La scuola della paura e l’atto della percezione nei romanzi di Herta Müller

Author di Sebastiano Triulzi

I romanzi di Herta Müller si configurano perlopiù come il racconto di un trauma, preesistente o in divenire, che monta pagina dopo pagina in un modo insieme esemplare e straniante, affinché sembri ossessivamente duraturo il suo effetto nel tempo.

Il presupposto è che ogni trauma veramente profondo lo portiamo sempre tatuato sulla pelle, ingombrante come un fardello, tragicamente esposto allo sguardo altrui, e che finisce per condizionare la nostra vita. Sopra ogni cosa questo tipo di trauma crea una sorta di legame con il nostro mondo interiore, diviene col tempo una specie di gabbia, di cappio «necessario, impetuoso e spietato»[1. H. Müller, La paura non può dormire. Riflessioni sulla violenza del secolo scorso, traduzione di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, Milano 2012.], estremamente pericoloso dal momento che induce un effetto di nostalgia per il dolore che si è creato o perfino per la situazione da cui è stato generato. Scrive Jung che ogni ferita corrisponde all’arma che l’ha inflitta, così come, specularmente, ogni emozione riflette l’azione violenta che l’ha suscitata[2. Cfr. C. G. Jung, Risposta a Giobbe, traduzione di Alfredo Vig, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 11.]: lo stesso potrebbe dirsi del trauma, e non a caso, per quasi tutti i protagonisti dei romanzi di questa scrittrice rumena di lingua tedesca, il trauma che vivono e che li contraddistingue è sempre irriflesso e durevole, oltre che sempre interiormente rielaborato e vissuto. In un senso sia letterale sia metaforico, il trauma (e la paura che da questo deriva e del quale si nutre) è per lei una specie di camicia di Nesso, qualcosa che non è più possibile strapparsi di dosso, è indelebile come lo è ad esempio il proprio odore; e così, come questo non lo percepiamo direttamente ma sappiamo che viene distintamente percepito dagli altri, il trauma, accompagnandoci e divenendoci ombra, rivela la sua costante onnipresenza. Talvolta, anche se non siamo del tutto consapevoli che sia visibile all’esterno, temiamo che ciò accada, temiamo che gli altri se ne accorgano, ed ecco che senza volerlo può d’improvviso incidersi sul nostro volto, manifestarsi nel modo in cui percepiamo la quotidianità, esplicarsi nel timore d’ogni novità, divenire sintomatico ed evidente nel modo in cui camminiamo per strada o inverarsi tragicamente nei nostri incubi e desideri più complessi: questo tipo di paura, le cause da cui è originata e la sua perdurante incidenza a livello psicologico sull’individuo sono motivi fondamentali della narrativa della Müller.

Il definirsi del trauma e la sua impossibile cicatrizzazione, l’inevitabile convivenza e coabitazione con la paura a cui ci costringe vengono inseriti tante volte nelle sue storie all’interno di un contesto più ampio, che è storico e politico: la maggior parte delle sue opere tratta dei conflitti che l’individuo vive in seno alla comunità tedesca del Bananato o della crudele repressione delle libertà personali durante la dittatura di Ceasescu in Romania; entro tale cornice la paura può crescere e rendere tutti suoi sudditi, fermentare, svilupparsi e devastare dall’interno le sue protagoniste, proprio come una cellula cancerosa in un corpo sano. La prospettiva da cui viene colta non è, però, esattamente contigua o coincidente con quella della comunità di lingua tedesca presente in Romania alla quale lei stessa appartiene per nascita; al contrario, lo sguardo è sempre proprio di un soggetto che sente estraneità e avversità tanto verso le ferre logiche e norme, i vincoli e gli interessi che regolano la collettività nel villaggio, quanto verso chiunque eserciti il potere in una forma coercitiva, dunque nel suo caso il regime comunista e il suo braccio armato, la Securitate, la macchina dei servizi segreti necessaria in uno stato totalitario a mantenere il sistema fortemente repressivo. Ricorda:

Al villaggio ero stata dapprima una nemica, poi in città fui una nemica per lo stato. Il potere si mostrava in maniera assolutamente diretta, venivo convocata alla sede dei servizi segreti per essere interrogata, oppure i servizi segreti venivano da me in fabbrica, chiudevano la porta dall’interno e mi tormentavano per mezza giornata in ufficio. Oppure venivano dopo il lavoro a casa mia per perquisirla. Quando il potere si mostrava, si finiva trattenuti o licenziati, ovverosia arrestati o cacciati via dal lavoro[3. H. Müller, La paura non può dormire, op. cit., p. 114.].

Negli anni Settanta, quando lavorava come traduttrice in una fabbrica di macchine utensili, le venne chiesto da un uomo dei servizi segreti di collaborare come spia presso la minoranza tedesca e tra gli operai: si rifiutò, ma avevano fatto girare la voce fra i suoi colleghi che aveva accettato: «Era la cosa più brutta – avrebbe detto, rievocando quegli anni nel discorso di accettazione del Nobel nel dicembre del 2009 – Dagli attacchi ci si può difendere, contro la calunnia si è impotenti. Ogni giorno mi aspettavo di tutto, anche la morte (…). La calunnia ti riempi di lordura, soffochi perché non puoi difenderti. Nell’opinione dei colleghi io ero esattamente quel che avevo rifiutato di essere. Se li avessi spiati si sarebbero fidati di me, senza sospettare nulla. In sostanza mi punivano perché li risparmiavo»[4. Ivi, pp. 11-12.].

Dopo qualche settimana fu licenziata, riuscì a trovare lavoro come maestra in un asilo nido e diede lezioni private di tedesco, incontrando sempre difficoltà con la censura per la pubblicazione delle sue opere almeno fino al 1987, quando ebbe il permesso di emigrare in Germania. Una parte di tutto questo, cosa usuale per una scrittrice che orgogliosamente sostiene di non dover neanche una sua frase alla letteratura, ma solo alle esperienze vissute, ritorna nei suoi romanzi, come in Oggi avrei preferito non incontrarmi[5. H. Müller, Oggi avrei preferito non incontrarmi, trad. di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, Milano 2011.], dove l’io narrante si trova su un tram mentre sta andando nell’ufficio governativo dei servizi segreti rumeni per un interrogatorio: il tragitto sul malandato mezzo di trasporto pubblico si trasforma per lei in un tragitto mentale, segnato da una serie di flashback di episodi della sua infanzia e adolescenza, dei suoi due matrimoni e degli interrogatori precedenti che l’hanno già profondamente segnata. La donna è ferma, seduta al suo posto, vuole fare ordine nella propria vita ricollegando i fili del passato, retrospettivamente, ma non ci riesce perchè tutto le appare confuso: vive due tempi, due movimenti, uno verso il proprio mondo interiore e l’altro diretto verso un luogo reale, minaccioso, dove verrà nuovamente umiliata dai funzionari dei servizi segreti.

Così come è capitato alla loro stessa creatrice, le sue protagoniste lottano per non venire schiacciate da questi due tempi differenti: i pregiudizi della piccola comunità in cui vivono o i meccanismi perversi dei regimi totalitari che stritolano l’individuo contribuiscono a minare la loro psiche e a instillare quotidianamente angoscia e insicurezza, per cui la loro sopravvivenza, la loro resistenza non sono mai certe per il lettore.

La ribellione della coscienza si compie attraverso un distacco che è, però, spesso irrisolto, divenendo autoisolamento mentale, portandole a percepirsi come «esseri in fuga» rispetto al contesto sociale che le ha cresciute e al contesto politico che le ha recluse, e così finiscono per accettare la loro solitudine e il vuoto che la nostalgia può indurre in loro, considerando entrambi come una giusta punizione. È la «sensazione dell’assenza» che prova ad esempio Irene, protagonista di In viaggio con una gamba sola[6. H. Müller, In viaggio su una gamba sola, trad. di Lidia Castellani, Marsilio, Venezia 2009.], è la vetrosità delle nonne e delle madri in Bassure[7. H. Müller, Bassure, trad. di Fabrizio Rondolino e Margherita Carbonaro, Feltrinelli, Milano 2010.]. C’è un elemento masochistico che fa sì che il trauma vissuto o che stanno vivendo, anche se indotto da un sistema claustrofobico, vessativo, coercitivo, venga allevato con cura e dunque percepito come personale, come interiore: non essendo al riparo di una sovrastruttura o di un ideale, come accade ai dissidenti politici, il trauma si configura nei termini di una colpa personale, ed è un po’ come quando si è vittima di una violenza e si pensa di essersela andata a cercare, non invece che il male sia altrove e sia in altri.

Che, dunque, ruotino intorno alla militanza hitleriana della minoranza tedesco-rumena, alla denuncia della feroce repressione durante la dittatura di Ceausescu, fino alla questione dell’esilio o della migrazione a Berlino, nessun vezzo apologetico si può rintracciare nelle storie di questa scrittrice, nata dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1953 a Nitzkydorf, un villaggio del Bananato che ha vissuto quasi mummificato, come ha più volte denunciato, «in preda alla paura di mischiarsi e di perdere la propria identità»[8. H. Müller, La paura non può dormire, op. cit., p. 23.], e che aveva sposato felicemente l’ideologia nazista. Nel 1943 il padre si era arruolato nelle Waffen-SS, raggiungendo poi il grado di comandante maggiore: «La maggior parte degli appartenenti alla minoranza tedesca nel Bananato, e così in Transilvania, era entusiasta di Hitler. Anche mio padre»[9. Ivi, p. 44.], scrive: la percezione della sua colpevolezza e della sua disonestà, i suoi silenzi rispetto ai crimini commessi in guerra e al destino degli ebrei, il divertimento con cui «ancora negli anni Settanta intonava canti nazisti» con i camerati del paese, l’essere un alcolizzato dedito a esplosioni d’ira segnano inevitabilmente il loro rapporto umano: solo dopo la morte del padre lei inizia a scrivere, «anche se non ne avevo avuto l’intenzione e la letteratura non rientrava per nulla nei miei progetti. E siccome lo scrivere si era introdotto in questa maniera, io fin dall’inizio, e poi sempre di nuovo, ho scritto di mio padre. Poiché la sua vita, quando ancora la viveva, si è costantemente riflessa nella mia. Ciò era connesso alla consapevolezza che avrei dovuto amarlo, pur non riuscendoci – e nello stesso tempo sapevo che lo amavo, pur non volendolo»[10. Ibidem.].

I concetti di patria e identità, nella raffigurazione dei contesti di vita femminili, elemento centrale del suo lavoro[11. V. Neubauer, Zum Heimatbegriff bei Herta Müller – Weibliche Heimat?, angestrebter akademischer Grad, Magistra der Philosophie (Mag. phil.), Università di Vienna, Vienna 2012.], vengono, però, ridiscussi alla luce delle priorità e del punto di vista delle donne, e ricondotti a un’ossessione tipicamente maschile: il mito dell’«Heimat», è quindi presente, ma rovesciato. Ci si sente estranei nella vecchia come nella nuova patria, la stessa identificazione con il termine casa è impossibile, il senso di comunità un’ipocrisia dietro alla quale si cela il desiderio autocelebrativo del potere maschile.

In un senso generale, la narrazione nei suoi romanzi è spesso contraddistinta da un movimento circolare delle affermazioni e dalla giustapposizione di frammenti sparsi, da uno «smontaggio»[12. Cfr. Lyn Marven, “In allem ist der Riss”: Trauma, Fragmentation, and the Body in Herta Müller’s Prose and Collage, in «The Modern Language Review», vol. 100, n. 2 (aprile 2005), pp. 396-411.] di ricordi, parti di sé, gesti, immagini di luoghi, facce di uomini, oggetti feticcio, metafore, descrizioni ecc., come se, per essere precisi, esatti, bisognasse stravolgere le immagini della realtà rendendole frammenti, rimescolandole e ricombinandole per trasformarle in qualcosa di diverso e di imprevedibile: «Solo quando una percezione ne depreda un’altra, un oggetto afferra e utilizza la materia di un altro – solo quando ciò che si esclude nella realtà è diventato plausibile nella frase, quest’ultima può affermarsi davanti alla realtà come una realtà a sé stante, che quasi per caso si è fatta parola, ma valida proprio in quanto parola»[13. H. Müller, La paura non può dormire, op. cit., p. 55.].

Questo matriale eterogeneo viene dapprima scomposto e poi ricomposto ma in un ordine leggermente diverso, viene ritagliato e incollato come accade nel collage, tecnica artistica a cui ella si dedica con diletto producendo piccoli cartoncini di parole; come se questi collage di parole staccate dal loro contenuto e dal loro contenitore, una volta riconfigurate di senso, servissero ad affinare per prima cosa la sua strategia stilistica, a darle il via, il tono dello scrivere. Nel libro In viaggio su una gamba sola la narrazione procede per segmenti visivi, talvolta reiterati, per una sovrapposizione continua di metafore sinestetiche e microeventi simbolici, ai quali sono mischiate conversazioni, riflessioni, osservazioni su oggetti molteplici e diversi che si accumulano una sopra l’altra. Una griglia che dovrebbe riprodurre la partita che si gioca nella testa di Irene e che ricorda molto, come strategia stilistica, ancora una volta, l’arte del collage, in cui notoriamente l’abilità sta nel mettere insieme le immagini prescelte oltre che nel modo in cui queste si parlano.

La stessa Müller ha dichiarato che avrebbe voluto diventare una pittrice da bambina («non c’è dote che avrei desiderato di più») e la sublimazione del desiderio l’ha condotta verso la composizione di collage, in cui variamente sono accatastate immagini ritagliate e parole o lacerti di parole. All’inizio, ha confessato, questa passione era nata per gioco: «quando trovavo una frase che mi infastidiva la ritagliavo», poi mano a mano è divenuto «un lavoro letterario», e solo in questa forma, con le parole stampate davanti sul tavolo è possibile costruire una «storia in modo che mi lascino fuori e che ci sono dentro». Nei collage la particolarità secondo lei è il fatto che il risultato è affidato alla combinazione imprevedibile e involontaria, «più di quando si scrive (…): ti potrebbe venire paura se pensi a quanto tutto sia sottoposto al caso». Le parole si connettono alle altre, acquistano nell’accostamento un significato differito da quello iniziale; quel che ci costruisce appare uno spazio auto-contenuto, con una tecnica che mira alla negazione e alla sottrazione: «tengo questi collage sparpagliati sul mio tavolo per due o tre giorni senza riuscire a decidermi – ha raccontato – e penso sempre forse lo farò in modo diverso, poi mi succede che dopo sei o sette spostamenti torno alla prima versione. Ogni tanto mi dico, uno deve anche poter smettere, probabilmente non poter smettere è peggio che smettere troppo presto».

Le sale del «Nobel Museum» di Stoccolma, che si trova nella parte antica della città, contengono oggetti feticci appartenuti agli scrittori, oggetti personali che ciascun vincitore ha voluto lasciare in dono: ci sono, ad esempio, i cappelli di Soyinka o l’ippopotamo di legno in miniatura che Vargas Llosa teneva sulla scrivania; Herta Müller ha donato un suo collage e le forbici con cui ritaglia: «in fondo cercare e non trovare delle parole rispecchia la vita quotidiana, perché le parole ritagliate diventano degli oggetti. A volte non le posso più vedere, è come quando si toglie l’intestino da un animale». La scelta del collage è anche un modo per rimarcare che c’è un filo che l’unisce all’atto della scrittura: «In entrambi i casi si tratta di creare un senso tagliuzzando il tessuto delle parole. Ritagliare, rovesciare, mettere del bianco intorno… I miei libri spesso li passo e ripasso più di una decina di volte. Sfrondo il più possibile. Stilografica o forbici è la stessa cosa, arrivo allo stesso risultato»[14. F. Noiville, Herta Müller, Io scrittrice da Nobel per caso che volevo fare la parrucchiera, in «La Repubblica», 5 aprile 2012, consultabile alla URL: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/04/05/herta-muller-io-scrittrice-da-nobel-per.html (ultima consultazione: 2 dicembre 2017).].

Se si cresce all’interno di sistemi chiusi, dove la paura può essere instillata da una mentalità collettiva punitiva e oppressiva, oppure, come avviene nei regimi totalitari appunto o all’interno di un lager, dove l’individuo è sottoposto a un processo programmato di annullamento del sé e sua progressiva distruzione, la paura diviene una specie di altare a cui è inevitabile, sostiene la Müller, essere sacrificati. Come in un rito purificatore però, la paura, che è per alcuni un odore, per altri un sapore, un’emozione, per altri ancora una luogo, una situazione, un ricordo, una condizione sociale o politica, è per lei soprattutto «scuola», cioè fornisce paradossalmente anche gli anticorpi per resistere e uscire fuori dal trauma. Su questo punto è sempre stata molto chiara sia negli interventi pubblici sia negli scritti teorici: a suo parere, se attraversi la paura, partecipando tuo malgrado al rito di espiazione, rimanendone vivo, allora puoi riscoprire l’unicità dell’esistenza. Ed, essendo lei stata educata alla paura, la paura è divenuta una sorta di chiave con cui arrivare alle cose. La paura ha tenuto in movimento, costantemente attiva, la sua fantasia e, dal momento che necessita del nutrimento di altra paura per affrontarla continuamente, incredibilmente l’ha allenata, l’ha costretta a stare allerta, ha innescato una reazione: coloro che non si sono confrontati con questa paura, che si sono rifiutati di fare i conti con le sue minacce, ha spiegato più volte, hanno finito per esserne distrutti in pochissimo tempo. Bisogna saper guardare ai meccanismi autopunitivi che la paura mette in moto, comprendere davvero la sua tirannide per ogni mente che ne è penetrata, se si vuole trasformare questa maledizione, questo sortilegio in forza, e reggerne l’urto.

La parola, il racconto, sono stati il suo modo di vivere la paura: mettendo le sue giornate nero su bianco, riscrivendo esperienze personali, rielaborando il proprio sostrato biografico, la mente ha imparato a rapportarsi con la paura. In questo modo il sentimento della paura ha per lei acquisito i gradi di maestro della percezione, è divenuto uno straordinario, doloroso vettore per rimanere in piedi: la letteratura non può cambiare il mondo, ha affermato, ma può mostrare cosa accade quando si è vittima della paura. Anche la minoranza tedesca in Romania ha vissuto a contatto con la paura, ma in un modo fortemente auto-restrittivo, consolatorio, spesso violento o respingente verso ogni altra cultura forestiera: la minaccia che sentivano aleggiare sopra di loro i componenti della comunità nasceva dall’illusione di possedere un’identità univoca[15. Cfr. A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. ], come la chiamerebbe Amartya Sen, dalle quale prende corpo una «paura di tutto», che è primariamente paura dell’esterno, paura «di perdere la propria identità», «paura di mischiarsi», paura di relazionarsi con l’altro da sé, come se chiusura e paura si alimentassero vicendevolmente: «Si sono stabiliti in Romania trecento anni fa con i loro sacchi e non hanno accettato nulla di nuovo»[16. H. Müller, La paura non può dormire, op. cit., p. 47.], ha osservato la Müller, perfino nel vestire, nel cucinare, nelle abitudini tradizionali, nei canti è stato eretto un muro.

La parola «identità» viene, invece, rifiutata a favore della «soggettività»[17. Cfr. B. Hines, M. Littler, Contemporary Women’s Writing in German: Changing the Subject, Oxford University Press, Oxford 2004.], come accade nelle opere di altre scrittrici di lingua tedesca del secondo Novecento, da Ingeborg Bachmann a Christa Wolf a Elfriede Jelinek: il soggetto protagonista, anzi, non si adatta alla collettività, attua al contrario una personale forma di rifiuto, più disperato che resiliente. La paura sentita e impersonata dalle voci narranti della Müller si discosta, così, fortemente da quella conosciuta tra la agente di Nitzkydorf: le sue storie raccontano della crudeltà e della solitudine di una minoranza nella minoranza che vive all’interno di uno stato repressivo.

Per quanto possa suonare paradossale, la paura diviene per lei un vero e proprio strumento di conoscenza. In un’intervista spiega questo concetto usando la metafora del camminare: «così come un bambino impara a camminare» ˗ immagino dapprima traballando e facendo infruttuosi tentativi, per poi passo dopo passo adattarsi al ritmo sorprendentemente naturale del movimento – allo stesso modo secondo lei «la mente impara a muoversi nella paura», «per vedere che succede», «per capire se si può sopportare», abituandosi a reagire o a farcela nonostante incomba una perpetua minaccia.

Da un punto di vista autobiografico, riferendosi alle pressioni psicologiche e fisiche attuate dagli scherani del regime di Ceausescu, è lei stessa a confessare che passare attraverso la paura era un modo per non farsi sfuggire via la propria vita: «Se ti sei abituato alla paura perché non hai avuto una scelta, perche dovevi vivere con lei, non va piu via»; ma lentamente apprende come resistere, si allena nella tensione alla paura, istruendosi a reggerla sempre più, anche affinando la sua vista, immergendosi nel dettaglio per comprendere l’insieme, in direzione della distrazione e perfezione del minimale. Più si va nel dettaglio, più comprende: non c’è l’esattezza dell’insieme, ma la profondità. Questo passaggio mentale riguarda anche i suoi personaggi e si riverbera sulla prosa con continue metafore sul decadimento e sulla morte[18. Cfr. K. Bauer, Eke, Norbert Otto. Die erfundene Wahrneh-mung: Anndherung an Herta Midler, in «The German Quarterly», vol. 72, n. 4 (Autumn 1999), pp. 421-22.], con una deromanticizzazione del loro sguardo, con l’emergere di un impulso a decostruire la realtà e la conseguente perdita di connessione con il mondo circostante. L’atto dello scrivere ha a che fare anch’esso con la condizione emotiva della paura che trasforma la tipologia dello sguardo di chi la prova. Come se la scrittura sorgesse dalle situazioni d’emergenza che ha vissuto sulla sua pelle: «non avrei mai scritto se non mi fossi ritrovata in una situazione di pericolo, di deprivazione», dice, confessando di aver sempre detestato la scrittura, di essersi limitata a comporre un paio di poesie– che ha definito «puerili» ˗ quando era al liceo e di aver continuato a detestare la penna anche dopo, mentre studiava all’università. «La scrittura mi ha poi colpito quando non avevo scampo», che è anche un modo per trovare una ragione à rebours.

Al di là della cronaca o della polemica accademica, per cui non pare indifferente la ricorrenza del ventennale della riunificazione della Germania nell’assegnazione del premio nobel 2009 proprio a una scrittrice come lei, uno degli aspetti più interessanti del suo discorso poetico, tra i tanti indubbiamente presenti, mi pare si possa individuare proprio nella convinzione che paura e percezione siano come due fili che si intrecciano per poi convergere verso un unico destino. Il primo è, letteralmente, un addestramento, un esercizio di conservazione, una sensazione costante e in movimento che aiuta ad affinare le proprie riflessioni e a conoscersi meglio, o con maggiore consapevolezza. Nei suoi romanzi è spesso la paura ad attivare la tensione che scuote il pensiero, come i protagonisti imparano sulla propria pelle quotidianamente. La tensione determina, poi, tutto il resto, dall’avvitarsi su se stesso dell’io narrante alla sua autoanalisi depressiva, al riconoscersi solo come la scheggia minoritaria di un intero comunque frammentato e dal significato irraggiungibile; dal gorgo dell’alienazione in cui si cade alla ricerca di un consolatorio isolamento, alla condanna della non appartenenza che porta l’individuo a percepirsi come straniero; fino alla dicotomia tra disprezzo e amore che connatura quasi tutti i suoi personaggi, perché, anche quando disprezzano, Irene, Lola, Lilli o le altre protagoniste anonime non possono smettere di amare.

Allo stesso tempo sintomo, mezzo e sentimento prettamente umano «perché non si trova in natura», la paura alberga, ci rammenta la Müller, da assoluto dominatore della nostra mente. Letteralmente «si crea nella testa», tanto da renderci assuefatti alle sue strategie e ai suoi meccanismi punitivi, dando vita a una specie di coesistenza senza scelta, come una maledizione, onnipresente e omnicomprensiva. Il cui effetto, pure, così come ci costringe a correre svelti per sfuggire a qualche pericolo, o a reagire pensando velocemente, è quello di insegnarci a sopravvivere, a sopportare, a volgere lo sguardo verso il dettaglio e gli oggetti – altri lessemi vitali della ricerca e dello stile della Müller -, dunque anche a dare vita al processo della scrittura, quell’«atto muto» «che parte dalla testa per andare alla mano», usando le sue parole, a cui ci si rivolge quando non si ha più scelta, quando prende il sopravvento e sembra vincerci l’ansia dell’ultimo respiro.

Il suo tracciato biografico all’interno del regime di Ceausescu, almeno fin quando non è riuscita a espatriare nella Repubblica Federale Tedesca nel 1987, il suo percorso di «pericolo» e «deprivazione» sia come intellettuale che si rifiutò di servire il regime sia in quanto appartenente a una minoranza etnica, chiarisce facilmente da dove provenga la cosiddetta «scuola della paura». Le notizie sulla sua vita sono arrivate da noi, per la verità, col contagocce e quelle poche trapelate sono apparse, perché ritrasmesse potenzialmente all’infinito dalla rete, come già masticate o riciclate. Per saperne di più, filtrando ciò che avevamo già appreso attraverso i suoi romanzi, abbiamo dovuto aspettare fino alla pubblicazione del volume La paura non può dormire, nel 2012, con la sua infilata di saggi e interventi pubblici tradotti in lingua italiana.

Dunque, in un’ipotetica linea cronologica abbiamo: la lingua rumena imparata solo una volta iniziata la scuola, con il tedesco come lingua madre; il peso da scontare nel presente del dopoguerra per il passato nazista del padre e l’adesione entusiastica all’ideologia hitleriana da parte degli altri famigliari e della comunità in un senso più ampio; le lezioni di letteratura all’università di Timisoara; l’impiego come traduttrice in una fabbrica di macchine utensili; le poesie che recitava tra sé e sé durante gli interrogatori a cui la sottoponeva la polizia segreta, che avevano a suo dire una funzione simile a quella di una preghiera per il credente; il rifiuto di lavorare per la Securitate e diventare una spia, con il susseguente licenziamento e la ricerca di un modo di sostentarsi; infine l’approdo, come detto, all’insegnamento come maestra d’asilo e insieme come insegnante privata di tedesco.

Giovanissima entrò nell’Aktionsgruppe Banat, un’associazione politico-culturale nata nei primi anni ’70: del gruppo facevano parte scrittori e intellettuali che si richiamavano, sì, agli insegnamenti brechtiani ma inseguivano anche le suggestioni della Beat generation e la rivolta studentesca del maggio ’68. Diedero vita a una rivista, «Neue Nabater Zietung», fortemente critica rispetto alle censure del regime, poi nel ’75 il movimento fu costretto a sciogliersi: «ad un certo punto capimmo che la nostra volontà di restare non portava a nulla e allora maturò in me l’idea di andarmene (…), l’idea divenne una necessità, una urgenza non più procrastinabile (…). Fino a che arrivai al punto di non poterne più psicologicamente e fisicamente»[19. Cfr. K. Bauer, Tabus der Wahrnehmung: Reflexion und Geschichte in Herta Miillers Prosa, in «German Studies Review», vol. 19, n. 2, maggio 1996, pp. 262 e sgg.]. E con il marito Richard Wagner, che aveva aderito anche lui all’Aktionsgruppe Banat, riuscì a scappare a Berlino, mettendo in pratica quel sogno di volare altrove che accomunava i giovani rumeni, sogno simbolicamente raffigurato nel destino dei quattro ragazzi protagonisti del Paese delle prugne verdi, forse una delle sue rappresentazioni più commoventi della lotta per l’esistenza nella Romania comunista. Secondo un servizio trasmesso dalla rete televisiva tedesca Ard, ripreso dal corrispondente a Berlino del «Corriere della Sera», Danilo Taino, un membro del gruppo di intellettuali del bananato di nome Franz Thomas Schleich, che era stato suo amico e collega di penna nella rivista, la spiò per anni per conto della Securitate. Il fatto che non lo sapesse non sorprende di certo. Mi pare, poi, sia stato tra i primi Enzo Bettiza a ricordare, tra le altre cose, che la Securitate aveva fabbricato, con lo scopo di screditarla, un falso dossier in cui compariva una doppia Herta Muller, fedelissima alla linea e iscritta al partito: «Dovunque andavo mi sono trovata sempre a combattere con questo mio doppio», ha detto nel 2008. «Benché io abbia scritto sempre e soltanto contro la dittatura, lui continua a battere la sua strada per contro proprio. Si è reso autonomo. Seguita a vagarmi intorno come un fuoco fatuo. Per quanto tempo ancora?».

Il confrontarsi con le minacce della dittatura e le angosce che ne derivavano, convivere con la loro presenza, perfino razionalizzarle o farci l’abitudine ha reso possibile, al contrario dell’intento del regime comunista, il sorgere della volontà di non farsi distruggere, quel senso della sopravvivenza che per lei – lo ha detto e ripetuto molte volte ˗ è solo possibile mediante l’attivazione del meccanismo della scrittura: «Di fronte alla paura della morte, la mia reazione è stata una sete di vita. Una sete di parole. Solo nel turbinio delle parole potevo riuscire a mettere veramente a fuoco il mio stato».

La scrittura ha, dunque, un carattere salvifico, quasi taumaturgico. O, come scrive la Gordimer, «nuove forme di bellezza nascono dallo scontro tra dominazione e resistenza». Una volta arrivata dall’altra parte, non propriamente felice d’essere immessa tra i letterati del dissenso, preferì tenersi lontana anche dall’associazione degli scrittori rumeni sorta dopo l’89, che un giorno apostrofò come un manipolo di «geni lacrimevoli dediti al lamento» che «portano avanti un discorso fascistoide sfruttando i sentimenti nazionalisti latenti nella popolazione rumena». La questione della divisione in campi nettamente opposti delle vittime e dei colpevoli nella società del socialismo reale resta nei suoi romanzi un nodo intricato, non completamente risolto, direi volutamente ambivalente, e lo stile frammentario e paratattico o la sovrabbondanza di immagini e di dettagli serve, appunto, come piano di appoggio. Ricordo un’intervista di qualche anno fa in cui la Müller denunciava l’amnesia collettiva dei propri concittadini dinanzi ai disastri del passato, che non consentiva di fare i conti fino in fondo con la propria storia – un processo di cancellazione che noi italiani conosciamo molto bene. Il rinnovamento della lingua tedesca che lei e tanti altri scrittori hanno attuato dal di fuori, come forza centripeta, ha funzionato da nuova sistole, irrorando sangue fresco nella letteratura germanica: come giustamente notava Pressburger, il fatto che in pochi anni due autori originari di quelli che una volta si chiamavano i paesi dell’Est, quasi sconosciuti da noi, abbiano vinto il premio Nobel (Imre Kertèsz e appunto Herta Müller) è indice che «in quelle nazioni un tessuto sotterraneo unitario non ha mai cessato di esistere, nel campo della cultura. Questo tessuto, già dato per morto, ha continuato invece a vivere e funzionare sotto qualunque regime e ordinamento politico»[20. G. Pressburger, Herta Muller. La scrittrice che svelò i dannati di Bucarest, in «Il Corriere della Sera», 9 ottobre 2009, p. 51.].

Il secondo filo di cui si parlava, cioè la percezione, affonda e si forma proprio nella paura. Il modo di vedere coincide in lei col modo di raccontare. La prospettiva dell’io narrante dei suoi romanzi è spesso rivolta alla definizione del frammento, all’osservazione del particolare – oggetti e gesti soprattutto –, operazione che agevola l’andare in profondità annullando l’imprecisione data dalla visione della superficie, della totalità. «Più vai avanti nel dettaglio, più riesci a vedere»[21. “Die Schule der Angst”: Gespräch mit Herta Müller, intervista di Beverley Driver Eddy, in «The German Quarterly», vol. 72, n. 4, autunno 1999, pp. 331 e sgg.], insiste la Müller, per cui è la visione stessa che determina, quando non amplifica, il senso di estraneità tipico dei suoi protagonisti. E ancora: «la paura è il maestro perturbante della percezione», come a voler ribadire che il secondo termine è conseguenza diretta del primo. L’effetto di tutto questo sul timbro stilistico è la produzione di una prosa che solo superficialmente può dirsi poetica e certo non è primariamente volta alla descrizione «della realtà dei diseredati» secondo la generica motivazione del Comitato del Nobel. Lo è, semmai, solo di rimbalzo. La sua è, invece, una voce letteraria che sembra nascere dallo stomaco, dal groviglio più che dalla bile, e che procede per segmenti, per salti temporali, teorizzando la virtù della perdita, «dal momento che anche nella vita stessa non è possibile registrare tutto», cioè la necessità di tralasciare porzioni del logico tessuto narrativo, l’omissione di quelle giunture raziocinanti che per molti costituirebbero invece i necessari raccordi tra un’immagine e l’altra, tra una vicenda e l’altra.

La tensione tra percezione e paura, declinata nell’accezione della migrante, della rifugiata costretta a rispondere tanto alla propria identità quanto a quella impostale dagli altri, permea, ad esempio, una delle sue prove più potenti, In viaggio con una gamba sola, riproposto da Marsilio a distanza di diciassette anni dalla prima edizione italiana subito dopo la notizia del conferimento del Nobel. Uscito in Germania nel 1989, in anticipo di qualche mese sul crollo del muro di Berlino, è un romanzo sull’esilio come condizione della mente prima ancora che come stato giuridico. Sull’esilio nella sua accezione più ampia, come metafora dell’esistenza umana. Fu il primo romanzo scritto dalla Müller dopo l’attraversamento della cortina di ferro, un trasferimento fortemente anelato e poi psicologicamente subito nella presa d’atto d’essere straniera in terra straniera, di vivere, cioè, in uno spazio intermedio in cui s’avverte il turbamento, lo smarrimento in relazione alla direzione da prendere.

Nel romanzo gli aspetti più propriamente biografici, con il processo di elaborazione della propria identità di espatriata e la conseguente ricerca di un rifugio individuale all’interno della Repubblica federale, assumono le sembianze letterarie di Irene, giovane donna dell’Est in fuga dalla dittatura, persa nella metropoli ancora divisa e lei stessa in bilico tra due mondi, vittima di una sorta di dislocazione, di provvisorietà esistenziale tra solitudine e appartenenza. Come molte delle donne ucraine e rumene che percorrono le strade delle città italiane, sui cui volti possiamo scorgere il desiderio di annullarsi, di allontanarsi, e l’inquietudine perenne dell’instabilità – esse medesime, dunque, viaggiatrici «su una gamba sola e sull’altra perdute» -, anche Irene pare aver inciso sulla pelle lo stesso tipo di sofferenza, che la precipita verso l’assenza o l’abitudine, «come se fosse viva solo a metà». La prima sensazione che Irene prova è quella dell’assenza («aveva come la sensazione dell’assenza»), e della condizione delle cose inanimate[22. H. Müller, In viaggio, op. cit., p. 14.]; l’ultima, quella dell’estraneità unita a un vago desiderio di fuga, dietro cui si potrebbe anche nascondere un gesto contro sé stessa: «Il desiderio di dormire era come una malattia (…). Irene era sdraiata al buio e pensava alla città. Irene si rifiutò di pensare ad un addio», così termina il romanzo.

Non saprei dire perché, ma ho ripensato a una storia che mi venne raccontata qualche tempo fa. A Roma ogni tanto capita che la metro resti bloccata. Per lo più avviene di mattina, perché le decisioni irrevocabili sono il frutto di soliloqui notturni. Proprio una domenica mattina una giovane donna ucraina aprì il proprio armadio scegliendo il vestito più bello, quello azzurro a fiori gialli. Poi, si avvicinò allo specchio del bagno truccandosi come se andasse a una festa del suo paese. Quando la vide uscire dalla sua stanza, l’anziana signora a cui faceva da badante le disse: «sei bellissima oggi, dove vai?». Lei salutò e si incamminò fino all’ingresso della metropolitana. Scese le scale senza fretta e senza fretta aspettò che sopraggiungesse il treno. Appena fu vicino, si gettò sui binari. Questa scelta, che l’Irene di In viaggio con una gamba sola non compie, è sempre presente come un’ombra, e il lettore la teme immerso nel circolare e affannoso interrogarsi sul rapporto che la lega alla visione delle cose: «Ho cercato di capire ˗ chiarì molto tempo dopo aver scritto questo romanzo la Müller – quello che prova una persona che da un paese dell’est viene a vivere in una grande città come Berlino. I suoi tentativi di adeguarsi al nuovo ambiente. Non è nuovo per me vivere in un paese senza appartenervi»[23. Ich bin ein lustiger Mensch, intervista di C. Geißler e M. Scholz, in «Frankfurter Rundschau», 24 agosto 2012.]. Per ogni espatriato come Irene è come se non si potesse sfuggire a quella condizione liminale di trovarsi sempre sul confine, con una parte di sé dispersa chissà dove e una muta ostinazione a continuare a vivere.

Proprio sul confine tutto ha simbolicamente inizio: in un villaggio di pescatori sul Mar Nero; all’interno di un’osteria durante una galeotta sera d’estate, Irene incontra un giovane studente tedesco di nome Frank. Lei ha già chiesto l’espatrio e attende che le diano il passaporto. Con lui intreccia una storia d’amore che, se all’inizio sembra appassionata e spontanea quando sono in Romania, dopo che la ragazza giunge a Berlino si trascina stancamente per poi finire. Non meglio va con il sociologo e più maturo Stephan, né con Thomas, un libraio omosessuale con cui passa solo una notte d’amore. Le relazioni sentimentali che stabilisce con questi tre uomini sono anch’esse irrigidite nello scacco, in una sorta di incomunicabilità che rivela la provvisorietà dell’amore, la sua insoddisfazione quando si è preda di un’«infelicità senza desideri».

Irene attraversa la Berlino pre-unificata da estranea, esplorando l’inganno che si cela nella sua patria immaginaria, nella sua nuova casa così fortemente anelata, sentendosi cosa inanimata, senza forza. Alla stregua di una flaneur dispercettiva stabilisce una relazione tra la città e la sua testa, reinventandola e presagendone il senso di sospensione e la stanchezza, perdendosi in una serie di vie traverse, di immagini slegate che appaiono e scompaiono come i suoi pensieri e come i suoi tre uomini. Le persone che conosce sembrano vivere esistenze separate; non mostrano un briciolo di autentico affetto, e d’altronde non sembra che l’autrice voglia dar loro fisionomie propriamente definite. Si affacciano sulla scena e poi spariscono con la stessa evanescenza ed estraneità verso sé stesse che hanno gli sconfitti; tutti sembrano costretti a muoversi portando un peso sulle loro spalle, tutti sentono di cadere nel vuoto pur restando sdraiati per terra, tutti sono condizionati da una paura che inaridisce ogni legame. Come le immagini, i volti delle città – Francoforte, Berlino, Marbur ecc. – che scorrono attraverso gli occhi di Irene, e che coincidono con i suoi stati mentali, così anche i volti, i ricordi di questi personaggi secondari si spezzano e si scompongono nella narrazione, seguendo il gusto del collage che è poi, lo abbiamo detto, la seconda arte della scrittrice tedesco-rumena. «Da quando vivo qui – dice Irene, ripetendo l’idea dell’atto dello sguardo propria dell’autrice – i particolari sono più grandi dell’insieme. A me non importa. Importa alle cose perché non se ne vogliono far accorgere»[24. H. Müller, In viaggio, op. cit., p. 35.]. Anche quando ottiene finalmente la cittadinanza, Irene si sente molto lontana dal concetto di felicità: solitudine e precarietà ˗ personale, storica, collettiva – non spariscono con un pezzo di carta. Il concetto stesso di patria è fortemente ambivalente: la patria e l’altro da sé lì lasciato sono come qualcosa che si porta in gola: «ognuno di quelli che parlava a voce alta nella sala d’attesa portava in gola anche un’altra persona»[25. Ivi, p. 23.], constata Irene. La Berlino pre-unificata della Müller non è certamente quella di oggi. Nel senso che l’attuale, pur essendo il paradiso degli architetti, produce uno strano effetto disarmonico sul viaggiatore, perché appare come un luogo privo di centro. La città in cui Irene va alla ricerca di sé stessa è il tempio della separatezza, il simbolo stesso di chi viaggia con una gamba sola, dell’essere divisi in due da un muro di cui oggi si conserva solo qualche traccia, nell’ambivalente sentimento dell’appartenenza anelata e dell’estraneità percepita. Il romanzo è intessuto delle rêverie di una città in cui macchine, passanti, foglie, asfalto si caricano di significati, anche in eccesso, divenendo il correlativo oggettivo di uno stato depressivo, di un disequilibrio presente perfino nell’andatura («camminava reggendosi sull’orlo estremo delle scarpe»); segnato nel corpo dalla paura (che è «come se si muovesse della sabbia sotto le costole») e dalla pesantezza («ogni mattina mi sveglio con la certezza di fare qualcosa di sbagliato»); in un insistente ripetersi di spazi liminali – soglie, binari, confini ecc. Un’inquietudine costante gira intorno a Irene, come se il suo corpo non vivesse nelle cose ma nelle conseguenze delle cose: c’è la paura di lasciarsi cadere, la paura nel corpo, la paura nello stomaco. Gli individui parlano da soli, come se fossero degli automi, per cui comunicazione e interazioni sono impossibili. Tutto ciò che la circonda sembra essere un ammonimento, o così lei lo vive, compresi i segni o i cartelli stradali, e questo non fa che dilatare il suo senso di abbandono e di soffocamento. Il tentativo di adeguarsi alla nuova realtà berlinese fa, allora, i conti con la visione straniata di gesti e oggetti quotidiani, percepiti come se fossero corpi separati che si insinuano nella sua mente, e dai quali la protagonista in esilio volontario è insieme affascinata e scossa. La sua lotta è con la concentrazione del pensiero, che fa sì che il corpo diventi prigioniero delle parole; lo scopo, l’anelito è non percepirsi più come una macchina inceppata, un cardine rotto che gira a vuoto, affinché possa uscire dalla sua condizione di provvisorietà (e questo sentire di avere due patrie e insieme non possederne nessuna, di scrivere altrove rispetto al luogo dove si è nati, utilizzando un’altra lingua, è un tema prettamente novecentesco dal punto di vista della letteratura: basti qui ricordare i casi di Beckett, Joyce o Canetti).

Questa ossessione dello sguardo straniante nei confronti della materia è un altro mezzo per unire paura e percezione. Non a caso, forma il nucleo genetico anche di Bassure, il romanzo che più di ogni altro guarda alla realtà rurale della comunità tedesca del Bananato, «la prima dittatura che ho conosciuto», come l’ha definita lei stessa. E in Bassure, composto, nella versione più recente, da diciannove storie che potrebbero essere anche lette come un romanzo, denuncia per l’appunto l’isolamento e lo straniamento dell’individuo che non si vuole conformare alla società contadina, il rancore, la superstizione, l’odio serbati per anni all’interno degli stessi nuclei famigliari, la scelta della violenza intrinseca ai dettami non scritti della comunità sveva, la piaga dell’alcolismo e della dipendenza, l’infanzia piena di brutalità e terrore in una società patriarcale. Non mancano gli accenti ironici, come nel brevissimo scorcio del Bagno svevo, in cui tre generazioni si fanno il bagno una dopo l’altra nella stessa acqua che diviene via via sempre più nera.

La realtà esterna diviene sostanzialmente in queste narrazioni una metafora dell’esistenza. Secondo la prospettiva dell’io narrante, sensazione della paura e imminenza della morte contagiano non solo chi ricorda e racconta ma tutti quanti, animali ed elementi della natura compresi: non c’è scampo per nessuno nell’anti-idillio di Bassure. Ad esempio, nel momento in cui vengono strappate le penne dell’anatra prima di ucciderla, l’io narrante pone l’attenzione sul fatto che «la vena principale diventa subito visibile e sporge sempre più grossa e blu per la paura»; perfino le formiche nel barattolo di zucchero della nonna, ricorda la voce femminile dell’eponimo racconto, «mi facevano paura, erano così piccole e tante, e non facevano rumore mentre lavoravano». O ancora, a proposito del senso di gelo e lontananza dalla comunità: «Quando mangio io penso a qualcos’altro. Non vedo con i loro occhi, non sento con le loro orecchie. Non ho neppure le loro mani». Il titolo di questo libro, originariamente pubblicato nella Germania dell’Ovest ma composto prima in Romania, nasce da alcuni versi di Johannes Bobrowski, poeta che morì a Berlino, nella parte orientale però, nel 1965: «Noi che viviamo nei bassipiani comprendiamo la morte / poiché non ci è estranea / essendo cresciuti con essa».

Il termine «bassure» può essere, dunque, inteso in una doppia accezione, quella di bassopiano, con i suoi riti e le sue tradizioni, e quella della bassezza morale, della depravazione degli abitanti del villaggio. Aggiungo una postilla. Nel romanzo pubblicato dall’editore Keller, Il paese delle prugne verdi, la paura è consustanziale al paese in cui è ambientata la vicenda, esattamente come accade in Bassure, anche se sorge non dall’interno dell’enclave tedesca ma dal controllo onnipresente esercitato sui cittadini da parte degli apparati del dittatore. Scritto, ci informa la scrittrice, «in ricordo dei miei amici uccisi sotto il regime di Ceausescu», il libro ruota attorno al suicidio di Lola e a come lo vivono i suoi quattro amici, tutti spinti dal desiderio di andar via, di fuggire dal dispositivo totalitario: «dovevamo camminare, mangiare, dormire, amare qualcuno nella paura»[26. H. Muller, Il paese delle prugne verdi, traduzione di Alessandra Henke, Keller editore, Rovereto 2007, p. 11.] si legge fin dalla prima pagina, ma la sensazione interna si trasferisce per osmosi all’esterno, oppure in un modo arbitrario gli è attribuita: «Nella paura si sentivano a casa. La fabbrica, la bodega, i negozi e i quartieri residenziali, le sale della stazione e i viaggi in treno con campi di grano, girasoli e mais stavano all’erta. I tram, gli ospedali, il cimitero. Le pareti e i soffitti e il cielo aperto».

Il tentativo di tener viva la memoria della loro amica dà l’avvio, per ciascuno dei quattro giovani dissidenti, a una presa di coscienza della condizione personale di fallimento e, in parallelo, di quella del paese: la stessa Lola è il simbolo della giovinezza che è destinata a perire; certi ideali e aneliti che fuoriescono in ogni adolescenza non posso resistere se si cresce in un regime dittatoriale. La perdita del lavoro certifica successivamente il loro fallimento: «Quando perdemmo il lavoro, ci accorgemmo che vivere senza questa sofferenza sicura era peggio che vivere sotto la sua costrizione (…). Eravamo stanchi, stufi delle dicerie sulla morte imminente del dittatore, stanchi dei morti per fuga, sempre più spinti verso l’ossessione della fuga, senz’accorgercene. Il naufragio ci sembrava tanto normale quanto il respiro».

Ancora più marcatamente che altrove, nel romanzo In viaggio con una gamba sola il rapporto tra paura e percezione sovrastruttura poeticamente il linguaggio prosastico, rendendolo originalissimo. La lingua si serve della percezione come di un veicolo di trasporto che trasforma oggetti e natura in materia suggestiva per il soggetto che li osserva: ne deriva un registro stilistico formattato sullo stato emotivo, pieno di venature liriche. Questi due principi enunciati dalla stessa scrittrice chiariscono quanto ora detto: «lo sguardo con cui si osservano le cose che traduce le cose in parole non è esso stesso razionalizzabile»; e poi: «un oggetto è una materia estranea che si insinua e la fascinazione si forma dall’estraneità». Anche Irene ha il proprio collage, il proprio esercizio letterario alla sopravvivenza in cui si intrecciano foto-testuali, mosaici di parole, puzzle di immagini, senza però la gioia dell’accostamento magico: in un foglio da imballo Irene ritaglia e incolla una strada sopraelevata, un anziano che legge il giornale, un pollice grande, un orologio e una ruota gigante, un revolver col colpo in canna, un uomo che va in bicicletta e altre immagini ancora, che obbediscono solo alla sua scelta casuale; al centro della composizione, come un punto di fuga, c’è «un portone spalancato davanti al quale il selciato conduceva al nulla». Tutto (sembra dirci la scrittrice) si riconosce per pezzi, per parti, per frammenti che illustrano la complessità e conducono verso un insieme disorganico che stride nei contrasti producendo senso, un insieme non riproducibile che diventa una storia.

Nel romanzo L’altalena del respiro[27. H. Müller, L’altalena del respiro, traduzione di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, Milano 2010.], la funzione del collage di parole tipica della sua prosa è quella di restituire non lo stato d’animo della dislocazione o l’ansia della fuga, ma gli interrogativi morali e il senso della catastrofe dei prigionieri di un campo di lavoro in Ucraina. Con questo romanzo la Müller ha rotto una sorta di tabù della comunità sveva, narrandone la deportazione nei campi sovietici da parte delle forze di liberazione durante e dopo la guerra: ufficialmente venne catalogata come un contributo alla ricostruzione dell’Unione sovietica, in realtà si trattò di una ritorsione per gli anni in cui, con al potere il maresciallo Antonescu, la Romania si era unita ad Hitler e Mussolini, divenendo una costola del fascinazismo europeo: secondo le stime ufficiali, dei centomila rumeni di origine tedesca spediti nei Gulag, circa diecimila non fecero mai ritorno.

Ispirato alle esperienze degli internati del suo villaggio (tra cui anche sua madre), che ne parlavano «bisbigliando» o malvolentieri per non rinvangare la convinta adesione al nazismo del romanzo, il romanzo della Müller era nato come un progetto a quattro mani con il poeta tedesco-rumeno Oskar Pastior, di cui lei andava annotando i ricordi di internamento fin dal 2001 e con cui fece anche «un viaggio di ritorno» nel 2004, una visita al suo campo di prigionia nelle zone carbonifere del bacino del Donek, in Ucraina. Trasferta che finì, come ha ricordato la scrittrice, con il poeta che ingurgitò una quantità industriale di cibo e di dolci nonostante il diabete, asserendo di star nutrendo la propria anima, e in ricordo della fame che aveva patito negli anni di reclusione e lavoro forzato. Domenica Pinto ha scritto che «la base documentaria di Pastior, le sue memorie – era stato a lungo prigioniero in Ucraina – fanno di questo libro quasi un’opera scritta a quattro mani con un morto»: L’altalena del respiro rappresenta, in fondo, un omaggio alla figura di Pastior, ai suoi cinque anni trascorsi in condizioni fisiche e psicologiche spaventose, e al suo impegno di resistenza. Pur se l’autrice nella postfazione assicura d’averlo composto qualche tempo dopo la sua morte, è come se si fosse coscientemente e fortemente identificata col destino del poeta deportato, rendendo quest’opera che appartiene alla più classica letteratura del lager anche una testimonianza della ricerca di una dimensione linguistica ed estetica; come se fosse la fantasia ad avergli salvato la vita, ad aver allontanato l’angoscia, la paura, la fame provate tra le baracche del campo di lavoro. Nel suo intervento al Festivaletteratura di Mantova, l’autrice confessava di non aver potuto contare su memorie famigliari, perché, ad esempio, le parole abitualmente espresse dalla madre per descrivere la sua detenzione nei campi di lavoro si erano mostrate inutilizzabili perché criptiche: «il loro senso era fossilizzato, suonavano ormai irrimediabilmente vuote, come trepertrefanove. Volevo finalmente scoprire cosa si nascondeva dietro queste frasi». Il lettore si unisce al narratore diciassettenne Leopold mentre sta infilando le proprie cose dentro la custodia di un grammofono che usa come valigia e si appresta a seguire i soldati sul carro bestiame che porterà lui e altri internati al Lager ucraino: vivendo clandestinamente la propria omosessualità, considerata un «abominio» dalla sua famiglia e dalla comunità tedesca in cui è cresciuto, intravede nella sua deportazione, avvenuta nel gennaio del 1945, la possibilità di un’evasione, o, più ingenuamente, di un’avventura. Nel campo, invece, la sua vita collassa: conosce l’esperienza totale dell’alienazione, e questo punto zero esistenziale cambia anche la prospettiva morale con cui osservava e giudicava il reale. Sotto la minaccia della morte per fatica, per fame, per congelamento, i prigionieri rubano in continuazione, mendicano di porta in porta, frugano tra i rifiuti della mensa, si cibano perfino delle erbacce che crescono intorno al campo. Sfaldatisi i confini tra bene e male, finisce per crollare anche per lui l’ordine su cui si reggeva la sua esistenza: come gli altri anche lui ruba, anche lui mendica di porta in porta, s’abitua a vivere tra la sporcizia e i pidocchi, e all’umiliazione della nuca rasata; anche lui osserva la morte altrui con indifferenza, appiattendosi sul presente e cercando di sopravvivere con tutte le proprie forze. Sperimenta sulla propria pelle la diminuzione a una vita animale e la perdita di dignità, come hanno raccontato tutti coloro che hanno conosciuto l’atrocità del Lager, che hanno vissuto all’interno di un mondo «pragmatico», in cui «non ci si può permettere né la vergogna né l’orrore», come sottolinea Leopold. «La quotidianità comprendeva il marciare in colonna, il lavoro duro, l’appello serale, la fame cronica»[28. Ivi, p. 89.], ma a questa discesa verso una dimensione primitiva, disumana, Leopold cerca di reagire tentando di non perdere un residuo di umanità, per cui resta disperatamente attaccato alla vita, una riserva di forza la cui misura è sconosciuta anche a noi stessi. Il romanzo procede per eventi, come se fossero tanti ricordi messi assieme: ai fatti riportati sono inframmezzati flashback sulla vita nel villaggio (e sul convinto sostegno alla follia nazista dei suoi componenti) e continue immagini di morte. Il racconto è popolato di personaggi emblematici: c’è la distributrice del pane Fenja, che assolve al proprio compito con indifferenza al destino degli internati e, con paziente disciplina, «come la dea della giustizia» pesa le pene che infliggerà; c’è la ritardata Platon-Kati, chiusa nella propria idiozia e per questo impermeabile all’umiliazione, che non conosce la vergogna né riconosce le regole della società che vengono deformate nel campo di prigionia, dunque non esce sconfitta dal sistema concentrazionario. L’unico vero trionfatore, tuttavia, è l’«Angelo della Fame», la divinità al cui volere sottostanno tutti i prigionieri, che cresce e impera sulle rovine dello stomaco: come nel terrifico episodio dell’avvocato Paul Gast che immerge il cucchiaio nel piatto della moglie non appena ella distoglie lo sguardo, pur sapendo che diminuirne la razione ne avvicinerà la morte. Uno spettro, quello della fame, che il narratore cerca di contrastare «non separando l’ispirazione dall’espirazione», attraverso cioè uno scatenarsi di proiezioni, di allucinazioni, di rêverie, mediante un linguaggio poetico ricco di similitudini e metafore polimorfe, che servono a rendere abitabile il campo di lavoro anche quando si è al limite della sopravvivenza e che rappresentano il tentativo della Müller di trovarsi una strada lessicale all’interno della letteratura del Lager.

Dal punto di vista della struttura, il romanzo è composto da 64 brevi capitoletti incentrati su un’epistemologia di eventi, oggetti e materiali significativi che sono come dei frammenti narrativi pieni di tensione, elementi disorganici che raccontano il rapporto tra oppressi e oppressori, e quello dei prigionieri tra di loro, in cui è il dettaglio che dà l’esattezza della visione d’insieme: una serie di tableau opprimenti e pieni di tensione, come è stato giustamente notato. Sono i dettagli ˗ il carbone delle miniere, la polvere gialla della sabbia, l’albero di natale con le palle di pane, i mattoni pieni di scorie – che reificano i processi interni ed esterni dei personaggi, che sanciscono la perdita di controllo sulla propria vita; ed è da questi dettagli che Leopold non riesce ad affrancarsi una volta tornato a casa, cinque anni dopo, vittima di una nostalgia per il Lager che è come una sindrome di Stoccolma. Anche per lui, come per tanti altri sopravvissuti, l’ora della liberazione coincide con un’angoscia che non si estingue mai. Sogna di essere deportato ancora, una specie di attaccamento all’orrore, inspiegabile per chi non ha vissuto quella condizione, che lo spinge a prendere atto d’un principio tragico: «da sessant’anni so che il mio ritorno a casa non ha potuto ammansire la felicità del Lager»[29. Ivi, p. 248.]. Come un animale cresciuto in cattività che non riesce a sopravvivere, una volta libero.

Dal trauma non solo è impossibile affrancarsi, ma la paura, il terrore, il turbamento psichico cui dà vita instaurano un meccanismo perverso, per cui si prova nostalgia e senso di colpa, come se in quella dimensione fossero stati acquisiti dei traumi vitali da cui non si può ritornare, da cui non ci si può risanare: come se ci fosse stata pienezza, autenticità, profondità in quella condizione di fragilità. Leopold vi ha sentito la vita assieme all’orrore, e questo lo rende un luogo da cui non si esce più.

(fasc. 18, 25 dicembre 2017)