La chiacchiera è secondo Giorgio Manganelli «unico genere letterario di cui tutti gli altri sono delle diversificazioni, sono delle sottospecie»1. In ogni opera, che sia saggistica o narrativa, oppure che abbracci modalità antiromanzesche, principio unico della scrittura manganelliana è quello di perseguire la sola «gioia della verbalità pura»2. Tuttavia, sebbene Manganelli sostenga che la letteratura è inutile, il suo vago digredire nasconde uno scopo, la comunicazione tra l’autore e il lettore avviene, e colui che scrive dà di frequente istruzioni su come leggere un testo.
Seppur con tono sempre buffonesco, l’onnipresente fool manganelliano si rivolge a un tu che sembra essere suo Doppelgänger, e l’oggetto dei suoi monologhi è la natura stessa della propria scrittura. Questo procedimento comunicativo tra mittente esperto e destinatario novizio, tra autore ormai morto e lettore ancora non nato, si verifica in molte opere, le quali a loro volta, come i personaggi, comunicano, si incontrano e si scontrano.
Il primo Manganelli, quello di Hilarotragoedia (1964) e di Letteratura come menzogna (1967), dialoga idealmente con l’ultimo Manganelli, quello di Encomio del tiranno (1990) e della Palude definitiva (1991, postumo). I due, a loro volta, dialogano con il “pre-Manganelli”, il Manganelli «archeologico»3 degli appunti critici degli anni Cinquanta, del «romanzo di formazione»4 rappresentato dalle poesie antiche, del «laboratorio» delle prose raccolte da Salvatore Silvano Nigro in Ti ucciderò mia capitale (2011).
La direzione che prenderà questo breve saggio è, dunque, in primo luogo, quella di far luce sulla natura del Manganelli che dà sistematicamente delle direttive su come dovrebbe essere la letteratura e su ciò di cui dovrebbe trattare, in un procedimento autoriflessivo e metalinguistico, sia esso retrospettivo o programmatico. In secondo luogo, sarà mio intento mostrare una sostanziale coerenza di pensiero, e di lessico, nella produzione manganelliana, tramite un approccio sincronico ad alcune opere al contrario molto distanti tra loro cronologicamente.
Rinviando a Daniele Piccini, Federico Francucci e Filippo Milani per quanto riguarda i legami tra i tentativi poetici e le prime produzioni in prosa5, mi occuperò in questa sede della raccolta di prove narrative succitata. In alcuni casi, infatti, la componente anticipatoria dei racconti di Ti ucciderò mia capitale è evidente: Ipotesi (1960) anticipa, strutturalmente, un’opera sui generis come Nuovo commento (1969) e, da un punto di vista teorico, una pièce teatrale come Hyperipotesi (1963); Frammenti e immagini di voce (1970) risulta essere a mio avviso un’anticipazione, seppur in qualche modo antitetica e realizzata in chiave performativa, di Rumori o voci (1987), oltre che, secondo Nigro, carta preparatoria del numero Novantasette di Centuria (1979)6.
Allo stesso modo emblematica è la componente “normativa” dell’autore che in una parte di questi racconti, sia detto con le dovute cautele della nomenclatura di genere, realizza con sicurezza, seppur in una forma privata e abbozzata, un ritratto della letteratura, dello scrittore, del lettore, del traduttore, oltre che, per esempio, di alcuni generi letterari precisi, come dovrebbero essere secondo il suo auspicio. Per menzionarne alcuni, selezionerei nel lungo indice Un trattatello, Un libro (databili 1951-1955), l’incompiuto Del vero e falso dei discorsi del 1960, o La traduzione, scritto tra il 1981 e il 1982.
Dovendo per ragioni di spazio compiere una selezione, destino ad altra occasione i testi riguardanti la morte, il corpo, l’architettura dell’Inferno, l’odio, il nulla, seppur ricchissimi di spunti di analisi, in parte proposte soprattutto da Nigro nella postfazione alla raccolta. Prenderò, invece, in esame tre testi: Scrivere storie umane, Appunti di un uomo disorientato, scritti nello stesso periodo del 19607, e Taccuino, databile secondo Nigro tra il 1972 e il 19808. Essi rappresentano a mio avviso materiale consistente per analizzare la frammentazione dell’io manganelliano, il quale, nonostante scissioni contenutistiche e autoparodie, difende sempre fermo la sua posizione rispetto alla concezione della letteratura: menzognera, anti-ideologica, anti-storica, lontana dall’essere un gesto sociale, lontana dall’adeguamento al reale.
Nel primo racconto preso in esame, Scrivere storie umane, emergono subito le prime contraddizioni rispetto a quanto appena dichiarato. Dal titolo già si percepisce il paradosso: l’“umano”, non tanto nell’accezione antropologica quanto in quella moralistico-cattolica, non è generalmente interesse dell’autore. Entreremo, dunque, in questa prosa proprio per questa ragione. L’io narrante di questa sorta di vademecum spiega a un immaginario destinatario come si debba comporre una storia caratterizzata da buona morale e sentimenti positivi:
Tu devi trovare delle storie “buone”, vale a dire affettivamente cariche di dinamica positiva, che facciano sentire migliori, ma non per molto: buone, dolci, e dolorose. I dolori altrui ci fanno buoni, ci perfezionano: i nostri, perfezionano il nostro turpiloquio. I giornali sono colmi di spunti che un giovane come te dovrebbe saper riconoscere tra mille: e poi occorre molto meno. Da’ un’occhiata per la strada. Metti assieme una notizia (esempio: ragazzina che ogni giorno porta una ciotola di buon latte a vecchia cieca), adocchia una faccia per strada: ecco, la ragazza rinsecchita, che fa le spese assieme a tre vecchie signore. Una madre, verosimilmente, una nonna, un’amica di nonna9.
Manganelli prescrive precetti per la composizione di una storia, consigliando al lettore, come fosse un amico scrittore, di perseguire la storia “buona”. Adotta per questo termini di classificazione precisi: genere, personaggi, contesto e intreccio. Il destinatario dovrà prendere l’ispirazione da un passante, o da un giornale, comporre in una scacchiera i vari elementi, inserire la componente dei personaggi in maniera coerente. In una prosa abbozzata, scrive un decalogo, una sorta di appunto in itinere. Spiega come deve essere descritta la casa («in una casupola – no, che cos’è una casupola? È letteratura: queste cose debbono saper di vita… diciamo: un modesto appartamento»), o ricorda di «annotarsi mentalmente» che i bambini sono fragili – sarà utile saperlo. Inoltre, egli insiste sulla presenza di un «accenno moralistico alla insensibilità di una civiltà che non sa apprezzare le donne semplici: la maggior parte delle donne è brutta e te ne sarà grata»10.
Il decalogo prosegue. L’attenzione rivolta finora al ruolo dello scrittore ora si sposta, come sembrerebbe consuetudine, alle preoccupazioni della ricezione. Manganelli dice all’“amico”: «è bene che la lettrice anziana possa credere di essere in una situazione “moralmente” analoga»; oppure «la gente ama codeste storie dei geni poveri»11. Aggiunge e precisa la necessità di una corrispondenza tra il testo e la realtà extralinguistica: «Ricordati: non è una storia falsa; è vera. Altrimenti il calore umano rischia di perdersi in un gioco intellettuale»12.
Lo scrittore non dovrebbe voler correre tale rischio. O meglio, colui che non vorrebbe correre tale rischio è, in realtà, lo scrittore inviso, sbeffeggiato, da Manganelli. Uno di quei «narratori, per altro non del tutto negati agli splendori della menzogna, (che) indulgono ai sogni morbosi di una trascrizione del reale, sia essa documentaria, educativa o patetica»13.
L’attacco ai neorealisti «(trascrittori) del reale» è evidente, in questo brano del saggio di Letteratura come menzogna che non a caso si intitola Letteratura fantastica. In Scrivere storie umane, al contrario, Manganelli dice al suo scrittore di scrivere storie che lo avvicinino a un pubblico assetato di moralismo, di buoni sentimenti e psicologiche introspezioni: «tutti hanno bisogno di te, ma non del tuo congiuntivo, sibbene del tuo sorriso cattivante, della stretta di mano, franca e affettuosa»14. Lo scrittore dovrà, nel caso di questo racconto, aderire al reale patetico, a ciò che smuova coscienze e cuori dei lettori meno intellettuali, della «gente». È evidente che qui l’autore, tramite un processo manieristico ricorrente in tutta la sua produzione, burla il lettore vero; come il fool, il buffone di corte, egli si prende gioco del destinatario.
Nel 1960 scrive questo raccontino dalla nuance canzonatoria e nel 1964 il risvolto di copertina di Hilarotragoedia ne conferma l’inconfutabile ironia:
(…) se taluno troverà codesti documenti incondìti e affatto notarili, non dimentichi che il loro pregio è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero, e pertanto, essi vengono qui proposti come esempi di quel realismo moralmente e socialmente significativo, di cui il raccoglitore vuole essere ossequioso seguace15.
L’autore, dunque, seppur in un testo intitolato Scrivere storie umane, rifiuta ogni intento di operazione ideologica, e ne comprendiamo le ragioni grazie a una dichiarazione in un’intervista, meno sardonica, più sincera:
La letteratura è libertaria, è anarcoide, neanche anarchica, perché se fosse anarchica vorrebbe dire che c’è una ideologia della disobbedienza. (…) Proprio questa condizione anarcoide è la piaga e il privilegio della condizione letteraria16.
Piaga e privilegio è binomio ossimorico come il suo ideatore, per cui il barocco «sistema dei contrasti» risulta insolubile «senza dialettica»17: anarcoide e adediretto, lo scrittore manganelliano di Letteratura come menzogna non può raggiungere i risultati auspicati dall’ironico mittente di questa missiva, non può servirsi di tecniche di narrazione patetiche. Il vero scrittore manganelliano non trascrive il reale e i «buoni sentimenti» a costituir superba narrativa, egli trascrive la voce anonima della dea Letteratura. Si perde di fronte al romanzo tradizionale, il quale al contrario riuscirebbe a raggiungere il significato, il quale, ancora, non si fermerebbe alla natura puramente sonora del significante.
Disorientato, il protagonista metamorfizza, dunque, in personaggio di un altro scritto, Appunti di un uomo disorientato. Vagando senza bussola nel sottobosco dei classici, egli menziona i suoi demoni della letteratura, per dirlo con Mari18: il gigante Flaubert, l’immediato Maupassant, l’«epilettico» Dostoieschi (sic), il gramsciano Verga19. L’autore del (o nel ) racconto sembra scrivere una pagina di diario, legge i propri predecessori e si autocommisera20 per la scarsezza di immaginazione, per la propria incapacità di inventare figure verosimili e allo stesso tempo particolari, persino per la propria mancanza di tenacia e verve nella calligrafia.
Ecco dunque che, se nel caso di Scrivere storie umane un anti-Manganelli parla a Manganelli, qui al contrario l’uomo disorientato è proprio il Nostro, che in qualche modo risponde al precedente vecchio mentore. Egli dichiara di non essere in grado di scriverle, queste storie buone, queste storie vere. Il Manga senza Oriente non ha voglia di attenersi a degli schemi narratologici precisi, alle storie di tradimenti o di donne come «la Nesvanova, la Bovary, Sonia e Lady Macbeth»21. L’io narrante dichiara, colto nel momento della creazione di un pattern narrativo:
Vi sarebbe una storia da scrivere sul gatto bianco e sciocco di mio cugino: un gatto stupido, una cosa unica; è una storia in cui si potrebbe mettere dolore cosmico come zucchero nel caffè; e c’è la bambina che diventa cieca, al primo piano; una bambina religiosissima (…) c’è la signora innamorata del marito, e che ha anche l’amante… Una ninfomane dotata di buoni sentimenti: pensate quale stupenda tragedia… (…) C’è la ragazza innamorata non riamata che va a letto con uno che non ama, perché le piace e intanto a costui, che è paziente e disorientato, parla dell’altro, dell’amato disamorato… forse si tratta solo di questo: io sono perplesso, disorientato, come quel poveretto22.
Lo schema, i personaggi canonici, la stupenda tragedia della malattia, della morte, dell’amore. La storia è già stata scritta, il cliché narratologico incombe, e Manganelli vi si inserisce, si confessa, «masturba» la macchina da scrivere:
inizio e scarto, provo, e intanto mi svio, seguo una frase, quella dolcissima frode di una frase… Le metafore, i simboli… Poi passo a leggere un romanzo già scritto, una poesia già scritta, una storia affascinante, già scritta; mi dispera la semplicità con cui queste cose esistono, le tocco, ci soffio sopra a veder se perdono consistenza come i soffioni, ma no, eccole, sempre, dure cose, reali, vere23.
Sembra un apprendista, un romanziere alle prime armi, ancora lettore affascinato dalla bellezza della poesia, sfiora le cose con la semplicità del primo tocco, del primo incontro con la pagina scritta. Qui non sono più le storie ad essere reali, sono le metafore e i simboli, sono le parole le uniche cose reali, nel loro comporre una frase che è frode. Lo scrittore, che è ancora una volta al contempo lettore, si lascia cogliere dalla dura natura dell’oggetto letterario, rendendolo concreto, toccandolo. Egli si rende conto del potere che il testo ha su di lui, così inerte e così ancora assoggettato al racconto borghese in cui imperi la mimesi, e si abbandona alla semplicità onnipotente della letteratura, fino al 1990.
A questo punto, in una sorta di crescendo narrativo, se in quest’ultimo testo l’uomo è disorientato da un bizzarro Manganelli romantico-realista, è tuttavia Taccuino, più tardo inedito dell’officina, racconto in nuce, l’operetta che più sembra distante dal Verbo dell’autore, e dunque più emblematica della sua ironia manieristica.
In un elenco numerato di proposizioni quasi interamente interrotte l’autore prepara la stesura di un romanzo. Il romanzo, commenta subito Manganelli:
(…) è a un punto morto. (…) è la testimonianza di una società, lo specchio di un mondo; ritrae e commenta. Dunque ha bisogno a) di qualcosa da ritrarre (mimèsi); b) di un sentimento di ciò che ritrae. Il romanzo è pur sempre legato al verosimile; è un aneddoto – storico – allungato24.
La descrizione appena letta è puro “a-manganellismo”: non esiste mimesi nel processo di combinazione scrittoria del Manga, non esiste psicologismo, né società, né verisimiglianza.
Procedendo nella lettura, notiamo che l’autore propone un classico intreccio contemporaneo: il Protagonista ideologicamente impegnato, il lesbismo e l’adulterio come espedienti succulenti, il «coito socialdemocratico», la presenza di figure oneste in una struttura socialmente fatiscente à la Moravia. Dov’è finita la noncuranza della trama? Dove l’antimoralismo?
Sembra che il Manga del manifesto del Gruppo 63 sia scomparso. Eppure resta, sebben celato, un segnale della mai avvenuta dipartita del “malinconico tapiro”25: in Taccuino il narratore dell’opera in fieri pesca, quasi letteralmente, la storia dal vocabolario, combina, costruisce, evoca larve, gioca con i sadolanguori e le masodelizie della lingua26.
Prendiamo il seguente passo come esempio del processo creativo del romanziere, alter ego del Manga (se non il Manga stesso, trattandosi pur sempre di un taccuino):
L’italiano è difficile. Apro a caso il vocabolario: viene fuori «fascio». Lo ambiento nel 1936? Una idea. Lui è un buon ragazzo. Ma lei. Lui ha dei dubbi. Ma lei. Lui è un semplice. Ma lei. No. Riapro il vocabolario: «arazzeria». Bene; potrei descrivere un ambiente un poco dannunziano, losanghe d’oro sulla moquette. Amplessi su soffici bukhara. Scopate di lapislazzuli. Tutto molto reazionario, molto fascista. Arazzi del tempo fascista. C’è molta retorica. Dovrei metterci anche un pederasta. I pederasti sono patetici, e molto tipici27.
In una rete di intrecci che sembra laboratorio centuriale (tornerò a breve su questo punto), Manganelli, dunque, immagina questa storia inserendo pian piano gli elementi canonici di un racconto avvincente. Raccoglie dal catalogo, combina i pezzi da gioco, riflette e allo stesso tempo si lascia trasportare dal caso dei lemmi. E inventa la storia di un romanzo da scrivere.
Il protagonista della storia, Roberto, è un romanziere. Egli scrive di sé come scrittore e della sua relazione con Teresa, e i protagonisti del suo romanzo si chiamano Oberto e Eresa. Qualche numero dopo, nell’elenco manganelliano, anche Oberto «scrive un romanzo antiromanzo sul suo amore con Eresa»28. Seguono in modalità concentrica il romanzo catastrofe di Berto, la poesia di Erto e il nonromanzo di Rto. Le combinazioni si fanno intense, subentrano altri personaggi (Elettra-Lettra-Ettra, Ermanno-Rmanno-Manno, Maria-Arìa-Rìa), lo scrittore si immedesima ogni volta in un altro scrittore. I personaggi si intersecano come se attraversassero le porte dei vari romanzi e, nel farlo, si autoconsumassero, perdendo a ogni entrata una parte di loro stessi: una lettera del loro nome. A questo punto, al numero 53 dell’elenco di scatole cinesi, l’io narrante, creatore dal nome integro, si autocommenta, si chiede le ragioni della deriva incontrollata del proprio romanzo, del romanzo – apparentemente – scritto da lui. Lo spontaneo crescere dell’individuo-testo travolge l’autore passivo, inerme, spaesato, diremmo, secondo un’autocitazione, disorientato. Il copione impazzisce, i personaggi di questa mise en abyme cominciano a uccidersi e a uccidere, l’autore sempre più inquieto comincia a porsi domande, infine scappa alla ricerca di protezione e il taccuino si s-conclude29.
Questa prova narrativa sembra avere, come dicevo, delle forti corrispondenze con Centuria. Ho riscontrato che Maria Corti, descrivendo il modus operandi combinatorio di Manganelli nel romanzo del 1979, presenta una situazione assolutamente analoga a quella del Taccuino: ciò conduce a ipotizzare che il racconto abbozzato di Ti ucciderò mia capitale sia alla radice, seppur in maniera inconscia e involontaria, dei cento piccoli romanzi fiume:
(…) a volte i pezzi di narrazione, assomigliando terribilmente ai pezzi del mondo, sono assoggettati allo stesso gioco combinatorio, divengono cioè la simbolica rappresentazione delle nostre possibilità di essere; si leggano tutti i testi dedicati al tema del possibile incontro fra il signore e una donna: lui l’ama e lei no, lei l’ama e lui no, i due potrebbero amarsi ma in un mondo parallelo, i due potrebbero incontrarsi, ma vi sono infinite, imprevedibili situazioni di incontro mancato, i due non si amano, ma incontrandosi ogni giorno per caso sono incappati in una sorta di molesta e astratta frequentazione30.
Come nei vari piccoli racconti così in Taccuino, i personaggi risultano essere uno protesi e allungamento dell’altro, allegoria delle parole pescate nel vocabolario, allegoria del gioco di incastri del romanzo. Come, poi, il dio-testo impazzisce alla fine del Taccuino, allo stesso modo la conclusione di questo romanzo perechiano sembra essere altrettanto apocalittica.
Nell’ultimo piccolo romanzo-fiume, Cento, l’autore si lascia andare, seppur contraint, a questa ancor infinita e allo stesso tempo compressa profezia della letteratura. Anzitutto, egli descrive tutti gli scrittori a sua immagine e somiglianza. Scrittori che professano come unico contenuto della letteratura la letteratura stessa. Scrittori che scrivono solo di altri scrittori. Ecco, dunque, che Manganelli non esiste, mentre lo scrittore all’interno delle opere, il suo io letterario che sottostà al potere assoluto del linguaggio, è onnipresente.
Ma passiamo alla lettura di Cento:
Uno scrittore scrive un libro attorno ad uno scrittore che scrive due libri, attorno a due scrittori, uno dei quali scrive perché ama la verità ed un altro perché ad essa è indifferente. Da questi due scrittori vengono scritti, complessivamente, ventidue libri, nei quali si parla di ventidue scrittori (…) I ventidue scrittori producono, complessivamente, trecentoquarantaquattro libri, nei quali si parla di cinquecentonove scrittori, giacché in più d’un libro uno scrittore sposa una scrittrice, ed hanno tra tre e sei figli, tutti scrittori (…) I cinquecentonove scrittori scrivono ottomiladue romanzi, nei quali figurano dodicimila scrittori, in cifra tonda, i quali scrivono ottantaseimila volumi, nei quali si trova un unico scrittore, un balbuziente maniacale e depresso, che scrive un unico libro attorno ad uno scrittore che scrive un libro su uno scrittore, ma decide di non finirlo, e gli fissa un appuntamento, e lo uccide, determinando una reazione per cui muoiono i dodicimila, i cinquecentonove, i ventidue, i due, e l’unico autore iniziale, che ha così raggiunto l’obiettivo di scoprire, grazie ai suoi intermediari, l’unico scrittore necessario, la cui fine è la fine di tutti gli scrittori, compreso lui stesso, lo scrittore autore di tutti gli scrittori31.
Il racconto rasenta la distopia. Il lettore si immagina una continua creazione, ma non si ha il tempo di girar pagina che questa già tramuta in irreparabile catastrofe, in annientamento. Ed è chiaro che qui l’atto dello scrivere ha a che fare con la morte, con la distruzione, con il mondo infernale dove altre regole attendono gli ospiti. Questi scrittori non hanno nomi, scrivono tutti le stesse cose, poiché scrivono di altri scrittori. Questi scrittori non hanno firma né identità.
In questa sede si supera il concetto barthesiano di morte dell’autore, che lascia il posto alla ricezione del lettore. Si arriva a un momento di scomparsa di tutto un universo parallelo a quello reale, quello della fantasia su carta, quello dell’illusione narrativa: infatti, non muore solo l’autore, muore lo scriba, muore lo scrivano «messaggero del nulla»32.
Ed è in quest’ottica, con la consapevolezza che l’opera narrativa manganelliana agisce costantemente in senso metaletterario, che risulta indispensabile rivolgere uno sguardo verso la critica, soprattutto quando vi è la certezza, come secondo dichiarazione di Manganelli, che letteratura e critica non differiscono.
Prendiamo, ad esempio, un brano della postfazione a La vera vita di Sebastian Knight di Vladimir Nabokov, il quale risulta quasi identico, per scelta lessicale e dichiarazione teorica, all’incipit di Cento:
Un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia: di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, ed anzi l’unica vera “notizia” è che Sebastian Knight, scrittore, ha scritto dei libri33.
Lo scrittore di Cento è sostanzialmente il V. nabokoviano trasferito in un contesto millenaristico, in un ultimo piccolo romanzo-fiume che sfocia nel mare di un giudizio universale annunciante la fine della letteratura. Egli ha il potere di maneggiare le parole, ma d’altra parte ha accesso solo all’enigma, all’ovvietà indecifrabile. E così il fool, attraverso la sua personalità di provocatore noncurante, attraverso la sua spregiudicatezza, la sua mancanza di responsabilità, è l’unico che può, come uno Sterne o un Didimo Chierico, non aver nulla da raccontare e trovare le parole per un libro intero («con l’unghia scrivi il tuo nulla:/ a capo»34).
Lo scrittore con quest’aspetto è descritto in moltissimi lavori manganelliani, distanti nel tempo e nel genere: egli è lo scriba di cui parla nella prefazione alle Opere scelte di Poe35, è l’autore di Un libro o il «vile amanuense»36 che trascrive il Discorso dell’ombra e dello stemma (1982), che non a caso ha come sottotitolo «o del lettore e dello scrittore considerati come dementi», è il «trascrittore notarile dei rumori di fondo, il fruscìo infinito della dissimulazione»37 di Encomio del tiranno (1990).
Si prenda, allora, proprio quest’opera, l’ultima di Manganelli pubblicata in vita, come mezzo per concludere questo scritto in un modo circolare, dall’inizio alla fine della sua produzione. Encomio del tiranno è, più di altri testi, una dichiarazione della teoria manganelliana sulla scrittura, sulla lettura, sul testo. In un continuo autocommento, in un’«autochiacchiera», come lo stesso Manganelli definisce le proprie riflessioni in un appunto del 5 febbraio del 195538, l’autore prosegue mai sazio, ossessionato e ripetitivo, nella spiegazione di come funziona la scrittura, di come funziona la Letteratura. In un costante dialogismo che esalti la funzione fàtica del linguaggio39, egli parla sempre a un se stesso mascherato, a «quel noi che sono io»40, lettore e scrittore, in un dibattito costante tra frammenti dell’essere che entrano spesso in contraddizione l’uno con l’altro.
Se dunque Scrivere storie umane era un vademecum, Encomio si colloca à rebours, in posizione idealmente dialogica con lui. Manganelli, con la sua ironia dissacrante, da «clown demonico»41, ci ricorda tutto quello che ha sempre sostenuto nel suo privato: la letteratura come gioco e infinito enigma, l’idea di un libro come «dizionario smembrato»42 in cui le parole si succedono nella pesca inconsistente dei suoni, in cui unica legge deve essere quella fonica, in cui lo scrittore deve avere il coraggio, la «ferocia» di rinunciare a scrivere storie, a raccontare fatti «come se esistessero fatti»43.
Ecco dunque che, con una prospettiva trasversale e compiendo un’analisi linguistica e tematica, si è tentato in questa lettura critica di mostrare come il pensiero di Manganelli e la sua modalità di enunciazione rispettino un’interna coincidentia oppositorum e al contempo una perseveranza di giudizio. Nella pressoché totalità delle opere, i soggetti enuncianti sono contraddittori, onnipotenti e inesistenti, parassiti del libro e allo stesso tempo suoi sudditi. Essi mutano facies ma non identità, poiché, come il loro creatore, già in possesso per gènesi di un io multipolare.
- G. Pulce, Lettura d’autore. Conversazioni di critica e di letteratura con Giorgio Manganelli, Pietro Citati e Alberto Arbasino, Roma, Bulzoni, 1988, p. 100. ↵
- Ibidem. ↵
- L’archeologia del critico è il titolo del saggio prefatorio di Viola Papetti al secondo volume di G. Manganelli, Incorporei felini, 2 voll.: I, Poeti inglesi degli anni ’50; II, Recensioni e conversazioni radiofoniche su poeti in lingua inglese (1959-1987), a cura di V. Papetti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. ↵
- F. Francucci, “Splanamento dell’angosciastico”? Appunto sull’archeologia manganelliana, in G. Manganelli, Poesie, a cura e con un saggio di D. Piccini, postfazione di F. Francucci, Milano, Crocetti, 2006, p. 347. ↵
- Cfr. l’introduzione di Daniele Piccini e la postfazione di Federico Francucci a G. Manganelli, Poesie, op. cit.; F. Milani, Giorgio Manganelli. Emblemi della dissimulazione, Bologna, Pendragon, 2015. ↵
- Cfr. L. Scarlini, Dialogo notturno: un palcoscenico per Giorgio Manganelli, introduzione a G. Manganelli, Tragedie da leggere, a cura di L. Scarlini, Milano, Bompiani, 2008. ↵
- Scrivere storie umane è stato scritto tra l’aprile e il maggio del 1960 e pubblicato postumo in «La Rivista dei Libri», maggio 1992. Appunti di un uomo disorientato è stato scritto da Manganelli il 3 aprile 1960, come da sua datazione. Il titolo in un primo momento era Appunti di un uomo nervoso. ↵
- Cfr. S. S. Nigro, Il laboratorio di Giorgio Manganelli, postfazione a G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, a cura di S. S. Nigro, Milano, Adelphi, 2011, p. 372. ↵
- G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, op. cit., p. 100. Le tre donne sembrano richiamare quelle del Caso del commentatore fortunato in Nuovo commento (1969). ↵
- Ivi, p. 101. ↵
- Ivi, p. 109. ↵
- Ivi, p. 101. ↵
- G. Manganelli, Letteratura come menzogna (1967), Milano, Adelphi, 2004, p. 57. ↵
- G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, op. cit., p. 99. ↵
- G. Manganelli, Hilarotragoedia, Milano, Adelphi, 1964, risvolto di copertina. ↵
- G. Manganelli, La penombra mentale. Interviste e conversazioni (1965–1990), a cura di R. Deidier, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 29. ↵
- G. Manganelli, appunto del 6 gennaio 1953, in Id., Da Appunti critici, 1948-1956, a cura di A. Cortellessa, in Giorgio Manganelli, a cura di M. Belpoliti e A. Cortellessa, «Riga», n. 25, 2006, p. 79. ↵
- Cfr. M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Milano, Il Saggiatore, 2017, in particolare le pagine dedicate a Manganelli, pp. 684-93. ↵
- G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, op. cit., pp. 91-93. ↵
- Il racconto si conclude così: «Ma tutto questo è self-pity! Disgustoso! È proprio self-pity» (ivi, p. 94). ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. Il corsivo è mio. ↵
- Ivi, p. 268. ↵
- P. Citati, Giorgio malinconico tapiro, in Giorgio Manganelli, op. cit., pp. 256-61. ↵
- Sadolanguori e masodelizie è il titolo di un articolo di Manganelli del 1981 sul Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo, raccolto ora in G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 1994, pp. 171-72. Vi si segnalano gli articoli raccolti sotto la voce Cataloghi e dizionari, in cui Manganelli manifesta la devozione per il Vocabolario come fonte di creazione iperlinguistica. ↵
- G. Manganelli, Ti ucciderò mia capitale, op. cit., p. 270: il corsivo è mio. ↵
- Ivi, p. 272. ↵
- Il racconto è interrotto con la frase «Vado a mettermi sotto la protezione di» (ivi, p. 281). ↵
- M. Corti, Gli infiniti possibili di Manganelli, in Giorgio Manganelli, op. cit., p. 246. ↵
- G. Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume (1979), a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 1995, pp. 215-16; il corsivo è mio. ↵
- G. Manganelli, Lo scrivano misterioso, in «Tuttolibri», 17 febbraio 1979, n. 6, p. 11, pubblicato in appendice a L. Torti, Dear Bunny, Dear Volodya, Dear Manga: le postille di Manganelli a Nabokov e Wilson, tra proiezione e riconoscimento, in «Avanguardia», a. 22 (2018), n. 66, pp. 106-108. ↵
- G. Manganelli, De America. Scritti e divagazioni sulla cultura statunitense, a cura di L. Scarlini, Milano, Marcos y Marcos, 1999, p. 108. Per un saggio del rapporto tra Manganelli e Nabokov mi permetto di rinviare al mio articolo Dear Bunny, Dear Volodya, Dear Manga: le postille di Manganelli a Nabokov e Wilson, tra proiezione e riconoscimento, op. cit., pp. 75-93. ↵
- G. Manganelli, Poesie, op. cit., p. 185. ↵
- Cfr. G. Manganelli, Angosce di stile, Milano, Rizzoli, 1981, p. 98. ↵
- G. Manganelli, Discorso dell’ombra e dello stemma (1982), a cura di S. S. Nigro, Milano, Adelphi, 2017, risvolto di copertina. ↵
- G. Manganelli, Encomio del tiranno, Milano, Adelphi, 1990, p. 113. ↵
- Cito da S. S. Nigro, Il laboratorio di Giorgio Manganelli, op. cit., p. 370. ↵
- La funzione fàtica dell’opera manganelliana è stata evidenziata da Mario Barenghi in M. Barenghi, Narrazione, in Giorgio Manganelli, op. cit., pp. 408-25. ↵
- G. Manganelli, Quel noi che sono io, 14 gennaio 1982, ora raccolto in Id., Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio, casi clinici, psicologia del profondo. Scritti 1969-1987, a cura di E. Trevi, Roma, Quiritta, 2001, pp. 83-86. ↵
- A. Baldacci, Sabba, in Giorgio Manganelli, op. cit., p. 477. ↵
- G. Manganelli, Encomio del tiranno, op. cit., p. 53. ↵
- Ivi, p. 61. ↵
(fasc. 21, 25 giugno 2018)