Kundera al cinema: l’incontro con Alain Resnais

Author di Simona Carretta

L’educazione artistica di un romanziere

Per la creazione di personaggi memorabili, per lo svelamento di alcuni grandi temi della modernità, per la sintesi di generi e registri diversi con cui ha innovato la forma del romanzo, certo; ma, se Milan Kundera occupa un posto unico tra i romanzieri, è innanzitutto per la lucidità con cui ha difeso la sua arte. Prima di lui Émile Zola, Henry James, Virginia Woolf, André Malraux, Nathalie Sarraute e molti altri hanno accompagnato la pratica del romanzo alla riflessione teorica. Kundera, però, è stato il primo ad assegnargli un preciso obiettivo conoscitivo sulla base di un fondamento estetico. Avverte nell’Arte del romanzo (1986) – il primo dei suoi quattro libri saggistici e quello in cui delinea per la prima volta la maggior parte delle sue intuizioni estetiche – che non bisogna farsi ingannare, quando si tratta della «conoscenza» del romanzo, dall’«aura metallica» di questa parola[1]. La possibilità di conoscenza che giustifica la ragion d’essere del romanzo non si riduce a una trasposizione narrativa di teorie già ideate sul piano filosofico o altrimenti scientifico. È, per così dire, una conoscenza di prima mano, che dipende dai suoi mezzi propri.

Per Kundera la missione di ogni artista è inventare delle forme che consentano di cogliere, in maniera ogni volta diversa, i suoi temi. Nel romanziere non vede semplicemente un narratore, ma in primo luogo un artista: egli non si limita a ideare delle storie, ma inventa personaggi e situazioni come materiali di una forma tramite cui scopre degli aspetti dell’esistenza non ancora sistematizzati dalle scienze[2].

Květoslav Chvatík ha ricordato che Kundera deve a Mukařovský e allo Strutturalismo praghese l’intuizione che «La funzione noetica del romanzo si realizza attraverso la sua funzione estetica»[3]. Lo stesso romanziere conferma la sua iniziale vicinanza a questo orientamento della critica «che agli inizi si era mostrato molto più concreto, meno gergale, più vicino all’arte e agli artisti di quanto non lo fu più tardi quando conquistò il mondo intero»[4]. Ma è anche a diretto contatto con gli stessi artisti che Kundera forgia le sue prime intuizioni di romanziere, maturate negli anni dell’effervescenza culturale che culmina con la Primavera di Praga.

Come molti sanno, Kundera ha spesso alternato diverse pratiche artistiche (sue sono, ad esempio, le illustrazioni di alcune copertine dei suoi romanzi)[5], ma sono due in particolare le arti inscritte nel suo DNA di romanziere. La prima è la musica. Kundera la incontra da bambino: figlio di un pianista allievo di Janáček, è avviato molto presto allo studio del pianoforte. Più tardi, struttura i suoi stessi romanzi secondo i procedimenti formali di quest’arte, che apprende studiando composizione con Pavel Haas e Václav Kaprál; in particolare la variazione su tema, che mutua da Beethoven[6], e il “contrappunto romanzesco”[7], che gli permette di alternare diversi registri del racconto, come quello realistico, onirico e filosofico. Sono questi i due modelli che ricorrono in quasi tutti i romanzi di Kundera e che, a seconda dei casi, egli declina in architetture più complesse, come la fuga o la sonata.

Modellare un romanzo secondo le strutture musicali per Kundera significa innanzitutto sostituire al principio classico dell’unità d’azione un’unità tematica, che gli permette di liberare la narrazione da ciò che percepisce come vecchie convenzioni (l’imperativo della verosimiglianza o le lunghe descrizioni) e, in generale, da tutto ciò che non è direttamente utile allo svelamento del tema. Nell’abbracciare la terminologia della musica Kundera sembra porre le basi di un nuovo Formalismo: è la musica a fargli capire che nell’arte la forma è sempre qualcosa di più di una forma. Nel romanzo trova, allora, il modo di praticare una musica intesa come «piacere della forma»[8], che così gli appare sgravata da quel lirismo che per Kundera come per Hegel imbriglia l’arte sonora.

La seconda arte che incide sulla formazione di Kundera è il cinema. La presa di distanza del romanziere non solo dalle convenzioni narrative più tradizionali ma anche dalle scuole novecentesche come quella “dello sguardo” (Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, Claude Simon ecc.), tutta fondata sulla «passione per la descrizione», può aver scoraggiato i critici a ricercare i rapporti tra Kundera e il cinema. Bisogna, però, ricordare che da giovane Kundera completa i suoi studi alla FAMU (l’Accademia di Cinema e Televisione di Praga), dove dal 1964 al 1970 lavora come docente, prima di Teoria del romanzo, poi di Sceneggiatura. Tra i suoi allievi, vi sono cineasti come Milos Forman, Věra Chytilová, Jiří Menzel e altri protagonisti della nouvelle vague del cinema ceco, i quali hanno spesso riconosciuto il loro debito con le lezioni di Kundera. Lo stesso romanziere beneficia dell’atmosfera creativa che si respira alla FAMU e non è un caso sia questo il periodo in cui redige le novelle di Amori ridicoli (1968), alcune delle quali vengono adattate per lo schermo[9]. Lo stesso Kundera scrive la sceneggiatura di Io, un povero diavolo (1969, regia di Antonín Kachlík) – tratto da una novella di Amori ridicoli che in seguito sarà eliminata dalla raccolta – e dello Scherzo, il film che Jiří Jireš trae dal suo romanzo del 1967[10]. Come la musica, l’arte cinematografica esercita però un’influenza anche sull’immaginazione del romanziere: Chvatík ha, ad esempio, messo in luce la «suggestività visiva»[11] della prosa kunderiana, in grado di concretizzare la descrizione di una scena attraverso pochi dettagli essenziali. A parte alcuni cenni è, però, mancata finora nella critica una considerazione dei rapporti tra Kundera e il cinema condotta da un punto di vista estetico, finalizzata cioè a comprendere cosa esattamente Kundera abbia tratto dal cinema di essenziale per lo sviluppo della sua arte del romanzo.

Nel segno della polifonia: l’incontro con Resnais

Per capirlo compiamo un salto fino all’autunno del 1983. Kundera vive ormai da qualche anno con sua moglie in Francia – prima a Rennes, dopo a Parigi – e ha da poco terminato il romanzo che lo renderà celebre in tutto il mondo, L’insostenibile leggerezza dell’essere (tradotto da François Kérel, uscirà in Francia nel gennaio del 1984). In un’intervista rilasciata a Christian Salmon dichiara:

La polifonia nel romanzo è poesia più che tecnica. Non riesco a trovare esempi di questa poesia polifonica nella letteratura, ma mi hanno molto colpito gli ultimi film di Alain Resnais. Il suo uso dell’arte del contrappunto è ammirevole[12].

Il riferimento a Resnais sarà espunto quando l’intervista confluirà nell’Arte del romanzo con il titolo Dialogo intorno all’arte della composizione[13], ma la sua presenza nel testo originario resta come una traccia della sintonia che Kundera avverte tra il suo universo estetico e quello del regista francese in anni che si riveleranno decisivi per lo sviluppo della sua poetica.

Gli «ultimi film» di Resnais a cui si riferisce non possono essere altri che Mio zio d’America[14] (1980) e La vita è un romanzo[15], questo uscito nell’aprile del 1983. In entrambi i casi la presenza del modello polifonico è evidente. Nel primo risulta dallo sviluppo alternato di tre storie, rispettivamente incentrate su tre personaggi in qualche modo relazionati tra loro ma molto diversi per estrazione sociale – il deputato Jean Le Gall, l’attrice di teatro Janine Garnier e l’impiegato René Raguneau –, le cui vite vengono mostrate dall’infanzia alla maturità come altrettanti casi di studio riferiti alle teorie di Henri Laborit. Ma è soprattutto La vita è un romanzo il film la cui costruzione polifonica raggiunge effetti analoghi a quelli dei romanzi kunderiani. Ciò è stato osservato anche da Wolfram Schütte che, scrivendo di Kundera nel 1984, osserva: «i film di Alain Resnais (La vita è un romanzo) sono quanto c’è di più vicino al suo lavoro di composizione»[16]. Come il precedente, il lungometraggio del 1983 alterna lo sviluppo di tre storie, che però in questo caso sono associate dalla sola circostanza che ruotano tutte intorno a uno stesso castello di campagna e dal fatto che, per una sottile rete di corrispondenze ironiche, sembrano l’una il rovescio dell’altra.

La prima prende avvio alla vigilia della Prima guerra mondiale: il ricco aristocratico Forbeck raduna un gruppo di amici per svelare loro il plastico di un sontuoso castello in via di costruzione che intende regalare a Livia (Fanny Ardant), la donna di cui è innamorato. Dopo la guerra la ritrova, però, sposata con Raoul, un ufficiale dell’esercito, e architetta un tranello per sbarazzarsi del rivale. La seconda vicenda ha luogo circa sessant’anni dopo. Il castello è diventato la sede del collegio di Madame Holberg: terminato l’anno scolastico, gli studenti tornano a casa e il collegio ospita per qualche giorno un convegno di psicopedagogia per l’infanzia dal titolo L’educazione dell’immaginazione. Vi partecipano studiosi di ogni genere: tra questi l’architetto playboy Walter Guarini (Vittorio Gassman), la timida e seria insegnante Élisabeth Rousseau (Sabine Azéma), un istitutore in grado di scorgere l’aspetto ridicolo di ogni teoria (Pierre Arditi) e una simpatica antropologa americana (Géraldine Chaplin) che intende verificare le sue ciniche tesi sull’amore tentando di far scoccare la scintilla tra i personaggi più impensabili. Presto, però, gli eventi assumono una piega inaspettata. Livia si rifiuta di bere la pozione “della felicità” che Forbeck offre a tutti gli amici, invitati nel castello, e scopre cosa si nasconde dietro il suo progetto in apparenza filantropico. Ma anche il convegno di pedagogia degenera in una baraonda e, come Forbeck, l’antropologa vede gli amici sfuggire al suo piano: Élisabeth Rousseau lascia il collegio non con l’uomo che le era stato predestinato ma con Walter Guarini, di cui l’antropologa è segretamente innamorata.

La sola vicenda che volge in un indiscusso lieto fine è la terza. Questa prende forma da una fiaba dal sapore medievale che i pochi bambini rimasti nel collegio si raccontano per passare il tempo: il figlio di un re viene salvato da un attacco dei nemici e, una volta cresciuto, riesce a riconquistare il regno. È forse il libero corso dei giochi infantili l’unica forma possibile di “educazione dell’immaginazione”? Il confronto tra le storie fa emergere diversi sensi possibili del tema a cui il film è intitolato. Per l’alternanza dei registri (melodrammatico, comico e fiabesco) e degli universi temporali in cui si inscrivono le tre vicende, La vita è un romanzo sembra anticipare alcune delle soluzioni formali più mature di Kundera, che proprio a partire dai romanzi successivi (come L’immortalità, 1990) accentuerà, ad esempio, lo sfondo «sovrapersonale» in cui sono collocati i suoi personaggi, per il quale attorno a essi si sviluppano variazioni di carattere mitico o storico. Non sembra, però, avere tanto senso parlare di un’influenza vera e propria di Resnais su Kundera quanto di un’affinità estetica tra i due autori, che emerge in alcuni casi concreti.

Bisogna ricordare che Resnais riconosce a sua volta in Kundera un modello di riferimento valido per la sua intera filmografia[17]. A unire i due autori è probabilmente la convinzione che, nell’arte, la strada per la conoscenza procede dall’invenzione compositiva; e al riguardo non sembra un caso che, oltre a Kundera, il principale ispiratore di Resnais sia un compositore, Stephen Sondheim. A coloro che lo rimproverano di non fare film “impegnati” risponde ribadendo di essere un «formalista», ossia di partire sempre da un’invenzione formale nel progettare un film. Questo perché:

quando non si vuole partire che dal contenuto, nel mio caso – non voglio generalizzare – in generale è sterile. Ho avuto sicuramente dei progetti che chiamo progetti “verteux”, con delle grandi idee nobili, e dopo quaranta, cinquanta pagine, sono arrivato a delle cose di costernante banalità e che non facevano nascere dei personaggi […] è quando cominciano a dire delle cose che ci dispiace che cominciano a esistere[18].

Nel recente volume Kundera e Fellini: l’arte di non incontrarsi (2020), Stefano Godano ha descritto come un incontro mancato il rapporto tra i due grandi artisti che, pur essendosi espressi più volte reciproca ammirazione, non entrarono mai in diretto contatto. Interrogato dal giornalista, Kundera ne attribuisce il motivo al medesimo sentimento di riverenza già nutrito verso i due grandi maestri a cui in un articolo aveva paragonato Fellini[19]: «Se Kafka venisse per tre giorni sulla terra non avrei la forza d’incontrarlo e così sarebbe con Heidegger»[20]. Dietro queste parole si avverte, però, anche la riluttanza a forzare un rapporto che aveva già dato i suoi frutti sul piano immaginativo.

Si tratta della poesia degli incontri mancati, che riguarda, però, l’esperienza di ogni incontro, se lo intendiamo nel suo senso più vero. Questo è rivelato da Kundera come un esempio ulteriore delle parole-tema che il romanziere pone al centro di tutti i suoi libri, spesso ispirandovi anche i titoli. Ricordando l’incontro a Haiti tra André Breton e gli scrittori Jacques Stephen Alexis e René Depestre, che fu «insieme fugace e indimenticabile», nel saggio Un incontro (2008) lo precisa: «ho detto incontro; non frequentazione; non amicizia; e neppure alleanza; incontro, cioè: scintilla; lampo; caso»[21].

L’occasione di un incontro di Kundera con Resnais si concretizza intorno al lavoro per un film, di cui il romanziere avrebbe dovuto curare la sceneggiatura. Annunciandola come «una farsa metafisica», è lo stesso Kundera a scherzare sulla segretezza del titolo, ancora provvisorio, in un’intervista del 1985 con Olga Carlisle: «Dovrebbe essere ‘Tre mariti e due amanti’ o ‘Due mariti e tre amanti’ ?»[22]. Ma a partire da questa data il romanziere smette di concedere interviste e, quindi, è solo grazie ad alcune dichiarazioni rilasciate in seguito da Resnais che possiamo seguire le tracce di questo film perduto.

L’idea di lavorare a un progetto comune comincia a prendere vita nel 1981, ma è solo nel febbraio del 1985 che Kundera invia a Resnais le prime pagine di una sceneggiatura[23]. Nell’incipit, Kundera la presenta come una «polifonia a due voci» che intreccia due storie «divertenti, nella tradizione boccaccesca» ma non prive di «una certa malinconia e dello scetticismo tipici del nostro secolo». Una è ambientata nel Settecento; l’altra corrisponde alla trama di Il dottor Havel dieci anni dopo (una novella pubblicata nella raccolta originaria di Amori ridicoli, prima che Kundera ne modificasse il contesto temporale trasformandola in Il dottor Havel venti anni dopo). La sceneggiatura, però, non procede oltre le prime trenta pagine e così è Resnais a sintetizzarne gli aspetti salienti nel 1993, quando il progetto del film è ormai tramontato:

Questo riguardava l’idea dell’immagine, l’importanza che si attribuisce all’immagine di ciò che si crede di essere nella vita. Non siamo molto lontani dai personaggi di Pirandello. L’intenzione era sapere: cos’è meglio, aver trascorso una bella notte d’amore con una donna che si ama, a patto che nessuno al mondo ne venga a conoscenza, o non aver avuto nessun rapporto con questa donna ma riscuotere l’invidia e i rallegramenti di tutta la città, poiché le voci di corridoio affermano il contrario? Alternavamo due epoche, il periodo contemporaneo e il XVIII secolo. Ne approfittavamo per abbandonare la trama, disperderci in altre direzioni, e poi tornare. Avevamo un interesse in comune per i romanzi come Jacques le Fataliste, Tom Jones o Tristram Shandy, in cui si lasciano da parte i personaggi per ritornarci su. Si trattava di vedere se questa drammaturgia della digressione potesse essere applicata al cinema[24].

Perché Kundera abbandona il progetto? Resnais ne attribuisce la causa alle diverse priorità del romanziere, il cui grande impegno profuso per ciascuna delle sue opere («so che gli costa molto scrivere»)[25] lo costringe a dedicarsi solo ai suoi saggi e ai romanzi. Verosimilmente però entrano in gioco anche altre ragioni. Nel 1988 esce il film dell’Insostenibile leggerezza dell’essere nella regia di Philip Kaufman, con Daniel Day-Lewis e Juliette Binoche (nel cast l’unica, come sarà notato, a incarnare l’atmosfera del romanzo)[26]. Un adattamento che riduce tutta la complessità del romanzo, il suo intreccio di storie, motivi e registri, alla sola esposizione del triangolo amoroso tra Tomáš, Tereza e Sabina, importante ma non fondamentale al fine dell’esplorazione dei temi.

Kundera ne prende le distanze, ravvisandovi una sconfessione delle idee sugli adattamenti che aveva espresso solo qualche anno prima in un testo che accompagnava la pubblicazione di Jacques e il suo padrone (1981), la sua commedia tratta da Diderot. Per essere “fedele” a un romanzo – scrive in Introduzione a una variazione[27] – un autore che intenda tradurlo in un’altra arte non deve essere fedele al plot ma a ciò che ne rappresenta la principale cifra artistica; non “adattarlo” quindi, ma “variarlo”, esibirne la diversità rendendo omaggio a ciò che lo rende un’opera di valore. Per questo, a partire da quel momento Kundera fa accompagnare l’uscita di tutti i suoi libri da una nota, riportata sul frontespizio delle edizioni in francese, che ne vieta ogni possibile adattamento e si assegna un nuovo programma estetico: scrivere solo romanzi che sia impossibile adattare. Difficile, però, che sia dovuta alla percezione del potere ambivalente del cinema la perdita di interesse per il progetto con Resnais, autore di film che «non si possono raccontare». È più probabile che su questa abbia pesato la grande attenzione di Kundera verso l’autonomia del suo lavoro di romanziere, che una collaborazione con un regista noto come Resnais avrebbe maggiormente esposto a indagini di carattere extra-estetico.

Oppure quello con Resnais è un “incontro”. Quindi non una collaborazione, non un’amicizia, non una fratellanza artistica, ma un evento incidentale e precario come tutti gli incontri: detonatore di promesse che restano nell’aria, ma il cui raggio continua a illuminare i singoli percorsi. Il lavoro di Kundera per il film con Resnais non sembra del tutto vano: il soggetto della sceneggiatura incompleta presenta diverse analogie con l’intreccio di un successivo romanzo di Kundera, La lentezza (1995), il primo che l’autore scrive direttamente in francese. Anche in quest’opera viene intrecciata a una vicenda che si svolge nei primi anni Novanta una seconda ambientata nel XVIII secolo.

Il narratore (alter ego dell’autore), in vacanza con sua moglie in un château-relais fuori Parigi, mentre riflette su un romanzo da scrivere, segue le avventure di alcuni studiosi in quei giorni lì riuniti per un convegno di entomologia: dal giovane Vincent, che seduce Julie per poterlo raccontare al suo ritorno, allo scienziato ceco dal nome che nessuno riesce a ricordare; dall’intellettuale Berck, «ballerino della società», alla giornalista di nome Immacolata. Al racconto delle gag cui i loro incontri danno vita il narratore alterna, sulla scia di un’evocazione nostalgica, quello dell’amore libertino al centro di Senza domani (il romanzo breve di Vivant Denon, apparso nel 1777), la cui conquista, frutto di un’abile arte del corteggiamento, viene presentata come un edonistico contraltare alla fretta performativa che oggi rischia di ridurre a un puro automatismo anche la ricerca del piacere[28].

Svariate sono, poi, le analogie con La vita è un romanzo. La lentezza fa ruotare delle storie ambientate in diversi universi temporali attorno a un castello di campagna: che il castello di Denon e quello in cui hanno luogo le peripezie degli entomologi possa essere lo stesso, come nel film di Resnais, è più volte suggerito dall’immaginazione del narratore. Inoltre, allo stesso modo che nel film, le diverse linee narrative che si intrecciano nel romanzo risultano circoscritte a tre filoni principali: sono tre infatti i personaggi – il narratore, Vincent e il Cavaliere di Denon – che nella fantasia accarezzata dal narratore abbandonano furtivamente il castello, all’alba dell’ultimo giorno, favorendo l’occasione di un confronto a viso aperto tra Settecento e Novecento, che ha luogo attraverso l’incontro inverosimile tra Vincent e il Cavaliere.

Kundera ha dichiarato di aver tratto la prima ispirazione del romanzo dal vecchio progetto di un saggio su Laclos e Denon[29]. Ma la somiglianza con La vita è un romanzo è indirettamente avvalorata anche da Guy Scarpetta che rintraccia dei paralleli tra La lentezza e il celebre film di Jean Renoir, La regola del gioco (1939): un film che Kundera dichiarerà di non aver visto[30], ma che è ben presente a Resnais come modello della Vita è un romanzo[31].

Vi è anche un altro elemento: La lentezza è il romanzo più ludico di quelli scritti fino a quel momento da Milan Kundera (sarà superato in questo solo dalla Festa dell’insignificanza, del 2013). Ciò non è solo dovuto al tono umoristico degli episodi che vi sono raccontati, ma anche ai numerosi contrasti ironici che consentono di riconoscere le associazioni tra i diversi piani narrativi. Massimo Rizzante ha osservato che la leggerezza formale esibita da Kundera nella Lentezza è il frutto del suo impiego di un nuovo modello compositivo, che a partire da questo ricorre in tutti i romanzi scritti in francese: la «fuga romanzesca». Si tratta ancora di un modello derivato dalla musica, che comporta «un’architettura altamente calibrata, dove la premeditazione della struttura non distrugge il carattere giocoso del romanzo, la libertà nasce dal rigore, la semplicità dalla complessità, l’improvvisazione dalla composizione»[32]. Lo stesso Kundera ammette di aver introdotto questa innovazione di carattere formale, che accompagna il passaggio dal ciclo dei romanzi scritti in ceco a quelli scritti direttamente in francese, alla ricerca di una struttura formale più agile: abbandona il modello della sonata, in cui aveva scritto la maggior parte dei primi romanzi, per quello della fuga, dove tutto è «creato da un solo nocciolo»[33].

Se La vita è un romanzo fosse davvero un romanzo di Kundera, sarebbe allora un romanzo di sintesi: nel film di Resnais, da un lato, le tre storie si avvicendano secondo un ritmo che ricorda quello dei movimenti delle sonate; dall’altro, queste sono tenute insieme da una fitta rete di motivi che assicura la godibilità dell’insieme. Vi è, dunque, un principio alla base, che bilancia questa complessa architettura. Sergio Arecco lo identifica nella presenza di un montaggio «polifonico», che renderebbe La vita è un romanzo il film più musicale di Resnais. Questa musicalità non dipende, infatti, dall’introduzione nel film degli inserti musicali, ma:

La polifonia, l’orchestrazione, la partitura e quant’altro stanno tutte nel continuum di per sé “musicale” delle immagini, armonizzate le une alle altre da un’ars combinatoria che ne sottolinea a ogni fluttuazione la dinamica frequenziale, la millimetrica prosodia, l’andamento frastico[34].

Questa polifonia realizzata come «sintassi» di «materiali eterogenei» ricorda quella di alcuni romanzi di Hermann Broch, ad esempio I sonnambuli. Kundera dichiara di aver tratto da Broch il suo principio del «contrappunto romanzesco», e su questa base lo accosta a Resnais nell’intervista con Christian Salmon. È allora possibile individuare a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta un periodo, di transizione per Kundera tra il ciclo dei romanzi scritti in ceco (i romanzi-sonata) e quello dei romanzi in francese (i romanzi-fuga), in cui il romanziere riflette in particolare sulle possibilità della polifonia, prima di esplorarle nella sua nuova forma romanzesca che sarà quella della fuga.

Il proposito di sondare una certa «drammaturgia della digressione», alla base del progetto con Resnais, viene a suo modo proseguito da Kundera, che, dopo il film dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, era deciso a scrivere solo romanzi irriducibili a uno storytelling, quindi “inadattabili” per un certo tipo di cinema. I film di Resnais lo stimolano a riflettere sulle diverse applicazioni possibili della polifonia[35] e, come già accaduto con la musica (il primo gene artistico del suo DNA di romanziere), lo stesso accade ora nel caso del cinema. Kundera è libero di allontanarsi dal cinema, una volta tratto da questo ciò che più gli interessa per proseguire il suo cammino di romanziere. Allo stesso modo in cui al suo esordio come romanziere aveva trovato nel romanzo il modo di praticare una sorta di arte musicale libera dalla sua componente lirica, una musica intesa quindi solo come «piacere della forma», in prossimità della sua svolta estetica trova il modo di realizzare attraverso il romanzo ciò che cercava nel cinema (il secondo gene artistico del suo DNA): un’arte del «montaggio polifonico», libera dalla riduzione a storytelling. Lirismo (inteso come la proiezione soggettiva della realtà) e storytelling (inteso come schema) sono, infatti, i due principali ostacoli per il romanziere che si dà il compito di far emergere attraverso i personaggi risvolti sempre concreti e diversi dell’esistenza.

Postilla. La vita è un romanzo

Nell’Insostenibile leggerezza dell’essere la metafora della vita come composizione è introdotta attraverso una digressione saggistica riferita al personaggio di Tereza. Ha appena conosciuto Tomáš. Il senso della bellezza indotto dall’amore nascente l’ha indotta a scorgere le numerose coincidenze che le sembra abbiano costellato le circostanze del loro incontro; a cogliere, così, la vita sotto la lente di una forma. Ciò consente al narratore di introdurre il paragone tra vita, musica e romanzo. Se i romanzi sono costruiti come delle composizioni è perché anche le esistenze sono così:

Sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale (la musica di Beethoven, una morte alla stazione) in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata[36].

Una simile associazione tra vita e composizione, musicale e romanzesca, si osserva nella Vita è un romanzo. Nell’ultima scena del suo film, felice di aver scoperto una sintonia con una donna così diversa da lui, Walter Guarini annuncia a Élisabeth Rousseau: «La vita è un romanzo!». A pochi metri di distanza però, un’amica che li vede andare via insieme biasima l’antropologa per il gioco finito male, smentendo l’affermazione di Guarini: «La vita non è un romanzo». Chi ha ragione? A quale genere di vita pensiamo, paragonandola a un romanzo? In seguito, Resnais chiarirà la natura squisitamente ludica del titolo scelto per il film, una risposta scherzosa a un modo di dire con cui suo padre lo ammoniva da bambino[37].

Ma se, prese singolarmente, nessuna delle vite mostrate nel film risulta pregna di quel significato esistenziale che si ricerca di solito in un romanzo, a meno di non intenderlo semplicemente come un happy end, è forse possibile scorgere un altro piano in cui questo viene raggiunto. A indicarcelo è la musicalità dei film di Resnais che – bisogna ricordare – agisce a un duplice livello. Il filosofo Bernard Stiegler si è soffermato sulla consuetudine dei personaggi resnaisiani di alternare parola e canto. Ciò capita anche ai personaggi della Vita è un romanzo, i cui improvvisi slanci canori sembrano far perdere loro consistenza realistica e respingerli in una dimensione emotiva e inconscia; si pensi a Élisabeth, che canta immaginando l’uomo dei suoi sogni, o ai cori di ammirazione sollevati durante l’esposizione degli interventi al convegno.

Secondo Stiegler, La vita è un romanzo anticipa in questo un altro film di Resnais in cui l’introduzione del canto assume una funzione più sinistra. Si tratta di Parole, parole, parole… (On connaît la chanson), uscito nel 1997. La caratteristica di questo lungometraggio rispetto ai precedenti è che a cantare non sono i personaggi stessi, mostrati alle prese con problemi ordinari, come l’acquisto di una casa, la discussione di una tesi di dottorato o dei litigi di coppia. Al loro eloquio si sovrappongono come dall’esterno brani di canzoni registrate, le più pop degli anni Ottanta in Francia (da Résiste di France Gall a Je suis venu te dire que je m’en vais di Serge Gainsbourg, a Paroles, paroles di Dalida e Alain Delon e molte altre), che i personaggi sembrano mimare come dei ventriloqui. Come se essi non controllassero il loro canto:

Vogliono parlare e qualcosa canta. Questi momenti di canto intervengono sempre negli snodi drammatici della sceneggiatura, e, in questo modo, i personaggi del film fanno propri i personaggi delle canzoni che cantano […] ne adottano in qualche modo lo stato d’animo[38].

Quello descritto è il medesimo spossessamento della coscienza in cui tutti precipitiamo quando siamo alle prese con i dispositivi estetici di carattere industriale che – spiega Stiegler – hanno la caratteristica di «coincidere, nel tempo del loro fluire, con il fluire del tempo delle vostre coscienze»[39]. Tramite questo espediente canoro Parole, parole, parole… rappresenta, quindi, l’appiattimento della coscienza sul tempo della canzone pop che, in quanto genere industriale riproducibile dalla macchina, orienta l’essere verso una logica preordinata e automatica.

Stiegler però mette in luce come proprio il cinema, che è insieme arte e «oggetto temporale industriale», sia il mezzo che più di altri ha la possibilità, smascherandolo, di liberare l’essere da questo assoggettamento automatico. Nella Vita è un romanzo gli inserti canori, spesso introdotti nella forma di cori o coretti, sembrano dare voce a una sorta di inconscio collettivo che esprime per lo più reazioni stereotipate e prevedibili. Il senso di questo sostrato musicale si chiarisce, però, solo se lo si considera nel contesto della costruzione generale, di carattere polifonico, che regge il film. Spiega Sergio Arecco:

Non sono certo i coretti l’equivalente concreto della logica polifonica. La logica polifonica sta nell’interconnessione delle tre vicende simmetriche assemblate dal film che il montaggio parallelo si sforza di fare combaciare infrangendo con una tale disinvoltura le barriere spazio-temporali […] da suggerire allo spettatore l’esistenza di un tempo altro rispetto ai tre tempi o periodi storici fatti interagire nel film[40].

Nella Vita è un romanzo abbiamo, dunque, una polifonia che si realizza sia sul piano cinematografico, come effetto di montaggio, che su quello prettamente musicale, come incontro di diverse “voci”. È solo nell’incontro generato dagli effetti di eco e corrispondenze che esse esprimono il loro senso. Seguire la traccia musicale permette, quindi, di cogliere il significato “romanzesco” del film, che non risiede in nessuna delle singole storie ma si può scorgere solo nel loro confronto a distanza di secoli; ci ricorda la possibilità di cogliere la vita come una composizione, o come romanzo. Ecco il senso ultimo dell’incontro tra Resnais e Kundera: entrambi assumono come tema stesso delle loro opere la possibilità dell’arte di farsi portatrice di un senso esistenziale.

  1. Cfr. la voce Bellezza (e conoscenza) in Sessantacinque parole, VI Parte del saggio di M. Kundera L’arte del romanzo [1986], trad. it. di E. Marchi/A. Ravano, Milano, Adelphi, 1988, p. 173.
  2. Dalla voce Romanziere (e scrittore): «Il romanziere non dà grande importanza alle proprie idee. È uno scopritore che, a tentoni, si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell’esistenza» (ivi, p. 203).
  3. K. Chvatik, Il mondo romanzesco di Milan Kundera [1994], trad. it. di S. Zangrando, Postfazione di M. Rizzante, In appendice quattro dialoghi di Milan Kundera, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2004, p. 171.
  4. Cfr. l’intero estratto dell’intervista concessa da Kundera a André-Alain Morello, p. 222: «Non mi interesso molto alla teoria e non utilizzo mai la sua terminologia, che del resto mi è spesso incomprensibile. I libri teorici che hanno avuto per me una certa importanza? La Teoria del romanzo di Lukács (un libro che ho scoperto prima di scrivere il primo romanzo) mi ha certamente incoraggiato a considerare il romanzo non come un genere letterario tra gli altri, ma come un’arte autonoma, un’arte con la propria ontologia, con le proprie problematiche, con la propria logica storica. Dopo la guerra, adolescente, ho ammirato Jan Mukařovský. Fu con Jakobson il fondatore del Circolo linguistico di Praga e dello Strutturalismo, che agli inizi si era mostrato molto più concreto, meno gergale, più vicino all’arte e agli artisti di quanto non lo fu più tardi quando conquistò il mondo intero. Negli anni Trenta Mukařovský scrisse degli ottimi studi critici sulla prosa e la poesia ceche (contemporanee e antiche, avanguardiste e non avanguardiste). Egli, estremamente attento alla pratica letteraria della propria epoca, veniva letto con la stessa attenzione dagli scrittori; li aiutò a diventare più consapevoli della forma di un’opera d’arte; più consapevoli della ‘struttura’, nella quale ogni elemento è legato a tutti gli altri e nessuno ha senso se preso autonomamente. Quell’epoca fu uno di quei rari momenti in cui la pratica e la teoria s’ispiravano reciprocamente e avevano molte cose da dirsi».
  5. Si veda al riguardo l’articolo di Vincenzo Trione pittore segreto, in «il verri», n. 71, 2019, pp. 21-33.
  6. Per una ricognizione riguardante gli impieghi della variazione su tema nell’opera di Kundera mi permetto di rinviare al mio libro Il romanzo a variazioni, Milano-Udine, Mimesis, 2019.
  7. Lo stesso Kundera ne offre una definizione nel Dialogo sull’arte della composizione, IV parte dell’Arte del romanzo, op. cit., p. 105.
  8. Cit. dalla Nota dell’autore per l’edizione ceca di L’immortalità (1993), trad. it. di M. Rizzante, in Milan Kundera, «Riga» n. 20, a cura di M. Rizzante, Milano, Marcos y Marcos, 2002, p. 252.
  9. Kundera ricorderà con piacere solo il film del 1969 tratto da Io, un povero diavolo (regia di Antonin Kachlik, sceneggiatura dello stesso Kundera), in seguito al quale deciderà di eliminare la novella originaria dalla raccolta, preferendole la versione cinematografica.
  10. Per queste e altre notizie si rimanda all’apparato biografico curato da François Ricard per M. Kundera, Oeuvre, 2 voll., Préface et Biographie de l’oeuvre a cura di F. Ricard, Paris, Bibliothèque de la Pléiade, 2017.
  11. Cfr. K. Chatik, Il mondo romanzesco di Milan Kundera, op. cit., p. 151.
  12. Cit. da Intervista con Milan Kundera [1983], trad.it. di I. Duranti, Introduzione di E. Trevi, Roma, Minimum Fax, 1999, p. 47.
  13. IV Parte di M. Kundera, L’arte del romanzo, op. cit., pp. 103-39.
  14. Titolo originario Mon oncle d’Amérique (1980), regia di Alain Resnais, sceneggiatura di Jean Gruault. Con Roger Pierre, Nicole Garcia, Gérard Depardieu, Henri Laborit, Pierre Arditi.
  15. Titolo originario La vie est un roman (1983), regia di Alain Resnais, sceneggiatura di Jean Gruault. Con Ruggero Raimondi, Sabine Azéma, Vittorio Gassman, Geraldin Chaplin, Robert Manuel, Pierre Arditi.
  16. W. Schütte, Saluto a un autore europeo [1984], in Milan Kundera, «Riga» n. 20, op. cit., p. 212.
  17. Cfr. F. Thomas, L’atelier d’Alain Resnais, Paris, Flammarion, 1989, p. 288.
  18. Cit. da A. Resnais, intervista pubblicata su «Cahiers du Cinèma», 1983, ora in Id., Il tempo della memoria, a cura di C. Paltrinieri, Reggio Emilia, Cinema «Italia» d’Essai, 1984.
  19. Si tratta dell’articolo Kafka, Fellini, Heidegger, in Heidegger, Fellini, l’Europe problématique, in «Le Messager européen», n. 1, 1987, pp. 134-36.
  20. S. Godano, Kundera e Fellini. L’arte di non incontrarsi, Prefaz. di V. Mollica, Milano, Rizzoli, 2022, pp. 22-23.
  21. M. Kundera, Un incontro [2008], trad. it. di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2009, p. 96.
  22. Uscita sul «New York Times» nel maggio del 1984 con il titolo A talk with Milan Kundera, l’intervista è stata pubblicata anche in italiano dalla rivista on-line «Sovrapposizioni» nella traduzione di S. Raviola e A. Hank Toska: https://www.sovrapposizioni.com/ziqqurat/una-chiacchierata-con-milan-kundera (ultima consultazione: 15 maggio 2023).
  23. Ora conservata presso gli archivi Alain Resnais dell’IMEC (Institut Mémoires de l’édition contemporaine), l’inizio di questa sceneggiatura parziale è stato reso noto da Clémentine Deroudille, amica di Resnais, sul blog dell’IMEC: https://www.imec-archives.com/matieres-premieres/papiers/alain-resnais/les-lecons-de-vie-d-alain-resnais (ultima consultazione: 15 maggio 2023).
  24. « Cela portait sur l’idée de la représentation, de l’importance qu’on attache à la représentation de ce qu’on paraît être dans la vie. Nous ne sommes pas très loin des personnages de Pirandello. Là, le jeu était de savoir : vaut-il mieux avoir passé une très belle nuit d’amour avec une femme qu’on aime, à condition que personne au monde n’en ait connaissance, ou bien vaut-il mieux n’avoir eu aucune relation avec cette femme mais que toute la ville vous envie et vous félicite parce que la rumeur dit le contraire ? Nous alternions deux époques, la période contemporaine et le XVIIIe siècle. Nous en profitions pour quitter l’intrigue, aller nous balader dans d’autres directions, puis y revenir. Nous avions un goût commun pour les romans genre Jacques le Fataliste, Tom Jones ou Tristram Shandy, où l’on quitte les personnages pour y revenir. Il s’agissait de voir si cette dramaturgie de la digression pouvait être appliquée au cinéma » (trad. it. mia). Dichiarazioni di Alain Resnais raccolte da François Thomas per « Positif » n. 394, 1993; ora in F. Thomas, Le point de vue de la muette. Entretien avec Alain Resnais, Positif, revue de cinéma. Alain Resnais, a cura di S. Goudet, Paris, Gallimard, 2002, pp. 417-18.
  25. Cfr. Resnais: « Milan a accepté de faire un film avec moi, mais, bien qu’il soit professeur de cinéma, je crois qu’il pensait vaguement qu’un scénario peut s’écrire en trois mois et qu’il pourrait passer à autre chose. Et puis il s’est aperçu que ça demanderait un an de sa vie, que c’est très long et très difficile à écrire. Il a malgré tout livré trente pages d’un synopsis — que j’aimais bien d’ailleurs —, mais il s’est senti coincé et a été un peu affolé, puisqu’il avait à surveiller la traduction de ses romans, avait un autre roman puis un essai à terminer. De plus, je sais que ça lui coûte beaucoup d’écrire, il a beaucoup de mal — il y a des gens pour qui c’est facile, d’autres non — et il a préféré consacrer son énergie à autre chose. Avoir insisté, ça aurait de toute façon mené à une impasse trois mois plus tard ». Cit. da M.-C. Loiselle, Entretien avec Alain Resnais, in «24 images», n. 72, 1994, p. 16.
  26. Cfr. F. Ricard, Biographie de l’oeuvre, op. cit., vol. 1, p. 1472.
  27. M. Kundera, Introduzione a una variazione [1981], trad. it. di E. Marchi, in Id., Jacques e il suo padrone. Omaggio a Denis Diderot in tre atti, trad. it. di A. Mura, Milano, Adelphi, pp. 9-26.
  28. Da notare, poi, che la trama di Senza domani affronta il medesimo dilemma immagine/realtà al centro della sceneggiatura di Kundera per Resnais: nel tornare a casa dopo la notte d’amore con Madame de T., il giovane Cavaliere sa che non potrà raccontarla a nessuno e che per questo le sembrerà forse meno vera, ma al tempo stesso è felice per ciò che ha vissuto.
  29. Cfr. F. Ricard, Biographie de l’œuvre, op. cit., vol. 2, p. 1202.
  30. Vd. il saggio di G. Scarpetta dedicato a La lentezza, Divertimento à la française, ora in «Riga» n. 20 cit., pp. 283-95.
  31. Cfr. A. Resnais che, a proposito della Vita è un romanzo, afferma: «Il mio film preferito del cinema di tutti i tempi è La regola del gioco, che figura dappertutto come uno dei dieci film migliori della storia del cinema, e che è un film che il pubblico ha sempre rifiutato, perché diceva: ‘Ciascuno ha le sue ragioni’. Non mi paragono a Renoir, beninteso, ma a ciascun problema le persone vogliono una risposta […] Tanto più che non si sa se Forbek ha torto oppure no». Dichiarazione riportata in Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, a cura di M. Regosa, Venezia, Marsilio, 2002, p. 282.
  32. Cit. da M. Rizzante, Una nuova forma. Note su La lentezza, L’identità e L’ignoranza, in Id., Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro, Pavia, Effigie, 2015, p. 177.
  33. Questa citazione di Arnold Schönberg è riportata da Kundera nel lungo dialogo con Massimo Rizzante, svolto a tappe dal 1o aprile 2001 al 1o aprile 2013: ivi, pp. 195-200.
  34. Cit. da S. Arecco, La polifonia o le petites phrases partagées, in Alain Resnais. L’avventura dei linguaggi, a cura di R. Zemignan, Milano, Il Castoro, 2008, p. 64.
  35. Ricordo che da Kundera la “polifonia romanzesca”, o contrappunto, è intesa in maniera diversa rispetto a Michael Bachtin, come un principio di derivazione musicale e che, tradotto nel romanzo, permette la compresenza in un romanzo non solo di diverse «voci», ma di una pluralità di storie, generi e registri.
  36. Cit. da M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere [1984], trad. it. di G. Dierna [A. Barbato], Milano, Adelphi, 1985, p. 59.
  37. « La vie est un roman est ‘ma manière de tuer le père’, dit Alain Resnais : ‘Lorsque j’étais enfant, il ne cessait de me dire à table que je devis profiter de mon enfance car c’était la meilleure partie de la vie. Il ajoutait : ‘Tu verras, après tu mangeras de la vache enragée, et tu te rendras compte que la vie n’est pas un roman’. En fait, j’ai découvert que l’enfance n’est pas le meilleur âge de la vie, que la vache enragée peut être meilleure que ce que l’on mangeait à la maison, et donc que la vie est un roman !». Cit. da Alain Resnais, a cura di Jean-Luc Douin, Paris, Éditions de la Martiniére, 2013, p. 141.
  38. Cit. da Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole, parole, parole…(On connaît la chanson) di Alain Resnais, II Cap. di B. Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale [2004], trad. it. di R. Corda, Milano, Meltemi, 2021, p. 60.
  39. Ivi, p. 48.
  40. Cit. da S. Arecco, La polifonia o le petites phrases partagées, op. cit., p. 66.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)