La protesta di Giobbe: una nota su Levi e Morselli

Author di Maria Panetta

Nel 1977 apparve a Milano la prima edizione di Fede e critica, libro elaborato da Morselli nel biennio 1955-1956, ma meditato a partire dal 19521. Nella sua Nota introduttiva, indirizzata ai lettori, l’autore precisa di non essere un «religioso»2, né un «mistico», ma ammette che quelle sue pagine sono state elaborate sotto «l’urgenza di una ricerca» e dettate da un evidente «interesse» dell’autore per le questioni trattate3.

Scopo dichiarato del libro sarebbe, dunque, quello di «svolgere un discorso: lineare, piano, tollerante, come può esserlo il discorso intellettuale quando tratta questioni da cui l’individuo sia investito nel profondo». Il fine, infatti, non pare tanto quello di arrivare a conclusioni filosoficamente valide e razionalmente giustificabili e comprovabili, ma quello di descrivere, di raccontare il percorso intellettuale e spirituale seguito da un’anima (proprio quella di Guido Morselli), che si pone di fronte al problema del Male e della Sofferenza nella vita umana, ovvero al “Problema” per antonomasia.

Domanda priva di senso sembra a Morselli quella sul Perché si soffre?, che dà il titolo al primo capitolo: «esistere» è anche «soffrire» – risponde l’autore – che si dichiara, in nota, d’accordo con Benedetto Croce, che vede necessariamente contrapposti i poli del piacere e del dolore nel momento economico dello Spirito, o “vitalità”. Male e bene, morte e vita sono, allo stesso modo, problemi ed eventi oscuri; per questo, qualsiasi filosofia si ponesse domande sul senso del male e del suo coesistere col bene sarebbe, per Morselli, da additare come una pseudo-filosofia: la «concettuale neutralità»4 della filosofia nei riguardi del male si spiega anche, per l’autore, col fatto che non ha senso indagare il problema del male in astratto, perché esso, nella vita umana, s’identifica sempre con la «sofferenza», che diviene evidente e afferrabile soltanto facendo riferimento alla «sfera soggettiva dell’individuo»5 e può, dunque, essere colta (dalla psicologia, e non dalla filosofia) solo come «fenomeno, nel vivo del singolo soggetto che la subisce».

L’uomo comune, per lo scrittore, cerca soprattutto una spiegazione ai mali che lo affliggono, e le argomentazioni contingenti degli storici6 (la loro indagine sulle “cause” dei fatti) non gli bastano, perché egli mira a una spiegazione «totale e radicale, cioè estrastorica, estranaturale»7: lo storico – puntualizza Morselli, in costante dialogo implicito con Croce – consente la comprensione di un evento e lo intellettualizza, cerca di spiegare i fatti e – dato che «comprendere è perdonare»8 – aiuta, con la propria opera, a penetrare la “logica delle cose”, ad avvertirne la «necessarietà», ma non a giustificare ontologicamente il male, a ricondurre ciò che accade a «logicità».

L’autore passa in rassegna vari modi di rapportarsi alla questione del Male e varie soluzioni susseguitesi nella storia della speculazione: il male giustificato da una finalità superiore (di tipo individuale o universale); il male ridotto a pura negatività e, dunque, non avente realtà (laddove Agostino sembra anticipare Hegel, commenta Morselli); il male come defectus boni, minus esse della creatura rispetto al creatore, all’Essere (per cui il peccatore è contraddistinto da un’ulteriore deminutio essendi) etc. Costante il dialogo con l’idealismo, che considera il male morale, la volontà cattiva, una «volizione che viene meno a se stessa, e quindi un caso particolare di defectus boni»9, tesi che Morselli giudica «poco plausibile». Interessante e – a mio avviso – illuminante (ai fini dell’esegesi dell’opera morselliana tutta)10, poi, il rilievo da lui attribuito a una concezione del male come “eccedenza”: «si prevarica in quanto vi è qualcosa in noi che esorbita o eccede (…) La superbia, in cui la Storia sacra designa (con molta accuratezza, bisogna ammetterlo) il primo e sommo peccato, è tipicamente un eccedere».

Il male, dunque – precisa l’autore –, è un «limite al nostro essere»11, non «del nostro essere»: perciò non è defectus o remotio boni, ma contrarium boni; e per questo lo si subisce, come una forza esterna e attiva, che ha in sé una sua «irriducibile positività»12 e che “urta” contro il nostro essere. In quest’ottica, anche il male morale consisterebbe nella sofferenza che prova l’uomo quando le tendenze egoistiche in esso presenti si impongono su tendenze contrarie e le reprimono, in un conflitto interiore al soggetto. Pertanto, il Malum sarebbe la prova del «disordine che contrassegna questo nostro mondo, per cui c’è antagonismo nelle forze»13.

Morselli estende la propria riflessione anche – leopardianamente – alle altre creature, agli altri esseri che abitano il mondo, invitando a non trascurare di considerare «il disordine e il dolore della Natura, poiché anche in essa si manifestano le potenze del male»14.

Riguardo sempre ad Agostino, apprezzato nel suo «genuino tormento di (…) spirito credente»15, Morselli dichiara, più avanti, di sentirsi solidale col suo atteggiamento di «accorata accettazione del mistero»16 dell’imperscrutabilità dei giudizi e delle vie di Dio, e con la sua convinzione che tutte le “cose” siano “utili” e che, dunque, quelle la cui ragion d’essere risulta incomprensibile – «laddove l’ingegno e le forze ci facciano difetto»17 – dimostrino la propria utilità proprio nel fatto che il non poter attingere facilmente al loro senso serve a «esercitare l’umiltà o a fiaccare la superbia»18. L’ultimo Agostino, però, sembra andare oltre: sostiene, infatti, che non vi è salvezza senza la Grazia e che essa è un dono che Dio elargisce a chi vuole. Il libero arbitrio, dunque – osserva Morselli –, «sta dalla parte di Dio»19 e non da quella dell’uomo; e quando

se ne escludano i pochi eletti, l’umanità è, sin dal suo inizio, massa damnationis, destinata al peccato (…) e alla perdizione. Ciò che più ci interessa, è l’affermazione che di tutto questo non serve chiedere il perché. I motivi della scelta divina ci sono preclusi. Si deve stimare che la divina volontà sia giusta, e cioè buona: ma è una persuasione da non aspettarsi dai concetti, è una persuasione che ci è data, quando ci è data, insieme con la fede20.

Molto interessante anche l’accostamento tra Agostino e Leopardi: «Per noi, il male è il ‘dato’, e Dio (seanche [sic] in un certo momento ne avvertiamo il bisogno) è l’incognita; inversamente per loro»21. L’autore osserva che il poeta recanatese dichiarò con forza il proprio materialismo e ateismo, ma «senza giungere mai a trasfigurarli nella sua poesia, che al contrario rimane (al pari del suo pensiero) indizio di una religiosità desolata e amara, recriminatrice e non di rado blasfema, ma radicata, esigente, capace di singolari intuizioni». A suo giudizio, la negazione di Dio in Leopardi è «chiaramente non risolutiva»22, ché, anzi, egli «imperniò sull’ingiustizia e il dolore la sua meditazione, sentendo di essi, non solo l’umana tristezza, ma una gravità cosmica e arcana» proprio perché, non riuscendo a prescindere dall’idea di una «divina presenza operante nel mondo», avvertì sempre la crudeltà e l’irriducibilità del mistero della sofferenza.

Centrale23, nell’esame di Fede e critica, è, poi, la considerazione del secondo capitolo (incentrato sul Libro di Giobbe), che discute il noto “principio retributivo”, secondo il quale il male è necessario in quanto “castigo delle nostre colpe”. A giudizio di Morselli, gli «eroi eponimi dell’umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra, e dice le cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose veramente essenziali per tutti»24: passo di estrema importanza, dato che vi sono evocati alcuni tra i personaggi più degnamente illustri e semanticamente pregni di tutta la letteratura mondiale. La centralità del libro di Giobbe risiederebbe nel fatto che vi si rivela il «Deus absconditus, che cela il proprio volto alle creature governando la loro sorte dall’alto, e la cui parola non risuona che nel travaglio delle loro coscienze»25.

Il libro di Giobbe inizia con Dio e Satana a colloquio, a dimostrazione che nella Bibbia il Bene e il Male «possono stare di fronte l’uno all’altro, parlarsi, misurarsi»26: Satana è, dunque, una realtà «congenita al mondo»27 (conclude Morselli):

esisteva prima dell’uomo, esisterebbe anche se l’uomo, che si è creduto riempir l’universo colle invereconde vociferazioni della sua superbia, non fosse apparso mai. È autentica presunzione, non umiltà, quella che ci fa asserire che il male lo introduciamo, lo ‘inventiamo’ noi; una sottospecie dell’antropocentrismo ai cui miraggi cedono volentieri i filosofi28.

Giobbe crede in Dio e, quando la calamità immeritata lo colpisce, reagisce non con la pazienza e l’acquiescenza che la tradizione gli ha proverbialmente attribuito, bensì con accenti di inusitata violenza, chiedendogli ragione della propria sofferenza: «Perisca il giorno in cui io nacqui e la notte in cui fu detto: è stato concepito un uomo (…) Perché fu data la luce all’uomo la cui via è nascosta e che Dio ha circondato di tenebre?» (3, 3, 11, 20-23). La ribellione di Giobbe si concluderà con la sua finale sottomissione a Dio, che gli concederà, dunque, la «grazia della rassegnazione»29.

Da tutto l’episodio, Morselli deduce – contrariamente alle letture tradizionali, da Tertulliano al vescovo Martini – che il Cielo non condanna le reazioni degli uomini alla sventura, non si vendica delle loro rivolte alle punizioni che giudicano ingiuste: «Dio è disposto a indulgenza verso chi insorge contro i suoi decreti, ma non verso chi pretende svelarne il mistero, subordinandoli ai criteri di una legalità rigorosa bensì, ma antropomorfica»30; ciò che il Signore non tollera è, dunque, di dover «chiarire all’uomo la propria condotta»31, avendo diritto all’«incondizionato ossequio della creatura». Dunque, «superbia è (…) voler penetrare l’impenetrabile, indagare i voleri del Signore». Conclude l’autore che Giobbe «è ben lungi dall’essere un reprobo, ma è, o è stato, un ribelle, un accusatore»32, perché – e ritorna tale motivo – «la negazione appassionata è una testimonianza, più valida della compunta devozione»: la differenza tra lui e il credente comune non va ricercata – secondo Morselli – nella sua incondizionata sottomissione finale, ma «nel vigore meraviglioso con cui egli asserisce la sua e la universa dipendenza da Dio», nel bene e nel male, nella colpa e nella virtù. «Dalla veemenza della sua recriminazione (…)» –  asserisce l’autore – «vi è da attingere per gli spiriti religiosi una lezione di umiltà».

Nella silloge Ricerca delle radici (1981), in cui Primo Levi seleziona alcune opere di fondamentale importanza nel proprio percorso intellettuale e formativo, si possono leggere anche alcune pagine tratte dal libro di Giobbe, cui Levi dà il titolo Il giusto oppresso dall’ingiustizia: «A Giobbe ho riservato d’istinto la primogenitura, cercando poi di trovare buone ragioni per questa scelta»33, ammette Levi. E poi precisa: «Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo»34. In Giobbe Levi individua, dunque, innanzitutto un archetipo filosofico: quello dell’interrogarsi sul senso e sul significato del dolore nella vita umana.

Nella scelta dei passi antologici, inoltre, seleziona e riporta solo quelli in cui parla Giobbe (3, 7, 14) e quelli in cui parla il Signore dalla nube (38, 40, 41), tralasciando gli altri personaggi e configurando, in tal modo, l’episodio come uno scontro frontale fra Dio e la sua creatura: «Giobbe è il giusto oppresso dall’ingiustizia. È vittima di una crudele scommessa fra Satana e Dio. […] Giobbe il giusto, degradato ad animale da esperimento, si comporta come farebbe ognuno di noi: dapprima china il capo […], poi le sue difese crollano. Povero, orbato dei figli, coperto di piaghe, siede fra i rifiuti grattandosi con un coccio, e contende con Dio. È una contesa disuguale: Dio, creatore di meraviglie e di mostri lo schiaccia sotto la sua onnipotenza»35.

La riflessione proposta da Levi al riguardo mette bene in evidenza come, a suo modo di vedere, la voce divina non risponda alla domanda di senso di Giobbe, ma sposti

il fuoco del discorso con un atto di prepotenza. Quella di Dio è pura violenza verbale: capitolo dopo capitolo di meravigliosa poesia cosmica, Dio descrive a Giobbe tutto quello che ha fatto dalla creazione in poi, sfidandolo a imitarlo se ne è capace; e se Giobbe non può stargli a pari, se Giobbe non può creare un universo come lui lo ha creato, allora non ha il diritto di porre in questione l’ordinamento di questo universo. La dimostrazione di forza è però anche una scappatoia, uno stratagemma che serve a Dio per non rivelare all’essere umano che lo interroga l’arbitrio, il capriccio per cui ha acconsentito alla scommessa con il Satàn36.

Appare chiaro che per Levi non è un Dio giusto l’onnipotente che scommette con Satana, mette alla prova Giobbe e ne loda la ribellione, ottenendo, alla fine, la sua resa incondizionata, ma rappresenta la crudeltà e la disumanità dell’oppressione, che egli riconnette anche alla propria tragica esperienza di vita nel campo di Auschwitz.

Dio non degna di risposta l’affannoso interrogarsi dell’uomo: si limita a schiacciarlo e non acconsente a confrontarsi e a discutere con lui. La conclusione pacificatrice del cap. LXII viene, di conseguenza, rifiutata da Levi: «Il lamento di Giobbe è una delle cose più disperate che mai sian state scritte. L’ultimo libro di Giobbe, quello a lieto fine, è apocrifo e anche assurdo»37. Infatti, Giobbe rientra in possesso della salute, dei beni; ma comunque si tratta di «un epilogo sconcertante: ha altri dieci figli, ma non quelli di prima»38.

Oltre ai numerosi ed evidenti punti di tangenza fra le suddette riflessioni morselliane e queste di Levi riguardo al problema del Male e alla centralità del personaggio di Giobbe nella storia della letteratura di tutti i tempi, si rammentano altri elementi utili ad avvicinare i due autori: oltre che rilevare un loro comune amore per Leopardi, sconcerta riflettere sul fatto che Primo Levi si tolse la vita nel 1976, tre anni dopo il suicidio di Morselli.

È senz’altro uno spunto che merita di essere approfondito.

  1. Cfr. M. Fiorentino, Fede e critica, in Ead., Guido Morselli tra critica e narrativa, pref. di F. D’Episcopo, Napoli, Eurocomp 2000, 2002, pp. 141-81 (in particolare, p. 143).
  2. Tutte le citazioni saranno tratte dall’edizione milanese Adelphi del 1977; per le seguenti, cfr. p. 11.
  3. Si veda anche il cap. VIII: «Non sono soltanto parole, queste che sto scrivendo, o sono parole compendianti un’esperienza, che non è quella di un santo o di un apostolo ma di un uomo come innumerevoli altri, non più illuminato, non meglio sottratto ai comuni limiti e vincoli» (p. 193).
  4. Ivi, p. 17.
  5. Ivi, p. 18 (come la citazione successiva).
  6. La riflessione sulla storia è tema che ritorna assai spesso nella produzione morselliana: si vedano molte sofferte pagine di Fede e Critica (ad es., le pp. 35-38, 98-99) e l’impianto storico di romanzi come Contro-passato prossimo (I ed. postuma 1975) e Divertimento 1889 (I ed. postuma 1975).
  7. G. Morselli, Fede e critica, pp. 20-21.
  8. Ivi, p. 20, nota 3 (come le citazioni che seguono).
  9. Ivi, p. 29 (come le cit. successive).
  10. Ho cercato di dimostrarlo in M. Panetta, Da Fede e critica a Dissipatio H. G.: Morselli, il solipsismo e il peccato della superbia, in «Rivista di studi italiani», numero monografico dedicato a Guido Morselli, a cura di A. Gaudio, a. XXVII, n. 2, dicembre 2009, pp. 205-37.
  11. G. Morselli, Fede e critica, p. 31 (come la citazione seguente).
  12. Ivi, p. 32.
  13. Ivi, p. 33.
  14. Ivi, p. 42. Cfr. anche, sullo stesso tema, la citazione di alcuni versi tratti dal Canzoniere di Saba e riguardanti la sofferenza di una capra che partorisce, a p. 198.
  15. Ivi, p. 43.
  16. Ivi, p. 44.
  17. Ibidem. La citazione, tradotta, è tratta dal De Civitate Dei (XXII, 11).
  18. Ibidem.
  19. Ivi, p. 45.
  20. Ivi, pp. 45-46.
  21. Ivi, p. 47 (come la citazione che segue).
  22. Ivi, p. 48 (come le citazioni successive).
  23. Cfr. S. Costa, Guido Morselli, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 31 e sgg.
  24. G. Morselli, Fede e critica, op. cit., p. 54. Corsivo mio.
  25. Ibidem.
  26. Ivi, p. 55.
  27. Ivi, p. 56.
  28. Ibidem. Corsivi miei.
  29. Ivi, p. 64.
  30. Ivi, p. 66.
  31. Ivi, p. 64 (come le citazioni successive).
  32. Ivi, p. 67 (come le citazioni che seguono).
  33. P. Levi, Ricerca delle radici: antologia personale, Torino, Einaudi, 1981, p. 1365.
  34. Ivi, p. 1369.
  35. Ibidem.
  36. A. Baldini, Primo Levi e il modello sapienziale, in Mi metto la mano sulla bocca. Echi sapienziali nella letteratura italiana contemporanea, a cura di M. Naro, Roma, Città Nuova Editrice, 2014, pp. 177-92, cit. a p. 183.
  37. P. Levi, L’enigma del tradurre, intervista di G. Tesio, in «Nuova Società», 18 giugno 1983, p. 61.
  38. P. Levi, Conversazione con Daniela Amsallem, 15 luglio 1980, in Primo Levi, a cura di M. Belpoliti, in «Riga», 13/1997, pp. 55-73, p. 58.

(fasc. 22, 25 agosto 2018)