Giambattista Giraldi Cinzio[1. Cfr. Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino, UTET, 1986, vol. II, pp. 392-93. Il «Cinthio» che segue il cognome è un soprannome accademico o, secondo un’altra ipotesi, l’invenzione dell’appellativo sarebbe da attribuire a una donna, amica dell’autore, di cui si conosce soltanto il nome: Diana] nacque a Ferrara il 29 novembre 1504 e vi morì il 30 dicembre 1573[2. In una lettera indirizzata a Bernardo Tasso, del 14 settembre 1556, Giraldi rivela la propria data di nascita. Dall’atto di sepoltura apprendiamo, invece, giorno e mese di morte. Cfr. A. Farinelli e M. Rinaldi, «In vaghissima scena et in lucidissimo specchio, le varie maniere del viver humano». Libri e documenti di Giambattista Giraldi Cinzio presso la Biblioteca Ariostea,Como-Pavia, Ibis, 2004, pp. 1-2.]. Conseguì nel 1531 la laurea in medicina, alla quale affiancò fin da subito gli studi di tipo letterario e filosofico. Il 1541 fu un anno di svolta per la vita del Giraldi: divenne, infatti, il segretario ducale del duca Ercole II d’Este. Inoltre, morto il Calcagnini, Giraldi lo sostituì ottenendo a Ferrara una cattedra di retorica, che avrebbe conservato fino al 1564. Sempre nello stesso anno, mise in scena le Orbecche,opera grazie alla quale, in Italia, per la prima volta si assistette al «superamento dei tentativi di elaborazione di una nuova tragedia di stampo classicista»[3. Ivi, p. 7.] e per la cui composizione seguì rigidamente i canoni della Poetica aristotelica. Tra il 1548 e il 1563 Giraldi compose un numero elevatissimo di opere teatrali, tra le quali: Didone, Cleopatra, Altile, Antivalomeni, Selene, Euphimia e Arrenopia. Nel 1559, a seguito della morte del duca, fu costretto a lasciare Ferrara. Nel 1565 pubblicò gli Ecatommiti, una raccolta di racconti in prosa, e, dopo anni di cattedre erranti, nel 1571 tornò a Ferrara, dove morì due anni dopo, senza tuttavia ricoprire nessun nuovo incarico di prestigio[4. Insegnò a Mondovì, a Pavia e a Torino.].
Il primo nucleo della riflessione sul romanzo
Il 25 luglio 1548, Giovan Battista Pigna[5. Pseudonimo di Giovan Battista Nicolucci, che fu allievo prediletto del Giraldi. Non bisogna, quindi, stupirsi che allievo e maestro si scambiassero delle lettere.] inviò una lettera al Giraldi, chiedendogli un parere riguardo alle diffuse critiche intorno al poema ariostesco; in particolare: incongruenza tra inizio e fine dell’opera; titolo inappropriato, giacché la vicenda di Orlando veniva ritenuta una semplice cornice dell’amore tra Angelica e Medoro; mancata aderenza alle unità aristoteliche; eccessive digressioni dell’Ariosto[6. Cfr. G. Giraldi Cinzio, Carteggio, a cura di S. Villari, Messina, Sicania, 1996, tomo II, lett. 46, pp. 224-25.]. La risposta del Giraldi non tardò ad arrivare e, nell’agosto dello stesso anno, Pigna ricevette la lettera[7. Ivi, lett. 47, pp. 226-27.]. Bisogna ricordare che Giraldi era un convinto sostenitore della Poetica aristotelica e così lo stesso Pigna, suo allievo; entrambi, inoltre, avevano notevolmente apprezzato l’Ariosto.
Giraldi definisce fin da subito l’Orlando Furioso come «romanzo, opera fatta di invenzioni che dilettano»[8. Ivi, p. 226.]. Parallelamente, però, definisce l’Ariosto come poeta. Quella che apparentemente sembrerebbe una svista viene subito spiegata dal Giraldi, per il quale tra poesia e prosa non c’è alcuna differenza, giacché:
egli è da sapere che i versi non sono quelli che facciano il poeta, ma l’ingegno e la materia ch’egli si piglia a comporre; ché non sarebbe meno ch’ istorico Giovanni Villani se in versi egli avesse scritto quello che nelle sue prose si contiene; né meno che poeta sarebbe l’Ariosto se in prosa avesse spiegato quello che ne’suoi versi ha lasciato scritto[9. Ibidem.].
Oltre a dilettare il lettore, il poema è ricco di insegnamenti morali: tutti i cavalieri sono, infatti, virtuosi e la pazzia di Orlando deve essere letta come punizione nei confronti di un amore eccessivamente passionale.
Riguardo alle digressioni, Giraldi tocca un altro punto fondamentale della riflessione teorico-letteraria seicentesca: «perché sono tutte le parti ai luochi loro, con quelli ornamenti che vi convengono. Prima egli nelle descrizioni dei luochi e dei tempi, dei paesi, delle persone, dei costumi, degli affetti e delle altre cose che appartengono in questa parte al poema è meraviglioso»[10. Ibidem.]. Grazie al meraviglioso, capace di muovere gli affetti dell’animo, il lettore vede e partecipa alle scene descritte dall’Ariosto.
Giraldi arriva a paragonare l’Ariosto a un «camaleonte»: loda la sua abilità nell’adattare lo stile e il linguaggio alla materia trattata. Per questo motivo a suo giudizio dovrebbe essere un modello al pari di Petrarca e di Boccaccio[11. Giraldi aveva letto le Prose del Bembo e ne condivideva la maggior parte delle idee.].
Il fatto che l’Orlando furioso sia un romanzo dà la possibilità al suo autore di essere fonte d’innovazione, poiché:
come si vede che i greci e i latini poeti[12. Com’è noto, Omero utilizza nell’Iliade tutti i dialetti greci, non solo quello di Atene, considerato il più prestigioso] ch’hanno scritto le cose degli eroi, hanno avuta una certa libertà di potere (con giudizio però) usare nuove voci, così mi credo io che nella nostra lingua questa licenza sia più convenevole agli scrittori dei romanzi, ch’ai poeti lirici od agli scrittori delle prose, come è il Petrarca ed il Boccaccio[13. Ivi, lett. 47 cit., p. 227.].
Inoltre, l’Ariosto non è tenuto a rispettare la tradizione, perché il poema cavalleresco trae origine dai provenzali e dagli spagnoli e non dai greci o dai latini, ponendosi quindi come un genere letterario moderno.
Riguardo al titolo, Giraldi non si pronuncia. Questo perché anche lui lo considera inappropriato al poema, come scrive a Bernardo Tasso nel 1546: «E perché Vostra Signoria mi ha tocco una parola del titolo dell’Ariosto, le dico che ad opera di tante azioni di diversi cavalieri, non fu convenevole dar nome da un solo cavaliero, né meno gliene conviene dargliele di quello nel quale non devea finire l’opera sua»[14. Ivi, lett. 78 cit., p. 278.]. E conclude proponendo un nuovo titolo: I Romanzi dell’Ariosto.
Il Discorso intorno al comporre de’ romanzi
I. Problemi intorno alla datazione dell’opera
Il Discorso intorno al comporre de’ romanzi viene pubblicato assieme al Discorso over lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, a Venezia, presso l’editore Giolito de’ Ferrari nel 1554: sono rispettivamente dedicati agli allievi Giovan Battista Pigna e Giulio Ponzio Ponzoni.
In realtà, il primo nell’ordine è secondo per composizione. Nato per ampliare le riflessioni sull’Orlando Furioso nella lettera indirizzata al Pigna nel 1548, il Discorso è datato 28 aprile 1549. L’altro, invece, è datato 20 aprile 1543 e nasce come riflessione teorica riguardo ai problemi tecnici riscontrati dal Giraldi durante la composizione delle proprie tragicommedie. Horne[15. Cfr. P. R. Horne, The tragedies of Giambattista Cinthio Giraldi, London, Oxford University Press, 1962, pp. 25-26.] ha avanzato, però, l’ipotesi di una possibile retrodatazione dell’autore, sostenendo che, se fossero stati completati effettivamente nelle date proposte, il Giraldi non avrebbe aspettato il 1554 per pubblicarli. Inoltre, retrodatando la composizione dell’opera, Giraldi avrebbe potuto accaparrarsi il merito di essere stato il primo ad aver applicato le teorie aristoteliche sui generi teatrali[16. Più precisamente, ancora prima dei trattati di Robortello e di Maggi; rispettivamente, F. Robortelli, In librum Aristotelis de Poetica explicationes, Florentiae, In Officina Laurentii Torrentini (1548); e V. Madii et B. Lombardi, In Aristotelis librum de Poetica comune explanationes. Madii vero in eundem librum propriae annotationes, Venetiis, in Officina Erasmiana Vincentii Valgrisii (1550).]. La maggior parte dei critici, però, condivide la datazione convenzionale, che il Giraldi stesso ha posto alla fine delle proprie opere.
Nel 1557 Giraldi pubblica l’Ercole, romanzo cavalleresco che doveva essere da un lato l’agiografica celebrazione della casa estense, dall’altro la conseguenza a livello pratico di quanto teorizzato nel Discorso[17. In particolare, lo spiega in una lettera al Tasso datata 10 ottobre 1557.].
Benché Giraldi sostenga che le due opere seguano una consequenzialità cronologica, molti critici si sono interrogati su un possibile ribaltamento della sequenza teoria-prassi. Questo perché all’interno del Discorso sono numerose le citazioni di alcuni versi dell’Ercole[18. Giraldi, benché attribuendosi la paternità dei versi, non fa nessun accenno al titolo dell’opera.]. Inoltre, scrive (sempre nei Discorsi) di starsi occupando in quel periodo della correzione e ricomposizione di un nuovo libro, il cui titolo rimane, però, sconosciuto. Il Pigna sostiene, infine, nei Romanzi[19. G. B. Pigna, Libro dei Romanzi di messer Giovanni Battista Pigna al S. Donno Luigi da Este, vescovo di Ferrara, diviso in tre libri, ne’ quali della poesia e della vita dell’Ariosto con nuovo modo si tratta, Venezia, Valgrisi, 1554.] di aver visto egli stesso lo schizzo dell’Ercole nel 1547, dieci anni prima della sua effettiva pubblicazione[20. Queste ipotesi contrastano con quanto scrive Giraldi all’amico Pietro Vettori, in una lettera del 1553, nella quale sostiene di essere ancora alla ricerca delle fonti classiche sul mito di Ercole, al fine di poterle rielaborare in un prossimo romanzo. Cfr. G. Giraldi Cinzio, Carteggio, lett. 60, pp. 249-51.].
II. Paratesti e disputa con il Pigna
Nel secolo XIX, grazie alla segnalazione di Bartolomeo Gamba e alla mediazione del bibliotecario Luigi Napoleone Cittadella, Salomone Camerini ebbe tra le mani l’esemplare ferrarese e ottenne il permesso di collazionarlo con un’altra copia dei Discorsi in suo possesso, sulla quale annotò a margine le varianti d’autore. Questo lavoro filologico gli servì per allestire, con lo pseudonimo di Giulio Antimaco, un’edizione esemplata sul postillato dell’Ariostea, che uscì nel 1864 nella collana «Biblioteca rara» di cui egli stesso era direttore[21. Cfr. G. Giraldi Cinzio, Scritti estetici, a cura di Giulio Antimaco (S. E. Camerini), Milano, Daelli, 1864. Cfr. anche Giovan Battista Giraldi, Discorsi intorno al comporre rivisti dall’autore nell’esemplare ferrarese Cl. I 90, a cura di S. Villari, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi umanistici, 2002.]. All’edizione dell’Antimaco si contrappone un’edizione più recente, ovvero quella del Crocetti, pubblicata a Milano nel 1973[22. Cfr. G. Giraldi Cinzio, Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati editore, 1973.].
Entrambi riportano fedelmente le quattro dediche anteposte dal Giraldi al Discorso,ovvero: Al Clarissimo e molto magnifico signor mio onoratissimo il signor Vinenzo Troni; All’Ill .e eccell. signor mio osservandissimo il signor Ercole Estense II duca IV di Ferrara; Al molto mag. Cav. Il signore Bonifaccio Ruggeri[23. Consigliere del Duca d’Este.]; ultima, quella in latino al Pigna, Discipulo optimo atq. Carissimo.
Nell’edizione dell’Antimaco vengono inseriti tre paratesti aggiuntivi, che nell’edizione del Crocetti mancano, e cioè: un Catalogo dei manoscritti di Giraldi Cinzio nella Biblioteca di Ferrara; un’Avvertenza dell’editore[24. L’avvertenza è dedicata alla critica verso il misterioso rilegatore che ha tagliato e reso illeggibili le postille del manoscritto giraldiano; mentre Antimaco registra i mancamenti e tenta di colmarli, Crocetti non si pone minimamente il problema, saltando da una pagina all’altra e lasciandosi dietro le lacune. Per tale ragione, ritengo che l’ed. Antimaco sia più affidabile.]; e per finire una Dichiarazione all’avvertenza.
La Dichiarazione è dedicata alla querelle scoppiata tra il Giraldi e il Pigna, le cui opere furono pubblicate nello stesso anno. Il Pigna accusò il Giraldi di plagio e Antimaco, dichiarando il proprio fair play, citava un passo tratto da I Romanzi, in cui il Pigna spiega la vicenda: «Dice ancora d’avermi insegnato tutto quello che io so della Poetica, e non s’avvede che non sapendo egli greco in modo alcuno, non può essere di tal facoltà tanto capace, che per sé bene lo sappia, e ad altri l’esponga. E sebbene egli tutto il giorno parla della Poetica ch’egli mi mostrò, non è che da lei cosa alcuna acquistassi»[25. G. Giraldi Cinzio, Scritti estetici, op. cit., p. XXV.].
Dopo aver rinnegato, quindi, il suo ruolo di allievo del Giraldi, sostiene di aver mostrato al maestro il principio dei Romanzi e di essere stato, poi, dallo stesso plagiato. Come prova, il Pigna contrappone l’unitarietà della propria opera alla disarmonia del Discorso, in quanto opera costruita “a due penne”[26. A oggi, non è ancora chiaro a chi tra i due spettasse il primato della teorizzazione intorno alla questione romanzesca. Il fatto che nel 1562 Giraldi, dopo la morte del duca e malvisto nell’ambiente di corte, dovette lasciare Ferrara e che nello stesso anno al Pigna venisse assegnata la stessa cattedra di retorica un tempo appartenuta al maestro, induce i critici a pensare che l’idea originaria fosse appartenuta all’allievo. Eppure, dall’altro lato, Giraldi era molto affezionato al Pigna, al quale il Discorso fu oltretutto dedicato. Scrive, infatti, Giraldi riguardo al Pigna: «veduta io l’assiduità del giovane et il suo disiderio dell’imparare, l’hebbi non meno che figliuolo caro», ivi, p. XLIII].
III. Il Discorso
Il Discorso è strutturalmente diviso in due parti. Nella prima, dopo aver specificato che «Non mi stenderò a mostrare se sia meglio ai nostri tempi scrivere latino che volgare. Perché monsignor il Bembo e messer Citolini[27. Si riferisce ad A. Citolini, Lettera in difesa della lingua volgare, Venezia, Franc. Marcolini, 1540.] hanno abondevolmente sciolto questo dubbio»[28. G. Giraldi Cinzio, Scritti estetici, op. cit., p. 5.], Giraldi dà la propria definizione di romanzo: «Io stimo ch’altro non sia dire opera di romanzi, che poema e composizione di cavalieri forti e significhi quello istesso questa voce appresso noi che significa componimento heroico appresso latini»[29. Ivi, p. 7.].
Successivamente, propone due possibili ipotesi etimologiche del termine romanzo: la prima vede la sua origine nel greco ρώμη, letteralmente ‘fortezza’, affiancata dal latino ramnes[30. Una delle tre tribù in cui si credeva che al tempo di Romolo la popolazione di Roma fosse suddivisa (assieme ai tities e ai luceres).]; la seconda è collegata al termine remensi, a sua volta legato all’Arcivescovo di Reims, Turpino, presunto autore della prima cronaca latina sui paladini di Carlo Magno.
Infine, l’origine del moderno romanzo cavalleresco, secondo il Giraldi, è da attribuire a francesi e spagnoli: «E mi par di poter dire che questa sorta di poesia abbia avuta la prima origine ed il primo suo principio dai Francesi e poi agli spagnoli; infine in Italia»[31. Ibidem.]. Tuttavia, mentre i francesi e gli spagnoli dividevano le proprie opere in libri, gli italiani ebbero per primi il merito di dividerle in canti, in modo tale da rispettare la tradizione, pur dentro un genere d’innovazione.
La seconda parte del Discorso è incentrata sul modus di composizione di un romanzo[32. Giraldi affronta la discussione come se stesse realmente parlando al proprio discepolo, ponendosi quindi come magister anche per il lettore.]. Il primo punto da prendere in considerazione è «il soggetto, la favola o la materia come che noi vogliamo chiamarla», a cui bisogna fare molta attenzione: «è da avvertire che i soggetti o le materie dei romanzi non sono di quella maniera che sono quelle di Virgilio et di Homero; perché l’uno et l’altro di questi, nelle sue composizioni, si ha preso ad imitare una sola attione di un huomo solo, et i nostri[33. Con «nostri» si riferisce qui al Boiardo e all’Ariosto. Il Morgante di Pulci viene escluso dal Giraldi perché considerato burlesco.] ne hanno imitate molte, non solo di uno, ma di molti»[34. Giraldi insiste sul fatto che chi si trova nella condizione di dover comporre un romanzo non può permettersi di sbagliare riguardo al soggetto; se ciò avvenisse, egli cadrebbe in quello che Aristotele chiamava «errore per sé». All’autore sono concessi sono gli «errori per accidenti»; ivi, p. 16.]. La molteplicità dei protagonisti avrebbe come fine quello di indurre il lettore alla curiositas, poiché, identificandosi con almeno uno dei personaggi, la sua volontà di arrivare alla fine del romanzo sarà maggiore.
Riguardo alle «attioni» dei personaggi, scrive il Giraldi: «Vogliono, dunque, le parti et gli episodi havere o necessaria o verisimile dipendenza una dall’altra. (…) et intorno a questo verisimile è da sapere che non solo verisimile si può chiamare quello che può avvenire verisimilmente, ma quello anco che dallo uso è accettato ne’ poeti per verisimile»[35. Ivi, p. 61.]. Il meraviglioso nasce, secondo il Giraldi, solo dalla bugia, perché la meraviglia è affascinata dall’impossibile poetico. Successivamente, aggiunge, riguardo al rapporto tra storico e poeta[36. Per il Giraldi, ricordiamo, non c’è alcuna differenza tra poesia e prosa, tra poeta e romanziere; giacché è la materia di cui si parla a distinguere una poesia da un romanzo.]: «Ove l’historico dee solo scrivere i fatti et le attioni vere et come in effetto sono, il poeta non quali sono, ma quali esser debbano le mostra, ad ammaestramento della vita»[37. Ivi, p. 64.]. Attraverso la finzione, il poeta raggiungerebbe comunque la verità, identificata dal Giraldi nel fine dell’opera: insegnare agli uomini l’onesta virtù. Anche prendendo come protagonista un personaggio realmente esistito, le «attioni» devono essere necessariamente invenzione dell’autore, giacché la perfezione è nella favola, in quanto la natura umana impedirebbe l’esistenza nel mondo reale dell’Eroe che racchiude in sé tutte le virtù. «Oltre il verisimile, è da considerare in tutta l’opera il lodevole et l’honesto»[38. Ivi, p. 67.], che possono essere ottenuti solo mediante gli artifici retorici dell’autore[39. Tra i quali, per esempio, a proposito della divisione in canti, nella parte finale di un canto l’autore dovrebbe richiamare qualcosa del canto successivo, al fine di attirare «l’attentione» dell’autore; oppure, un concetto dovrebbe essere espresso non oltre i due versi, di modo che il lettore abbia il tempo di «riposare gli occhi»; o, ancora, i versi dovrebbero essere di undici sillabe, perché i versi di dodici sillabe o i settenari non si adattano a un tono grave, necessario alla buona riuscita della finzione poetica.].
Dopo queste indicazioni, Giraldi introduce il concetto di decoro, secondo cui ogni insegnamento virtuoso deve essere adatto alle circostanze del proprio tempo. La premessa della poetica giraldiana è che non esiste un corpus teorico universalmente valido; anche il passato deve, quindi, essere rivisto attraverso il filtro del presente. Obiettivo dei discorsi non è, dunque, la legittimazione teorica del modello ariostesco, ma anzi, al contrario, proprio la questione legata al decoro sancisce il superamento dell’Orlando Furioso. Di conseguenza,decoro e verisimile non sarebbero, in quest’ottica, categorie da definirsi a priori:
Perno dei Discorsi intorno al comporre de’Romanzi è una concezione dinamica della letteratura come sistema perennemente in fieri, strumento contingente di quella società che, evolvendosi di età in età, di epoca in epoca, è tenuta a rinnovare all’unisono la propria norma e la propria prassi. (…) Solamente la salvaguardia della contingenza dello specifico letterario gli sembra consentire la possibilità di lasciare spazio al presente e di immergersi totalmente nei tempi nei quali scrive il poeta, concordando insieme res e verba, verità e finzione. L’elemento che il Giraldi Cinzio considera preponderante è l’obbligo per ogni poeta di rendere la propria opera convenevole a quel decoro che il mutare dei tempi e degli uomini richiede cangiante. (…) per realizzare quello che di ogni scrittura deve essere il fine: insegnare attraverso il lodevole e l’onesto quanto appartiene alla vita civile[40. D. Rasi, Proposte per una lettura dei Discorsi intorno al comporre de’ Romanzi di G. B. Giraldi Cinzio, in Studi in onore di Vittorio Zaccaria in occasione del settantesimo compleanno, a cura di M. Pecoraro, Milano, Unicopli, 1987, pp. 277-78.].
Ne consegue che il poema diverrebbe un «Opus magnum, raffigurazione didascalica e ideologicamente finalizzata del reale»[41. Ivi, p. 283.].
Critica giraldiana
Quando si parla di Giraldi, due sono le strade che la critica, nel corso degli anni, ha percorso. La prima riguarda il Giraldi teorico[42. Per una lista completa, cfr. V. Branca, Dizionario critico della letteratura italiana, op. cit., pp. 394-95.]. Per quanto concerne i Discorsi, i dati salienti sono rinvenibili in nota. In particolare, mi sono servito, tra le varie proposte di lettura che la critica giraldiana propone, dei già citati saggi di Susanna Villari e di D. Rasi. Tuttavia, per una diversa chiave di lettura propongo l’approfondita analisi del Boccassini, incentrata sul paragone tra il Discorso di Giraldi e I Romanzi del Pigna[43. D. Bocassini, «Romanzevoli muse»: Giraldi, Pigna e la questione del poema cavalleresco, in «Schifanoia» 13/14, 1992.]. Invece[44. Per una lista completa, cfr. R. Cremante, Teatro del cinquecento, I. La tragedia, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1987, pp. 275-82.], «Sul Giraldi tragico, numerosi i lavori della Dondoni[45. L. Dondoni, Un interprete di Seneca del ’500: G. Giraldi, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo di lettere e scienze morali e storiche, XCIII, 1959, pp. 3-16.], dell’Herrick[46. M. T. Herrick, Tragicomedy, its origin and development in Italy, France and England, Urbana: University of Illinois Press, 1962.] e dell’Horne[47. P. R. Horne, Les tragédies de Sénèque et le théatre de la Renaissance, Parigi 1964.], a cui si deve una completa analisi tendente a porre l’accento non solo e non tanto sulle Orbecche, quanto sulle altre opere drammatiche del Giraldi, e cioè sulle tragedie a lieto fine»[48. R. Cremante, Teatro del cinquecento, I. La tragedia, Milano-Napoli, Ricciardi, 1987, op. cit., p. 392.].
Interessante è anche l’intervento del Dionisotti:
Il fatto che il Giraldi scisse, non una, ma nove tragedie, non vuol dire che queste nove tragedie si presentino oggi a noi su di uno stesso piano. (…) In questo libro è stato Egregiamente fatto procedere ad un imparziale esame di tutte e nove le tragedie, ma anche e anzitutto dovrà accettare e spiegare il fatto che fra le nove soltanto le Orbecche ebbe una qualche importanza nella storia della letteratura italiana[49. C. Dionisotti, recensione a PH. Horne, The tragedies of Giambattista Cinthio Giraldi, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL, 1963, p. 119.].
(fasc. 21, 25 giugno 2018)