Non l’ho mai conosciuto.
Io lo sento un compagno.
Anche lui ha insegnato
che vivere non è concludere ma incominciare.(Roberto Roversi, Descrizioni in atto – LX)
È stato fino in fondo un uomo del suo secolo, Velso Mucci, e del suo secolo, che fu detto il Secolo Breve per la parabola tesa e bruciante, egli ha incarnato sia le tensioni e le contraddizioni storico-politiche sia le attitudini espressive, complesse e polimorfe, che associano filosofia e poesia, engagement e vocazione artistica: un poeta, non esclusivamente né rigorosamente, ma essenzialmente un poeta, nel senso di una percezione del reale che da un personale nucleo emotivo sapeva diramarsi in pensiero e riflessione sui destini generali, questo è stato Velso Mucci.
La sua opera, a lungo rimasta sottotraccia e a rischio di oblìo, ricompare a cadenza e torna a interrogarci come possono soltanto le forme compiute (in sé concluse, sensate) nonostante una longeva dispersione e la natura centrifuga di un immaginario che si apriva in momentanei stati di equilibrio, per frammenti e interiezioni, ma tornava di continuo a sé stesso per fortificarsi o irrorarsi di realtà (l’asperrima, cruenta realtà del proprio tempo) e dunque per attingere una verità che non fosse soltanto la sua: semmai, come vollero gli antichi poeti, essa diveniva pane e cibo di molti, perché, quando Mucci dice di sentirsi appena un italiano del ‘900, in realtà ci sta dicendo di sentirsi solamente un uomo del tempo che gli è dato, cioè un uomo-massa, un singolo io gettato nel mondo che tre secoli di capitalismo hanno reso di tutti e di nessuno, un pidocchio o un astuto parassita della sua classe sociale, la borghesia, come amava definirsi ed era ancora un modo di dirsi poeta senza affatto proclamarlo.
Dobbiamo a pochi testimoni e compagni di via se la sua memoria oggi non è estinta (per esempio al suo maggiore studioso, Renzo Pepi, e allo scrittore Mario Lunetta) e specialmente ad Alberto Alberti1 che, coniugando filologia e pietas, prima ne ha salvato e inventariato il lascito documentario, poi ne ha promosso la ripubblicazione secondo un piano organico, dove si alternano e si integrano editi e inediti, che intanto ne recupera lo scartafaccio itinerante, un vero e proprio zibaldone di pensieri diversi, il quale va sotto l’insegna di Mercato delle pulci, beninteso un titolo d’autore.
Ancora da costruire un’organica bibliografia (e, c’è da immaginare, non sarà impresa semplice), tre ne sono gli epicentri visibili, le poesie raccolte da Natalino Sapegno in Carte in tavola (’68), i saggi politico-letterari che Mario Lunetta ha messo insieme in L’azione letteraria (’77) e il frammento di romanzo L’uomo di Torino (’67) curato da Valerio Riva in collaborazione con la vedova dello scrittore, l’indimenticabile Dora Broussard. Non è un caso si tratti di opere tutte fatalmente postume, a riprova della relativa nonchalance editoriale di chi, in vita sua, aveva sempre preferito il fare al già fatto ma non è neanche un caso si tratti di generi letterari dissimili e talora diametrali, a riprova della natura prismatica di un immaginario d’artista che, senza arrogarsi la qualifica di sperimentatore e meno che mai di avanguardista, sempre calcolava mezzi e fini dell’atto espressivo senza il pregiudizio di una poetica codificata e senza l’impaccio di un ruolo che pregiudicasse la medesima funzione intellettuale. Mucci, in altri termini, preferisce la chiarezza di una sua personale posizione nel mondo alla sicurezza e agli alibi di uno schieramento: o meglio ancora, il suo schierarsi (l’essere un marxista, un comunista, la scelta di iscriversi al Pci e divenirne un funzionario dirigente) appare l’esito a lungo meditato di un posizionamento, un atto di pura necessità e non il risultato di una riflessione a freddo o di una premeditazione.
Per Mucci scrivere è perseguire una verità fondata tanto nelle penombre di una lunga e tormentata vicenda personale quanto nella luce soverchiante di una condizione storica e di classe, come dicono i versi, e alcuni tra i più alti del nostro dopoguerra, del poemetto Dell’amore e di qualche altra passione o del testamentario Tempo e maree, dove storia e biologia si incrociano per ritrovarsi in una clausola di potente esattezza: «ma quali anni abbiamo dovuto battere/ e che pensieri torcere/ nei nostri crani terrosi». È una verità per così dire d’ordine paradigmatico, sull’asse verticale della lirica (sia pure di una lirica in certi passaggi associabile all’epica), che arriva a proiettarsi sull’asse sintagmatico della prosa di romanzo, se L’uomo di Torino non è altro che un romanzo di formazione in cui la biografia individuale (un destino e persino un atavismo di classe e di ceto) si incontra con l’autobiografia nazionale rappresentata dal regime fascista, lì fissato in una rappresentazione unicellulare e quasi da laboratorio. La vocazione leopardiana alla verità, nuda e senza infingimenti, la lezione marxista che addita un altro ordine di verità sovra-individuale fermentano (e si parlano, senza mai confondersi) in un laboratorio critico di cui Mercato delle pulci registra puntualmente l’itinerario accidentato ma non meno limpido nella sua dialettica interna. Se una volta Roberto Longhi aveva affermato, con un’invenzione delle sue, che critici si nasce e scrittori si diventa, ciò letteralmente si attaglia alla parabola di Velso Mucci, il cui approdo, assolutamente moderno, è un’idea (una pratica) della scrittura come perpetua disamina, filtro e dialogo, come costante messa a punto e calibratura rispetto a se stesso e alla complessità del reale, perciò un’idea e una pratica della scrittura come critica in atto dell’esistente che lo scrittore chiama “dialogismo”, riconoscendovi il nucleo più fervido e riposto dell’attitudine all’espressione, anzi il dato che ne giustifica da sempre l’esistenza. Un concetto che negli anni tardi deve avere a lungo discusso con Galvano della Volpe (definito «scarpe fini e cervello grosso» nel suo zibaldone), il grande filosofo materialista che volentieri lo riceve al tavolo di un bar di piazza Vescovio dove, ostile ai senati accademici, egli ama tenere cattedra:
Il dialogismo – se il lettore ce lo consente – è un procedimento poetico che, da un primo gruppo di parole generate da una emozione singolare, si spinge attraverso complessi di espressioni provocate da quel primo nucleo emotivo e sillabico e dalla folla delle sue ripercussioni, fino a un nodo che ne forza il limite e la saturazione, e al tempo stesso ne forza l’apertura in una sfera più ampia di sensi, in una sfera di determinazioni liriche più dense e portanti, nella quale infine anche gli elementi del nucleo iniziale si muovono e acquistano un significato più profondo.
È inevitabile leggere Mercato delle pulci (incluse le appendici di pagine rare e disperse) anche alla stregua di un promemoria e, virtualmente, di una biografia intellettuale. Spirito nativamente critico, Mucci sa che ogni incontro equivale a un banco di prova ovvero a uno specchio ustorio da cui dedurre e valutare un’immagine di sé o, al contrario, rigettare quanto vi si manifesta incongruo e refrattario. Bohèmien per elezione paterna, radicato invece per tradizione materna, la sua vita troppo breve tradisce una dinamica ambivalente, di stasi e fughe recidive, punti fermi e zone telluriche, come bene evidenzia il decorso e la costruzione per addendi di Mercato delle pulci. È possibile fissarne la toponomastica che ogni volta si lega all’onomastica dove si profilano in retrospettiva le stazioni capitali, così come gli amici e i maestri: Torino 1931, la redazione del «Selvaggio» di Mino Maccari, l’amicizia coi pittori ed in particolare col perfetto intenditore di nebbie e di ombre che fu Spazzapan; Parigi 1934, la galleria sulla Rive Gauche gestita con suo cugino Sandro Alberti, l’amicizia di De Pisis, di Pablo Picasso e di Paul Eluard, colui che in versi diede alla rivoluzione il nome del suo amore; Roma 1945 e le grandi speranze del dopoguerra, di nuovo fra pittori e poeti, specie Vincenzo Cardarelli e Leonardo Sinisgalli, la fondazione della rivista «Il Costume politico e letterario» e la creazione di un oggetto unico, rimasto leggendario nella memoria degli intenditori, il Concilium Lithographicum; Bra 1956, il ritorno alla couche materna, l’immersione nel lavoro politico da antistalinista e cane sciolto maoista, la direzione di un periodico ufficiale del Pci, «La Voce di Cuneo»; infine, qualche libro a stampa e qualche riconoscimento più o meno ingeneroso, il sogno di trasferirsi a Pechino da corrispondente dell’«Unità» e il viaggio terminale a Londra, dalle parti di Kensington Gardens, per scrivere in pace un romanzo che potesse rammentare l’Ulisse di Joyce e intanto raggiungere il cuore di tenebra suo e, insieme, della storia italiana.
Sono luoghi e persone che intramano la vicenda di Mucci e riflettono un processo di metabolizzazione della scrittura come coscienza di esistere e lavoro di continuo posizionamento. L’atto della critica, nel senso etimologico che comprende il distinguere per valutare e giudicare sulla base di riferimenti storico-esistenziali e filosofico-politici, è il centro motore del suo prisma espressivo e, ancora una volta, è l’origine di un paradosso cognitivo: la luce che se ne dirama, infatti, è quella di una poesia che ci aspetteremmo “pura” dall’allievo di Leopardi e Cardarelli nello stesso momento in cui però la definisce nello zibaldone quale «massima impurità del linguaggio», perché, gli capita di aggiungere, la poesia «nasce dagli uomini e non dall’aria in cui essi si muovono»; d’altro lato, il genere multiplo, duttile e malleabile per eccellenza, il romanzo, da lui viene reputato uno spazio disponibile solo in quanto disertato e aleatorio, «una scatola di tempo» la cui forma plastica serve a strutturare la «geometria del tempo psichico». Anche per questo motivo, non solo e non tanto per un ipotizzabile sospetto ideologico, Mucci critico militante può avvalorare i versi bianchi e netti di un classicista mentre sdegna i romanzi mimetici e iper-ambientati come Il dottor Zivago e Il Gattopardo.
In un altro dei suoi aforismi ribadisce di sentirsi un «vecchio poeta» e un «filosofo nuovo», il che implica il mantenimento di una posizione e di una prospettiva umanistica, la quale rifiuta l’ideologia della crisi dell’umanesimo perché la traduce in un umanesimo consapevole dei suoi limiti storici e di classe. Nemmeno è un caso che in punto di morte Mucci sospettasse nella parola delle nuove avanguardie (in Italia il Gruppo 63) non la volontà, iscritta per esempio nella poetica di Edoardo Sanguineti, di trasformare il Mercato in Museo bensì l’intento, forse non completamente innocente, di mutare i reperti del Museo in valori di Mercato secondo un’obbedienza tipica dei «pronipoti in fiale di quei “cadaveri” surrealisti che furono, intorno al 1924, un gioco collegiale di critica del tardo linguaggio romantico-borghese». Quanto a ciò, volentieri aggiungeva che i neoavanguardisti avevano barbe lunghissime e del tutto accademiche. Per parte sua, come oggi attestano le pagine di Mercato delle pulci, da tempo si era persuaso che la critica della poesia potesse darsi solamente nella forma di una poesia della critica, e viceversa. A questo pensava, vale a dire un grumo insolubile di verità scaturita dall’esperienza di uno e tuttavia condivisibile da ognuno, quando brandiva la sua insegna primordiale, il verso celeberrimo di Lautréamont per cui tutta l’acqua del mare non basterebbe a lavare una macchia di sangue intellettuale. Che è il sangue stesso della poesia2.
- Alberto Alberti si occupa di ricerche storiche e della rivalorizzazione di figure trascurate del ‘900 come Velso Mucci (1911-1964), scrittore, poeta e critico, con l’organizzazione di convegni e la pubblicazione di opere inedite e rare. Nel 2012 ha curato l’edizione di Conoscete quest’uomo, raccolta degli Atti del Convegno per il centenario della nascita di Mucci, ricevendo il Premio Cesare Pavese, e promosso la riedizione del suo romanzo, L’uomo di Torino. Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, è uscito nel 2015. Collabora con diversi periodici letterari, come la rivista «Fermenti» di Roma e «l’immaginazione» di Manni Ed. Nato a Torino nel 1953, laureato in Medicina e chirurgia. ↵
- Il sangue intellettuale è la prefazione di Massimo Raffaeli al volume di Velso Mucci Mercato delle pulci (Scritti inediti e rari 1930-1963), edito a cura di Alberto Alberti nel 2015 per i tipi di Scalpendi Ed. in Milano: si ringraziano autore, editore e curatore per la concessione del testo a «Diacritica». Allo zibaldone di aforismi e pensieri di Mucci fa seguito una serie di scritti a carattere saggistico e letterario comparsi dal 1930 al 1963 su periodici come «Alfabeto», «Il contemporaneo», «La Fiera Letteraria», «Rinascita», «Le tre arti», «La Voce di Cuneo» e «Il Costume politico e letterario». Sono poi comprese le recensioni e le presentazioni scritte da Mucci per autori come Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, Arpino, Sibilla Aleramo, Riccardo Testa e Mario Tobino, e in particolare tutti gli scritti di Mucci su Vincenzo Cardarelli. La raccolta è completata con la riedizione delle sue prime opere, le Carte e altri scritti del 1940 e lo Scartafaccio 1930-1946. Una documentazione bio-bibliografica completa sullo scrittore è accessibile sul sito http://velsomucci.altervista.org/. ↵
(fasc. 20, 25 aprile 2018)