Croce ha un rapporto complesso con la democrazia. Anche quando svela una personale inclinazione democratica[1. B. Croce, Cultura e vita morale, Napoli, Bibliopolis, 1993, p. 45.], messa a dura prova dalle tanto aborrite scienze positivistiche, ha in mente la sua religione della libertà. L’abito qui rivendicato riflette infatti quella coscienza della «comune umanità»[2. B. Croce, Terze pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1955, p. 82.] che si traduce in un duro attacco all’ideale della democrazia. Il primo punto che andrebbe approfondito riguarda pertanto lo scontro sul piano religioso tra due fedi definite opposte: la fede della libertà, sostenuta da Croce, e la fede della democrazia.
1.1 La concezione religiosa della democrazia
Croce condivide soltanto quell’«obiettività democratica»[3. Croce scrive, infatti, che «l’illusione aristocratica è strettamente imparentata con l’altra onde a noi, rinchiusi nell’egoismo della nostra individualità empirica, vuol parere che noi soli intendiamo la verità, noi soli sentiamo il bello, noi soli sappiamo amare. Ma la realtà è in ciò democratica»; più avanti, preciserà che «la realtà non né democratica né aristocratica, ma l’una e l’altra cosa insieme; e aborre così il privilegio di alcuni sugli altri, come l’eguaglianza per cui ciascuno, in ogni momento, debba valere quanto l’altro», riferimenti presi rispettivamente in B. Croce, Filosofia della pratica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 44 e p. 293.] che consiste nella parità spirituale di tutti gli uomini nella libertà[4. B. Croce, Terze pagine sparse, vol. I, cit., pp. 56-68.]. La sua idea democratica insegue il cammino parallelo della tradizione liberale moderna, pur differenziandosi sul piano dei contenuti e delle scelte filosofiche. Da un lato, si lega a quest’ultima nella pretesa di scongiurare il tratto ideologico dell’ancien régime[5. Si rinvia al saggio di Croce Istituzioni razionali e irrazionali, in Id., Etica e politica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 217-21.]; dall’altro non può accettare, in sede filosofica, il tentativo (analitico) di separare la libertà da dalla libertà di, la libertà liberale dalla libertà democratica, la libertà dei moderni da quella degli antichi[6. Per un approfondimento si veda il saggio crociano Constant e Jellinek: intorno alla differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, sempre in B. Croce, Etica e Politica, cit., pp. 342-50; qui l’autore tende a prendere in parte le difese di Constant contro il taglio giuspositivistico richiamato da Jellinek.], in quanto la sua libertà idealistica non patisce «aggettivi né empiriche determinazioni per la sua intrinseca infinità»[7. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991, p. 22.]. I liberali classici, inoltre, prediligono un’eguaglianza di tipo legale, formalizzata in un apposito ordinamento giuridico che consenta di legiferare tenendo conto del pari grado, della pari dignità riconosciuta empiricamente a chiunque. Croce, al contrario, pensa al ritmo dello spirito. La sua concezione democratica si arresta qui: nella coscienza della comune umanità e s’interseca con la sua fede liberale. L’idea della comune umanità, lungi dal coincidere con le prospettive cosmopolitiche, significa in Croce sia riconoscimento di un’impronta eguale di spiritualità degli esseri umani sia svelamento del potenziale delle attività umane raccolto come segno distintivo[8. In una bella pagina scritta nel 1918, Croce, tuttavia, sottolinea il valore necessario, ma storico dell’ideologia democratica sostenuta nel Settecento, «nel senso che, in quel determinato tempo, essa si congiunge con bisogni particolari e reali e con azioni rivolte ad appagarli, e fu come il motto d’ordine di quei bisogni; onde allora fu seria, cioè designò qualcosa di serio, e poi non più, perché non designava più nulla, era vuota»; e continua dicendo che «son cose risapute che libertà, fratellanza, umanità e simili nel secolo decimottavo si traducevano storicamente e praticamente nella libertà dai vincoli feudali e chiesastici, e nell’appello alla colta borghesia di tutta Europa per la collaborazione a quei fini: appello non vano, come attestano e il periodo detto delle riforme e quello della Rivoluzione francese, con le estensioni e ripercussioni che ebbero in tutti i paesi», in B. Croce, La storicità e la perpetuità della ideologia massonica, in Id., Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1928, pp. 255-56.]. L’Ottocento è l’epoca che comprende il significato immanentistico della vita. Croce interpreta la religione della libertà come «l’ultima religione che resti all’uomo», solo che precisa subito dopo,
l’ultima non nel senso che sia un ultimo avanzo, ma nell’altro senso che è la più alta che si possa attingere, la sola che stia salda e non tema i contrari venti, e anzi li riceva in sé e se ne invigorisca[9. B. Croce, Antistoricismo, in Id., Ultimi saggi, Napoli, Bibliopolis, 2012, p. 243.].
Anche il Settecento, continua Croce, crede di aver conseguito la verità ultima. La mentalità illuministica, però, si fonda sulla pretesa di fermare il movimento della libertà tramite l’introduzione di certezze metodologiche e criteri finalizzati non tanto ad archiviare i frutti della storia, quanto a disciplinarli, togliendole il primato e cercando di collocarla in piena sintonia con altri principi ritenuti di paritaria importanza. Liberté, egalité, fraternité diventano così l’«immobile triangolo immortale della ragione»[10. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, op. cit., p. 14.], intento a rinvigorire la concezione religiosa della democrazia. Quando Croce tocca temi quali l’allargamento degli orizzonti democratici o l’idea di pari dignità civile, fa esplicito riferimento all’aristocrazia, la quale indossa per l’occasione il vestito del liberalismo maturo e nel contempo recupera i pregi migliori del sentimento democratico. Si evince che Croce non rifiuta – e lo si vedrà dopo – i meccanismi democratici entro una cornice liberale, anche se condanna il radicalismo che si insinua nell’atmosfera illuministica. Sulle orme di Alexis de Tocqueville, disprezza il linguaggio settecentesco improntato al livellamento e alla massificazione. La concezione religiosa della democrazia focalizza l’attenzione su un’idea atomistica di individuo a cui bisogna affidare uffici e aspettative di pari entità nel confronto generalizzante con gli altri; invece, la concezione religiosa della libertà premia un’idea di personalità storicamente determinata, eguale alle altre solo nell’idea minima di umanità. L’individuo, letto in chiave democratica, non è altro che un soggetto finito, costretto a guardare l’insieme (il popolo) come una somma algebrica entro cui confondersi. Un individuo costruito con linguaggio matematico e inserito all’interno di una trama che antepone l’isolamento atomistico alla personalizzazione del suo essere. I democratici, nell’idea di Croce, teorizzano una religione della meccanica, della natura, della quantità e della ragion calcolante[11. Ivi, p. 44.]. In un itinerario storico e ideale che comincia col trionfo seicentesco e settecentesco della corrente del giusnaturalismo, si sviluppa con le fasi rivoluzionarie rinsaldate dai principi dell’89 e in futuro trova riscontro nell’impiego positivistico della scienza legata ai postulati del democratismo, Croce osserva che l’elemento caratteristico di questo processo si scopre nell’ideale dell’eguaglianza. Riepilogata in termini metafisici, e vissuta come linguaggio creativo della storia, la Libertà si rivela dunque incompatibile con l’ideale che sorregge la democrazia: l’eguaglianza. Quest’ultima, in sede religiosa, viene spiegata come il simbolo dell’anti-vitalità, come la nullificazione della personalità individuale a vantaggio di una volonté générale posizionata fuori dalla storia[12. Il vero bersaglio di Croce è, in effetti, il filosofo Rousseau e il suo concetto di «volontà generale»; celebri e amare sono le parole con le quali liquida il pensatore ginevrino: «Quando dal Machiavelli e dal Vico si passa a leggere il Contratto sociale, si ha l’impressione di non saper più in che mondo ci si trovi: certo, non nel mondo della storia politica né della Filosofia della politica»; B. Croce, Rousseau – il diritto naturale, in Id., Etica e Politica, op. cit., p. 298.]. Il concetto di eguaglianza, ridimensionato da Croce, tocca gradi molto elevati durante il trionfo del giacobinismo, il cui fine consisterebbe nell’inquinare gli spazi e i centri dell’umana variazione, nel silenziare i bisogni della qualità ed allargare le illusioni del volgo mediante un’ondata livellatrice diretta a colpire al cuore la libertà. Per quanto forte ed energica si dimostri la battaglia livellatrice volta a cambiare «lo stesso corso dialettico della storia»[13. B. Croce, Terze pagine sparse, vol. I, op. cit., p. 57.], secondo il filosofo liberale non si potrebbe eliminare la ratio della vita. Croce, tuttavia, non solo attribuisce un valore ineccepibile ai contenuti politici dell’89, ma addirittura riconosce un’esistenza fisiologica dell’impulso democratico nella misura in cui ogni individuo, in tenera età, si apre al mondo con gli occhi dell’ingenuità. Compresa, infatti, una schematica distinzione tra bene e male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, le prime fasi della ribellione si iscrivono nel contesto semplicistico dell’utopia. L’utopia del Sollen a tutti i costi. L’utopia del democraticismo egualitario che lotta per sconfiggere definitivamente il male. Il tipico atteggiamento «massonico», che coinvolge menti pigre e astratte[14. Uomini cioè – scrive Croce – di «mezzana cultura» : «maestri di scuola primaria, diplomati di scuola tecnica, laureati farmacisti, e poi altresì specialisti, anche valorosi, medici, avvocati, ingegneri, militari, che conoscono bene la loro specialità, ma non hanno svolto abbastanza la loro umanità, la consapevolezza filosofica e storica, e si sono contentati per questa parte dei risultamenti ottenuti nel primo sforzo, delle prime nozioni, necessariamente astratte e semplicistiche»; B. Croce, Pagine sulla guerra, cit., p. 258.], affonda le sue radici in uno sguardo non ancora smaliziato che anela alla giustizia assoluta, ad una morale priva di concretezze. Egli scorge nello stadio intellettualistico un approccio originario, la riflessione in nuce che prima o poi dovrà essere soverchiata dagli «addottrinati» e dagli «avveduti», dagli uomini con il più alto senso storico, consapevoli che il corso della storia non può essere violentato dai capricci del Sollen. Quel che Croce riscontra nello storico passaggio da un razionalismo ingenuo (Settecento-democrazia) ad uno molto più maturo (Ottocento-liberalismo), lo immagina a quanto pare radicato nel travaglio morale di ogni singolo uomo: il fanciullo dapprima è egoista, difetta dell’universale, dopodiché rincorre il momento della tensione, del primo dover essere, del dover aggiustare il mondo (democrazia), e alla fine «si procura d’intenderlo, di giudicarlo e d’indirizzarlo» (liberalismo). Un dualismo che ricorda la celebre contrapposizione di Max Weber tra l’«etica della convinzione» (i giovani) e l’«etica della responsabilità» (i saggi)[15. A proposito della condizione anagrafica, Weber tiene tuttavia a precisare che «il semplice fatto che uno abbia vent’anni e che io superi i cinquanta non può tutto sommato indurmi a considerare questa circostanza come un merito davanti al quale dovrei prosternarmi in venerazione. Non l’età conta; bensì lo sguardo addestrato a scrutare senza pregiudizi nelle realtà della vita, la capacità di sopportarle e l’intima maturità di fronte ad esse»: M. Weber, La politica come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Torino, Einaudi, 1983, p. 118.]. Si pensi, inoltre, al percorso della Coscienza illustrato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. La Coscienza, a seguito di una soddisfazione del piacere sensuale, rivendica un fine di alto respiro che introduce il desiderio di annientare l’ordine del mondo attraverso la «legge del cuore»; perciò, l’esigenza falsamente universale, nel secondo stadio della coscienza, si muove in simbiosi con chi vuole togliere l’«effettuale» in nome di un comandamento rivolto alla «produzione del benessere dell’umanità»[16. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. 1, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 308.]. La Coscienza raggiunge un livello più maturo soltanto quando scopre che il senso normativo, intenzionato a racchiudere i suoi pur nobili richiami, non può trionfare sull’imperativo del reale, e così si rende conto che non può piegarsi al vangelo dei giacobini. La Coscienza diviene «etica» quando irrompe la verità di un «universale concreto» che non ammette il dislivello tra il Sein e quel Sollen enfatizzato dal pensiero illuminista. La trasformazione hegeliana della Coscienza non sembra, a nostro parere, tanto distante dalla visione di Croce imperniata sul difficile legame tra la democrazia degli «ingenui» e il liberalismo degli «adulti». È interessante notare come l’inizio, il consolidamento e la definitiva consumazione di un secolo (XVIII sec.), e poi l’ingresso, lo sviluppo e la conclusione dell’altro (XIX sec.), segnino ‒ agli occhi dell’autore della Storia d’Europa ‒ il passaggio dall’ingenuità a quello del compimento del pensiero individuale[17. Ancora sui rapporti tra i due secoli, si segnala un’altra pagina dell’autore, il quale, dopo aver detto che la Rivoluzione francese «fu di somma importanza nella storia della civiltà», non manca di criticare con toni aspri l’«egalitarismo giacobino», definito come l’«estrema conseguenza dell’astratto e matematizzante razionalismo settecentesco» e in cui si esprime una netta preferenza, ripetiamo, dal carattere ‘religioso’, nei confronti del pensiero dell’Ottocento, quale «intelligente accettazione storica di tutto il passato, anche di quello che per le recenti lotte era più aborrito, come il feudalesimo e il monarcato assoluto»: B. Croce, Libertà e giustizia, in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. 1, Bari, Laterza, 1945, pp. 268-69.]. La vittoria hegeliana di un reale razionalizzato segnerebbe la sconfitta storica e teoretica del Sollen, nonché la rivincita di un Sein propugnato da chi sostiene che il «legno storto» di kantiana memoria non può essere raddrizzato e che il mondo va inteso e migliorato attraverso le opere della libertà.
1.2 La concezione scientifica della democrazia
Esamineremo ora la natura dello pseudoconcetto in relazione al contenuto democratico. Lo pseudoconcetto indica o riassume un insieme di combinazioni di ordine pratico che oscillano tra l’universale convertito nell’astratto (un «triangolo») e quel particolare che, lungi dall’integrarsi con la solidità categoriale, ricopre lo spazio di una concretezza abbandonata a se stessa (un «gatto» o una «casa»). Tali situazioni rifiutano l’incontro sintetico e spirituale che fungerebbe comunque da presupposto per la loro determinazione[18. B. Croce, La logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1964, p. 20.]. Tra le libertà sintetiche − come quella etica, estetica o morale − e queste combinazioni sussisterebbe una differenza di natura. Le prime (concetti puri) sono essenziali, le seconde (concetti empirici) possono essere mantenute, modificate, respinte o ripristinate a seconda dei nostri bisogni. Le libertà dal respiro trascendentale appartengono alla realtà storica; le tecniche dello pseudoconcetto, al contrario, albergano in una confusa astrazione da interpretare come appendice del circolo sintetico. Croce attribuisce un significato «utile» al tema dell’eguaglianza e dell’identità soltanto in questo luogo oscuro, dove per alcuni studiosi marxisti si verifica «una grave svalutazione delle scienze in genere»[19. Il Pensiero politico, a cura di U. Cerroni, Roma, Ed. Riuniti, 1975, p. 927. Riportiamo, in maniera approfondita, una delle tante critiche rivolte a Croce, ma anche a Gentile, in riferimento alle posizioni generalmente neoidealiste assunte nei confronti della «scienza». Laura Piccioni è dell’opinione che «la negazione della razionalità scientifica» nonché la riaffermazione del sapere speculativo rappresenti «il risultato compiuto di tutta la polemica antipositivistica e antimaterialistica e allo stesso tempo una delle direttive speculative e ideologiche del neoidealismo più caratterizzante e importante per la direzione conservatrice e angustamente umanistica impressa alla cultura italiana». E continua dicendo che la cultura neoidealista «non si occupa di sottoporre a critica i fondamenti della scienza per verificarne concetti e procedimenti; anzi, la critica della scienza diviene subito critica della “filosofia scientifica”, poiché si deve scegliere tra una logica della filosofia (metodo dialettico) e una logica della scienza (metodo naturalistico): la scienza è criticata sempre sul piano della filosofia, naturalistica o intellettualistica. A questo proposito – continua la studiosa – si deve aggiungere che la liquidazione delle scienze da parte dei neohegeliani avviene nell’ignoranza delle stesse e nella non recezione di tutto il fondamentale dibattito sulle scienze sviluppatosi nel primo Novecento». Tutto questo significa per Piccioni che «la filosofia neo-hegeliana determina il declino della cultura scientifica italiana e stabilisce un predominio che ha condizionato pesantemente lo sviluppo e l’esistenza di importanti branche del sapere (per es., la sociologia, la logica delle scienze, l’economia politica, la psicologia, la psicoanalisi, ecc.), che solo nel secondo dopoguerra riacquistano pieno diritto di cittadinanza nella nostra cultura e stabiliscono un contatto e uno scambio con le ricerche condotte in altri Paesi». A proposito del rapporto fra la concezione speculativa di Croce e la democrazia, la studiosa sostiene che non solo nel filosofo abruzzese, ma anche in Gentile, vi è «un raccordo tra critica della ragione positivistica e “democraticismo”, tra rifiuto dell’“intellettualismo” e spirito riformista e giacobino, che mette in luce il contenuto ideologico specifico della polemica antiscientifica»; pertanto, «la cultura neoidealista con la sua ispirazione antiscientifica e la costruzione di un sistema speculativo del conoscere, appresta per la borghesia italiana una strumentazione ideologica che intende respingere gli ideali progressisti e umanitari e togliere terreno a ogni concezione della storia fondata su leggi obiettive o rivendicante possibilità di razionale progresso nell’organizzazione della società e nel dominio della natura. Respinge anche le istanze democratiche e anticlericali della borghesia produttivistica, che si erano espresse a livello sociale e scolastico con la divulgazione della cultura e l’istituzione delle Università popolari al fine di contrastare il predominio religioso mediante la trasmissione di cultura alle classi subalterne, e contrappone un sapere puro e assoluto – la filosofia −, patrimonio esclusivo dell’élite culturale dominante»; L. Piccioni, Ideologia e filosofia del neoidealismo, Urbino, Università degli Studi di Urbino, 1983, pp. 31-38.]. Non ci si riferisce in questo caso all’impulso ugualitario della comune umanità. L’eguaglianza adesso rivendicata è una finzione che serve a preservare risultati già acquisiti[20. Egli sostiene, a tal proposito, che «poiché si conosce per operare, e tutte le nostre conoscenze debbono via via venire rievocate per via via operare, sorge l’interesse pratico di provvedere alla conservazione del patrimonio delle conoscenze acquistate»: B. Croce, La logica come scienza del concetto puro, op. cit., p. 22.]. Qui Croce, da un lato, legittima il contributo delle attività scientifiche e quindi del metodo naturalistico, dall’altro rafforza la separazione tra la filosofia nel suo quadro unitario, intrisa di libertà, e gli schemi astratti che sono a-spirituali in quanto si nutrono di risvolti matematici e di anti-vitalità. La libertà, accompagnata dalla trama logica della sintesi a priori, acquisisce i nomi delle quattro sfere nelle loro rispettive concretizzazioni, l’eguaglianza invece non può godere di alcun titolo di cittadinanza all’interno di questa struttura. L’eguaglianza serve, non è. Rientra in un falso scenario e potrebbe consentirci di colmare lacune, riempire determinate esigenze, favorire alcuni interessi piuttosto che altri; quindi si traduce in un semplice compito, in un sostegno pragmatico alle opere dello spirito. L’eguaglianza, in altri termini, non può essere qualificata come un valore, un ideale, una filosofia. Le scienze che si servono di concetti empirici portano a compimento quello che la realtà non potrebbe mai ammettere: astrazioni, divisioni, cancellazioni della varietà e dell’unicità. Esse provocano un irrigidimento del mutevole e del divenire a vantaggio di un’identità forzata. Le scienze, con i loro strumenti, svuotano di senso le qualità e le opere reali, sfruttando il linguaggio tecnico impiegato per quantità calcolabili. In breve, nell’ambito della religione viene respinto l’ideale dell’eguaglianza; in sede filosofica l’unica utilità condivisibile è il riscontro sintetico dell’«io voglio!», mentre nella dimensione astratta, e solo in quest’ultima, l’eguaglianza mantiene un significato rilevante. La democrazia, dunque, non potrebbe essere interpretata in modo disgiunto o parallelo alle analisi dello pseudoconcetto. Le libertà sintetiche contengono come molla della vita e del divenire lo strumento della dialettica. Negli schemi scientifici, in cui si trova a proprio agio la grammatica egalitaria dal sapore illuministico, il ruolo della dialettica non avrebbe ragion d’essere. Essa è la legge della storia, quindi non potrebbe essere ospitata nei luoghi anti-vitali dello pseudoconcetto, dove la lotta concreta per rinsaldare il liberalismo delle quattro forme lascia il posto all’«incoerente concetto del riposo»[21. B. Croce, Libertà e giustizia, in Id., Discorsi di varia filosofia, cit., p. 271.]. La libertà nella sua positiva concretezza (sintesi) è, per Croce, lotta perpetua e «autoteleologica», giacché il suo fine coincide con la libertà stessa. L’eguaglianza (analisi) è la finta molla degli ideali eudemonistici e fra tutti troviamo in primo luogo la democrazia. Una delle importanti battaglie di Croce concerne il rapporto tra la giustizia e l’eguaglianza. Egli non avversa la natura della giustizia, semplicemente non la mescola ‒ a differenza della cultura azionista[22. Si pensi al tono provocatorio e sarcastico col quale liquida «le ardite facoltà combinatorie» del partito d’azione, ribadendo che «unico principio della vita morale è la libertà, e che questa, appunto perché morale, contiene in sé la giustizia, suo inseparabile aspetto: quella giustizia che è via via storicamente possibile nell’incessante progresso della civiltà, e che, poiché è possibile, è moralmente doverosa e necessaria» e conclude dicendo che non crede «all’altra e utopica giustizia che si attuerebbe integralmente una volta per tutte, istituendo sulla terra l’Eden egualitario, nel quale l’uomo non solo si annoierebbe ma si animalizzerebbe e avrebbe bisogno di un pastore, di un allevatore, di un domatore e, insomma, di un padrone»: B. Croce, Giustizia e libertà. Una questione di concetti, in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. II, Bari, Laterza, 1963, p. 223.] ‒ con l’ideale egalitario. L’esigenza egalitaria che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si fa sempre più pressante, si specifica nel tentativo di «istituire condizioni di vita economica eguali per tutti i componenti di una società e che diano a tutti eguale benessere»[23. B. Croce, Libertà e giustizia, in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., p. 266.], e ancora nella speranza di «abolire le gerarchie sociali, trattando gli uomini come in tutto e per tutto eguali nella capacità e nell’opera sociale»[24. Ibidem.]. Uno storicista e idealista come Croce non potrebbe condividere una scelta «filosofica» intenta a raffreddare il reale, ingessarlo dall’alto delle manovre di impianto illuministico, individuando le cause radicali che recano ingiustizie e sofferenze sociali al fine di rimuoverle completamente e immettere una nuova ventata di libertà da coniugare con l’ineliminabile compagna di viaggio: la giustizia/eguaglianza. Al di là di questo, bisogna sempre considerare il rapporto che Croce instaura con la natura dello pseudoconcetto. Egli rifiuta di abbassare la giustizia a un’esigenza di eguaglianza materiale o naturale fra gli uomini, perché ciò si rivelerebbe nient’altro che un «assurdo trasferimento di una finzione matematica alla realtà che non consente finzioni, alla vita che è antimatematica»[25. Ivi, p. 267.]; e «lo sforzo che si fa per egualizzare l’individualità o la vita, tende inconsapevolmente a distruggere individualità e vita»[26. E continua dicendo che, «se riuscisse al suo fine, non si otterrebbero individui conformi al modello sociale fissato, ma sparirebbero individui e società»: B. Croce, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. II, op. cit., p. 438.]. In sintesi, la giustizia deve staccarsi dall’eguaglianza. La prima rientra nella realtà; la seconda, guidata dall’intelletto, appartiene al vocabolario dell’aritmetica e delle finzioni. L’unico ramo egalitario, quello minimale, che potrebbe abitare il tessuto reale della giustizia, Croce lo identifica con il «riconoscimento della dignità spirituale di ogni essere umano»[27. B. Croce, Libertà e giustizia, in Id., Discorsi di varia filosofia, cit., p. 266.]. Sorge spontaneo chiedersi: la giustizia che ufficio occupa nell’orizzonte crociano? E soprattutto, che legame può esserci fra essa e l’ideale della democrazia? Alla seconda domanda non dovrebbe essere difficile rispondere. È chiaro, infatti, che, se Croce non disgiunge l’eguaglianza dalla democrazia ‒ e si è detto che egli scevera la giustizia dall’eguaglianza ‒, la giustizia non può essere affiancata o messa in comunicazione con la prospettiva democratica. Essere giusti, nel senso spirituale, non può voler dire essere democratici. Lo pseudoconcetto non dovrebbe essere equiparato alle teorie di un Thomas More o Überhaupt ad ogni voce utopica perché in questi ultimi casi mancherebbe, secondo Croce, il valore dell’utilità e dell’interesse opportunistico: si tratterebbe di un nulla su un nulla. La democrazia egalitaria, sembra di capire, è più dell’utopia e meno della giustizia. Il nulla sul nulla (utopia) perderebbe di valore e di utilità perché predispone schemi funzionali allo stravolgimento del filo realistico, quello che connette presente, passato e futuro. Il nulla (pseudoconcetto), non nullificato da contenuti rivoluzionari nel senso utopico dell’espressione, manterrebbe un profilo estrinseco che non sfiora la storia. Il primo si lega al Sollen dei cambiamenti; il secondo ha un riscontro conservatore, solidifica il reale, esprime elogi alla storia compiuta, anzi seleziona accuratamente ciò che è indispensabile non tanto per mutare la storia dello spirito – ricattata dall’astuzia della Ragione −, ma per recuperare quanto di buono e di qualitativo riesce a realizzare. Se il nulla sul nulla non ci sta a subire la supremazia della storia effettuale, non vuole assoggettarsi a un perenne dualismo e intende conquistare il primato della vita, vale a dire vuole «aggiustare il mondo» istituendo un vigoroso punto di vista, il semplice nulla, nella descrizione di Croce, rappresenta quel comodo irreale che accetta la sua estraneità dal vitale e dalle articolazioni dello spirito. Accetta ma non vuole perché il volere appartiene alla vita e lo pseudoconcetto non può vivere. La scienza empirica, con tutte le sue varianti, risiede al confine fra una morte, di cui è titolare, e una vita sfuggente raccolta nelle intenzioni dell’interprete, di chi crea e sfrutta il metodo classificatorio. Se ne deduce che la democrazia, nel suo significato egalitario, è inaccettabile sul piano religioso, scompare dal quadro speculativo e muore nei suoi utili compimenti scientifici. La democrazia non è. O meglio: è in quanto esistono i suoi effetti. Essa però non è filosofica, non è reale. La realtà per Croce è costituita da quattro sfere, da quattro libertà, da quattro forme, le quali, sebbene di immensa portata, circoscrivono uno spazio che non può essere visitato dalla finzione concettuale. Si tratta di un evidente paradosso. Lo pseudoconcetto è e non è. Una dichiarata inesistenza produce un esistente (effetti) che persiste a non disporre titoli sufficienti per sentire la vita. Se Croce si distingue dall’idealismo, dall’esistenzialismo o ancora dagli autori della Scuola di Francoforte nel suo tentativo di sdoganare il ruolo delle scienze descrittive, non riesce a conseguire l’obiettivo a causa della sua rilettura kantiana, mediata da Hegel, la cui immediatezza interrompe il valore (storico) delle imperfezioni, delle impressioni, dei sentimenti e, appunto, degli pseudoconcetti. Anche quando sembra che Croce critichi la giustizia premiando la Libertà[28. È noto il suo sfogo contro la diade di «Libertà e Giustizia», quando afferma di non poter «accettare quei due concetti così come si suol presentarli e raccomandarli uniti, quasi si pongano sulla tavola e si offrano, l’una accanto all’altra, due noci»: ivi, p. 261.], egli ha sempre in mente la giustizia nella sua delineazione illuministica. Ma, se l’eguaglianza pertiene all’ufficio scientifico degli pseudoconcetti, la giustizia ‒ che peraltro non va confusa con il diritto e con la sfera pratica dell’individuale ‒ coincide e non coincide con la categoria dell’etica. Nel primo caso, il giusto e l’ingiusto rispondono alla tensione dialettica che investe il quarto grado dello spirito, in cui dimora la libertà nella sua determinazione morale: essere moralmente giusti significherebbe esprimere un Sì incondizionato all’arricchimento dello spirito nel suo continuo farsi; invece, nel secondo caso, ovvero quando la giustizia non si esaurisce nell’ultima sfera, essa pare assumere un ruolo onnicomprensivo, dato che riflette l’eguaglianza minimale nella comune umanità. Questi chiarimenti sono importanti per tenere sempre presente che, quando Croce fa riferimento alla democrazia oppure agli strumenti democratici, non pensa alla giustizia pura da far confluire nel suo circolo dei distinti (Etica), ma alle scienze e alla dimensione problematica dello pseudoconcetto.
1.3 La concezione (falsamente) politica della democrazia
Il giovane Croce si forma in un’Italia che, dopo aver scritto la «poesia», vuole realizzare la «prosa»[29. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1973, p. 2.]. Dopo i caldi desideri dell’emancipazione, della liberazione di un Paese da secoli assoggettato alle potenze straniere e a seguito della conquista di Roma avvenuta nel 1870, si chiude un ciclo storico e si tenta di inaugurarne un altro. Termina il momento poetico riconducibile all’ideale morale dell’umanità e si cerca di approdare in un sentiero di solide razionalità. Il fremito per imminenti conquiste storiche, culturali e politiche si attutisce sempre di più in proporzione ai rispettivi conseguimenti. Non resta che amministrare le nuove libertà, espletare atti di regolazione, dedicarsi all’«opera razionale della discussione» e alla «coerenza tra il pensiero e l’azione»[30. Ivi, p. 7.]. Queste ultime iniziative che, in quanto tali, a suo dire, andrebbero pur sempre inserite in un contesto riformatore e non spregiate con accuse di conservazione, vengono rappresentate dagli uomini della Destra, i quali si distinguerebbero dai protagonisti della Sinistra nella serietà del giudizio, nel profilo realistico che dovrebbe caratterizzare una compagine di governo di una nazione reduce da straordinari risultati come l’Italia. Quelli di Destra mantengono un forte senso storico, rifuggendo «dall’allargare il corpo elettorale, che già, ristretto com’era, pareva a loro troppo largo, considerata la qualità dei suoi componenti»[31. Ivi, p. 8.]. Per loro, dunque, la libertà importa «la spontanea autorità del sapere, della rettitudine»[32. Ivi, p. 7.]. La capacità decisionale, la validità degli atteggiamenti di rilievo politico mancherebbero agli uomini della Sinistra, a coloro che si nutrono di oratoria demagogica. I primi ‒ romantici, idealisti e storicisti ‒ promuovono una visione realistica e liberale, mentre i secondi ‒ illuministi, giacobini e mazziniani ‒ sfoderano un linguaggio pernicioso e «moraleggiante». Croce, come si è detto, non mostra completa ostilità nei confronti della prospettiva democratica: solo verso i democratici di professione. Egli, infatti, tiene a precisare che il liberalismo è un ideale regolativo e morale, mentre la democrazia è un ideale pratico, una realtà empirica[33. Scrive, infatti, che, «se al demoliberalismo venisse a mancare quell’interno concetto regolativo, esso si convertirebbe in tirannide piazzaiola e faziosa»: ivi, p. 8.]. Dal primo non si può mai prescindere; quanto alla seconda, se essa risponde alle esigenze dello spirito, sarà «utile» e bisogna di essa approfittare. La vera ostilità, Croce la esibisce nei confronti della massoneria e del dilettantismo politico. Poiché «l’opera del politico consiste, non già nelle costruzioni più o meno ingegnose e di bella apparenza, ma nel trovare i punti di congiungimento tra l’ideale e la realtà»[34. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bari, Laterza, 1968, p. 192.], l’ideologia portata avanti dalla massoneria, secondo lo studioso liberale, è talmente «semplicistica» e «antiquata» che «impedisce, con la sua superficialità, quella soda cultura storica e politica»[35. B. Croce, Massoneria e libertà, in Id., Pagine sparse, vol. II, Bari, Laterza, 1960, p. 502.] che Croce stesso non si stanca mai di predicare. Il problema è sempre l’interpretazione illuministica della democrazia. L’errore risiederebbe nella convinzione che vi sia un dover essere disgiunto dall’essere e, soprattutto, che questo dover essere abbia già un nome ben preciso da catapultare, con violenza giacobina, nella realtà effettuale. Negli anni Quaranta ha luogo un’aspra battaglia sul piano filosofico e politico tra il crocianesimo liberale e la cultura azionista. Croce rimprovera agli azionisti, per lo più suoi vecchi allievi, di equiparare sul piano concettuale la libertà e la giustizia di derivazione illuministica. Occorre aggiungere che, proprio in quegli anni, dirà che liberalismo e democrazia «per un verso coincidono, per l’altro divergono tra loro»[36. B. Croce, Liberalismo e democrazia, in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Bari, Laterza, 1963, p. 116.]. Qualche tempo dopo sosterrà che, «lasciando da parte le differenze teoriche e storiche (…) sta di fatto che, nell’uso sempre nuovo che assumono le parole, “democrazia” nei paesi liberi di Europa e di America è diventata sinonimo di ciò che noi chiamiamo “liberalismo”»[37. B. Croce, La fusione del partito liberale-democratico nel partito liberale, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. II, op. cit., p. 62.]. Dichiarerà anche che la democrazia è «liberale», in quanto, «se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la via alle dittature e ai dispotismi»[38. B. Croce, Rievocazione dell’Italia libera e democratica, in Id., Scritti e discorsi politici cit., p. 200.]. Redigerà un manifesto ‒ firmato da Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti e Ivanoe Bonomi ‒, in cui si ritrova pressappoco lo stesso concetto, ovvero che «non bisogna dimenticare che il liberalismo, disgiunto dalla democrazia, inclina sensibilmente verso il conservatorismo, e che la democrazia, smarrendo la severità dell’idea liberale, trapassa nella demagogia e, di là, nella dittatura»[39. B. Croce, l’Unione Democratica Nazionale, in Id., Scritti e discorsi politici cit., p. 294.]. Croce non diventa improvvisamente un democratico, men che meno ha intenzione di estendere il valore della democrazia fino ad arrivare a una sostanziale parità con la natura etica del liberalismo o addirittura squalificare quest’ultima, «empirizzarla» allo scopo di individuare un definitivo punto di comunanza fra le due prospettive. Tutt’altro. Il punto fondamentale sta nel tenere sempre in considerazione i luoghi entro cui Croce posiziona sia la libertà sia la democrazia. Impresa, per la verità, non facile. Quando parla di punti di convergenza e divergenza, di una democrazia sempre più prossima alla visione liberale, di un liberalismo tendenzialmente conservatore allorché rifiuti di coniugarsi con la democrazia e, quest’ultima, addirittura «dittatoriale» o «demagogica» se non si riallaccia al primo e così via, in tutti questi casi, Croce non dimentica né l’orizzonte religioso che ospita la Libertà «senz’altra determinazione» né il profilo gnoseologico che si nutre di un liberalismo determinato. Il liberalismo, che si incontra con la democrazia, non coincide con la concezione religiosa della libertà, e non è neppure una sintetica e peculiare determinazione, quella che alberga filosoficamente nello spazio etico-politico. In altri termini, qui Croce qualifica il liberalismo come teoria e metodo di governo costituzionale e solo in questo luogo – tipicamente pseudoconcettuale − è possibile che esso s’incroci con la democrazia. Ci si riferisce a due realtà empiriche che non possono stare separate perché l’una si serve dell’altra in uno scambio strettamente utilitaristico che non stride, quantomeno nell’ottica crociana, con il significato religioso. Viene confermato, nell’ultimo Croce, il significato di utilità (empirica) in merito a una visione democratica rimasta sempre d’impronta anti-illuministica. Il Croce maturo rimane fedele a quello delle prime formulazioni, solo che, negli ultimi periodi della sua funzione intellettuale, viene argomentata ed esplicitata ancor di più la componente «positiva» della democrazia. Risulterebbe perciò un po’ sbrigativa la tesi secondo cui il filosofo della libertà ha «ben chiaro che “democrazia” non è un regime politico ma un modo di essere dei rapporti tra le classi sbilanciato in direzione della “prevalenza del demo”»[40. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 364.].
(fasc. 10, 25 agosto 2016)