di Pasternàk a Ripellino, ivi, pp. 97-101; i contributi e gli inediti ripelliniani pubblicati nella rivista sono stati stampati senza i segni diacritici usati nella traslitterazione scientifica. Nel 1984 curai un inedito su Blok: vd. R. Giuliani, Da un inedito di Angelo Maria Ripellino su Aleksandr Blok, in Atti del Symposium “Aleksandr Blok”. Milano – Gargnano del Garda, 6-11 settembre 1981, a cura di E. Bazzarelli e J. Křesálková, Milano, Università degli studi di Milano, 1984, pp. 161-79.
  30. A. M. Ripellino, L’arte della fuga, op. cit., p. 414.
  31. A. M. Ripellino, Anna Karenina, a cura di R. Giuliani, in «Russica Romana», I, 1994, pp. 93-119. Il saggio è stato ripubblicato in L. Tolstoj, A. M. Ripellino, Per Anna Karenina, a cura di R. Giuliani, Roma, Voland, 1995, pp. 19-48. R. Giuliani, Da un inedito di Angelo Maria Ripellino su Aleksandr Blok, in Atti del Symposium “Aleksandr Blok”. Milano – Gargnano del Garda, 6-11 settembre 1981, a cura di E. Bazzarelli e J. Křesálková, Milano, Università degli studi di Milano, 1984, pp. 161-79.
  32. A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, op. cit., p. 18.
  33. Lettera di A. M. Ripellino a E. Lo Gatto del 20 novembre [anno non indicato], in Sono contento di averti continuato, op. cit., p. 153.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)