Pasolini oggetto di visione: l’intellettuale-attore e l’aspetto performativo delle sue interviste

Author di Maria Panetta

Nel presente contributo si prenderanno in esame alcune interviste a Pier Paolo Pasolini[1] oggi facilmente rinvenibili in rete e fruibili da parte del pubblico del Web: si tenterà di analizzare l’atteggiamento del Pasolini intervistato, e dunque oggetto di visione e non regista, “passivo” e non “attivo”, nella sua duplice dimensione di intellettuale e di “attore”, e anche di stabilire quanto dei temi ricorrenti e della poetica dello scrittore possano veicolare quei video oggi, a beneficio dei fruitori anche più giovani, che potrebbero essere più portati, rispetto ad utenti più “maturi”, ad avere un primo approccio alla sua opera tramite la visione di quelle registrazioni[2].

Intervistato il 22 febbraio 1968[3] nell’ambito della rubrica televisiva di Rai Tre Sapere. L’uomo e la società sulla lingua italiana[4], Pasolini risponde alla domanda del giornalista sulle ragioni per cui il nostro Paese, pur così diviso e «pieno di inimicizie municipali», abbia avuto presto una «lingua unitaria»: egli conferma che «l’italiano… praticamente è una lingua soltanto letteraria per molti secoli», ovvero, a suo dire, fino agli anni Quaranta o Cinquanta del Novecento. Il suo prestigio letterario è nato a Firenze, e (come sappiamo) i grandi padri della lingua italiana – Dante, Petrarca e Boccaccio[5] – si sono imposti nel panorama nazionale proprio per la loro autorevolezza dal punto di vista letterario. Aggiunge che «in questo momento abbiamo un italiano che è strettamente unitario dal punto di vista linguistico», ma che, quando gli italiani parlano, si esprimono ognuno in un italiano «particolare, regionale, cittadino, individuale» ovvero nella «koiné dialettizzata, l’italiano dialettizzato». Accanto all’italiano ci sono, poi, dialetti veri e propri, a dire di Pasolini «lingue potenziali che non sono arrivati al grado di lingua, perché sono stati soppiantati dal prestigio letterario del fiorentino».

Al giornalista che parla di vestigia, nella lingua italiana, della tormentata e «burrascosa» vicenda dell’unità nazionale Pasolini ricorda che esistono moltissime parole «di origine germanica, celtica, spagnola, addirittura araba», ma che rappresentano delle «tracce poco significative», perché, in realtà, l’italiano «linguisticamente è molto unito», unitario, e «la sua derivazione dal latino è molto precisa», anche perché, non essendo una lingua di origine burocratica o «comunicativa»[6] (come ad esempio il francese), «tende a essere molto… fissatrice delle proprie istituzioni linguistiche».

L’italiano, a dire di Pasolini, va cambiando nel senso che si sta facendo «più… veramente unitario», anche per merito della televisione, dei giornali oppure «della vita statale, che è infinitamente più unita che molti anni fa. Le infrastrutture sono enormemente accresciute». L’intellettuale ribadisce, inoltre, che «il centro linguistico dell’italiano», però, «non è più letterario e non è più Firenze, ma è tecnico, o tecnologico, ed è Milano»: infatti, «le parole tecniche sono una specie di cemento, […] di patina che sta livellando e unificando tutto l’italiano» (e porta l’esempio della parola “frigorifero”). Sollecitato in tal senso dal giornalista, Pasolini ammette di tendere «ad amare di più», «alla guida di una lingua nazionale, una lingua letteraria», ma, se questa lingua, anziché essere letteraria, è tecnologica, confessa con rassegnazione di non poter fare altro che prenderne atto.

Appare utile rilevare, al riguardo, che, ad esempio, nelle conversazioni con lo storico e saggista dublinese Jon Halliday, Pasolini affermava, proprio nel 1968:

L’italiano sta cambiando, trasformandosi da una lingua a base dialettale, e precisamente fiorentina, in un’unica lingua non più dominata e diretta da quella letteraria, ma dal linguaggio della tecnologia. La lingua italiana sta attraversando una sua specifica rivoluzione. La rivoluzione dell’avanguardia era solo una rivoluzione letteraria sbagliata e di modestissima portata, mentre qualcosa di molto più importante stava già avvenendo nell’insieme della lingua[7].

In un estratto da Cinema ’70 – Arte, élite e massa[8] Pasolini afferma (rispondendo evidentemente a una domanda appena postagli dal proprio interlocutore) di ritenere di poter arrivare a degli spettatori che non sono massa («perché la massa di per sé, per definizione, è antidemocratica, e alienante, è alienata e alienante») attraverso il «decentramento», commentando che «questo è molto idealistico […], ma, d’altra parte, uno scrittore non può non esserlo» (facendo riferimento anche a se stesso in terza persona, come se si stesse guardando dal di fuori, inserito in una categoria). Precisa, in seguito, che il «decentramento» è, a suo giudizio, «il problema fondamentale della civiltà di oggi, il bisogno di… delle autogestioni, che incombe su tutto il mondo». L’arte, a suo parere, «può arrivare, attraverso una serie infinita di decentramenti» e dichiara che questa gli «sembra l’unica via possibile», almeno in linea teorica.

All’intelligente domanda di uno studente che gli chiede come mai egli, che afferma di «volersi contrapporre ad una cultura di massa», adoperi un «sistema di produzione cinematografico classico, cioè… commerciale», Pasolini risponde che l’alternativa a quel sistema sarebbe «il suicidio intellettuale […] il suicidio dell’intellettuale», e comporterebbe la decisione di non fare cinema, mentre afferma che, dovendo scegliere, preferisce farlo: «io strumentalizzo la produzione che c’è», dichiara realisticamente, e «la produzione che c’è strumentalizza me», in un «braccio di ferro» del quale – ribadisce, in tono provocatorio, quasi di sfida – ammette di voler vedere in futuro «di chi sarà la vittoria finale».

Pasolini replica, poi, accusandolo di aver frainteso, alla successiva domanda di un giornalista sindacale che gli ricorda di aver affermato, all’inizio, di non aver «speranza di riuscire a dialogare con la massa […], e quindi si rivolge all’élite» (mentre l’interlocutore argomenta, Pasolini si sostiene la testa con tre dita della mano sinistra e sbatte spesso le ciglia nervosamente, come a volersi concentrare al massimo per poter rispondere al meglio al fuoco incrociato delle domande del pubblico in sala, disposto attorno a lui come ad accerchiarlo, nella probabile percezione del fruitore). Il giornalista gli domanda se non sia il caso di rivedere questo giudizio alla luce dei «recenti avvenimenti sociali, sindacali e politici degli ultimi anni in Italia», nel senso che «all’interno di una massa indiscriminata» sta emergendo, a suo dire in maniera chiara e precisa, «chiamiamolo il movimento operaio, la classe operaia», la quale «meriterebbe il contributo delle sue opere per migliorare la propria condizione culturale, sociale e politica». Pasolini argomenta che, infatti, quella che potrebbe sembrare «un’operazione apparentemente aristocratica», in realtà, è un «atto di democrazia», perché è proprio a quell’élite che egli intende rivolgersi, non all’«élite classica»; aggiunge, anzi, che sarebbe «un pazzo», se lo facesse. Ribadisce che il fraintendimento è frutto di un «equivoco verbale nato dalla parola “élite”»: egli, infatti, adoperando quel termine, non si riferisce all’élite «classica» dei «privilegiati detentori del potere, e quindi della cultura», ma – continua – l’élite «la cerco dove la trovo», e dunque anche in queste «minoranze operaie avanzate». Alla conseguente domanda evidentemente ironica dello scettico giornalista se il suo interlocutore, mentre il regista girava Medea[9], fosse «il metalmeccanico di Torino», Pasolini afferma di sì, che egli si riferisce a «un nuovo tipo di élite […], l’élite che è quel decentramento di cui parlavo rispondendo a Ghirelli, e che è quindi un fatto estremamente democratico […] che si decentra, quindi, dappertutto a qualsiasi livello». Il giornalista lo incalza: «noi non siamo élite, allora, risulta»; e Pasolini chiude: «voi siete l’élite classica, perché non vedo qui nessun operaio e nessun analfabeta, per esempio». Risulta forse utile ricordare, al riguardo, che l’intervista a cura di Guido Vergani apparsa sul «Mondo» e poi raccolta negli Scritti corsari col titolo 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia esordisce con l’affermazione «Noi intellettuali tendiamo sempre a identificare la “cultura” con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l’ideologia con la nostra ideologia»[10], laddove l’incipit appare indicativo, comunque, di un certo atteggiamento pasoliniano.

Ancora, nel video in b/n Perché non siamo una società felice[11], tratto dal programma RAI Donna donna del 21 settembre 1974[12], Pasolini puntualizza di rispondere non in qualità di «poeta», ma «come uomo che s’interessa del suo tempo», a una domanda rivoltagli da un’intervistatrice sul perché, nonostante il benessere, la società a lui contemporanea (ovvero la «famiglia umana» in senso generale) sia stata presa da una sorta di «angoscia collettiva»: oppressione, mancanza di libertà, conformismo[13] e ipocrisia sono, a suo dire, «tutti maturati in seno alle famiglie», perché la famiglia nasce come «piccola difesa un po’ meschina» nei confronti del terrore, della paura, della fame. L’uomo si crea una tana e in quella tana «fa quello che vuole: il padre opprime i figli[14] eccetera eccetera». D’altro canto, però, secondo il critico la famiglia è «anche il covo delle cose più belle dell’umanità». Egli ritiene, infatti, che ciò che il genere umano ha fatto sia di bene sia di male nasca da «questo rapporto ambiguo che il figlio ha con i genitori».

Pasolini rileva che è successo qualcosa a partire dagli anni Sessanta in Italia: siamo, infatti, passati da un’era in cui la famiglia era «veramente il nucleo di questo enorme mosaico che era la società preindustriale, cioè artigianale, contadina, marittima, pastorale eccetera» a una nuova era, la civiltà tecnologica, nella quale «la famiglia non serve più». Pasolini, interrotto (dal quesito se la famiglia davvero non serva più o se debba cambiare per adattarsi ai mutamenti), rigira la domanda alla sua intervistatrice (Jon Halliday ha scritto che, «Come tutti gli intervistati di classe, [Pasolini] era abilissimo sia nel rispondere alle domande sia nell’eludere gli argomenti di cui non voleva parlare»[15]), sulla quale prende il sopravvento anche “fisicamente”, spostandosi dalla propria posizione al centro del palco (in piedi, con un paio di occhiali scuri in mano) e scendendo “al suo livello”, a sedersi in mezzo al pubblico, distribuito in cerchio: di fatto, dunque, costringendo la propria interlocutrice, per un momento disorientata, a seguirlo accomodandosi anche lei accanto a una persona del pubblico e, di fatto, esautorandola del suo ruolo di conduttrice.

Egli sposta la questione sul piano del consumismo e sulle strategie degli imprenditori e dei direttori di azienda, che preferiscono relazionarsi col singolo consumatore o con gruppi di individui piuttosto che far fronte alle esigenze di interi nuclei famigliari. Allo stesso tempo, evidenzia come siano in atto dei fenomeni che dimostrano che la «famiglia si sta dissolvendo»: non è più quel «centro completo totale, quel codice primo del codice sociale che era una volta». I figli, ormai, passano «la maggior parte del tempo fuori», fa notare Pasolini. Aggiunge anche che al potere «non importa niente di educare il bambino»: al potere interessa «educare il bambino in modo che poi diventi un consumatore»[16].

All’ulteriore domanda di un ascoltatore che gli chiede se ritenga che l’evoluzione della famiglia passi per il processo di emancipazione della donna, Pasolini conferma e rileva che effettivamente la donna, in pochi anni, ha fatto passi enormi sulla via dell’emancipazione, ma ritiene che, invece, parallelamente, «tutta l’umanità» stia regredendo e peggiorando: dunque, la donna si ritrova a vivere in «un’umanità deteriorata, peggiorata da…, appunto, dalle civiltà consumistiche di cui parlavamo prima».

Da notare che motivi simili sono rintracciabili in Marzo 1974. Vuoto di Carità, Vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, raccolto negli Scritti corsari del 1975[17]: vi si afferma che la famiglia «non è più – quasi di colpo – quel “nucleo”, minimo, originario, cellulare dell’economia contadina com’era stata per migliaia di anni. Di conseguenza, per un contraccolpo perfettamente logico, la Famiglia ha cessato anche di essere il “nucleo” minimo della Chiesa»[18]. Contrariamente a quanto afferma nel video (successivo di qualche mese), Pasolini vi scrive che, dopo aver «rischiato, praticamente, di dissolvere se stessa e il proprio doppio mito economico-religioso»[19], la famiglia è tornata ad essere una realtà «privilegiata»[20] perché «la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione»[21]. A quell’altezza temporale, il singolo, infatti, nella visione pasoliniana della civiltà dei consumi, dev’essere sostituito dall’uomo-massa, ed è, quindi, «in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria»[22]. Rispetto a questo intervento pasoliniano, dunque, nella trasmissione di poco successiva c’è un rovesciamento di prospettiva, ma non si può non notare che i temi sono praticamente gli stessi e che coincide anche il lessico con cui le opinioni pasoliniane vengono espresse.

Pure nel successivo intervento Gli italiani non sono più quelli[23], uscito sul «Corriere della Sera» e poi raccolto negli Scritti corsari col titolo 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, Pasolini rileva che i ceti medi italiani sono radicalmente e antropologicamente cambiati: i loro valori sono quelli dell’ideologia edonistica del consumo e della «conseguente tolleranza modernistica di tipo americano»[24]. Il Potere stesso ha creato tali valori, attraverso il potenziamento della produzione di beni superflui, «l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione)»[25]. Pertanto, l’Italia contadina e paleoindustriale «è crollata»[26] e la cultura italiana si sta allontanando «tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista»[27].

Com’è noto, in Il Potere senza volto, apparso sempre sul «Corriere» e poi raccolto negli Scritti corsari col titolo 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, approfondisce il concetto, accusando tale “nuovo Potere” di aver omologato culturalmente l’Italia: un’«omologazione repressiva, se pur ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie di vivre»[28]. Il fine di ciò che Pasolini definisce “nuovo fascismo” è, dunque, «la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»[29]. Ancora, in 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, egli aggiunge che in Italia ognuno avverte l’«ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero […]. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una “falsa” uguaglianza ricevuta in regalo»[30], un’uguaglianza che induce gli studenti a parlare come libri stampati e i «ragazzi del popolo»[31] a perdere ogni «inventività gergale»[32], oltre ad essere accompagnata dalla tristezza (laddove la condizione contadina o sottoproletaria, secondo Pasolini, «sapeva esprimere […] una certa felicità “reale”»[33]). Di una «nuova qualità di vita delle masse, che è finora sfuggita sia al potere che all’opposizione»[34] parla anche in Apriamo un dibattito sul caso Pannella, pubblicato sul «Corriere» e poi raccolto sempre fra gli Scritti corsari col titolo 16 luglio 1974. Il fascismo degli antifascisti. Tutti questi temi, poi, si ritrovano anche nel notissimo “articolo delle lucciole” del 1° febbraio 1975.

Da ultimo, nel composito video senza data intitolato La tv, i mass media e l’omologazione[35], Pasolini ammette lucidamente di non avere speranze e di vivere giorno per giorno. Il giornalista Rai Enzo Biagi gli obietta che la società che egli non ama gli ha dato tutto – successo, notorietà etc. – e gli domanda cosa sia per lui il successo. «Il successo è una forma… è l’altra faccia delle persecuzioni», ribatte Pasolini con un’inquietante definizione: sostiene che sia «sempre una cosa brutta per un uomo», che può esaltare per un momento, regalare piccole soddisfazioni a certe vanità, ma resta «una cosa brutta». Fa, dunque, l’esempio dello stesso studio televisivo in cui si trovano, etichettando la situazione come “falsa”; alla richiesta di chiarimenti di Biagi, egli risponde che «la televisione è un medium di massa», che non può che «pacificarci e alienarci». Sostiene che, in realtà, non potrebbe dire tutto ciò che vuole, nonostante gli inviti a lui rivolti da Biagi a esprimersi liberamente, perché sarebbe accusato di vilipendio in base al codice fascista italiano. Confessa di autocensurarsi anche a causa dell’ingenuità e della sprovvedutezza di certi ascoltatori e aggiunge che chiunque ascolti da casa ha una posizione d’inferiorità nei confronti di chi parla in video, che si tratta di un rapporto «spaventosamente antidemocratico», al che Biagi ribatte che, a suo modo di vedere, il rapporto è, invece, alla pari perché il telespettatore, grazie agli ospiti in sala, rivive anche “qualcosa di proprio” e «non è in uno stato d’inferiorità». Pasolini concede che ciò possa accadere per i telespettatori più acculturati o appartenenti a strati sociali non umili, ma ribadisce che «le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, anche le più sincere».

Un altro interlocutore gli obietta di aver appena dichiarato, con tali affermazioni, la propria «appartenenza a un ceto intellettuale che è in certa misura incomunicabile» e che egli etichetta come «aristocrazia in senso buono», intellettuale e morale. Biagi non concorda e, con un commento (a dire il vero) piuttosto avulso dallo stretto contesto di riferimento, aggiunge di aver avuto l’impressione, riguardo a Pasolini, di una persona «che vive in una grande solitudine e che può, magari, sentirsi vittima o incompreso, e… in ogni caso rassegnato a quello che sono i fatti», scatenando la reazione urtata dell’intellettuale, che afferma con decisione di essere stato frainteso da entrambi. Biagi, evidentemente a propria volta infastidito, si rivolge al resto degli ascoltatori in sala per chiedere la loro impressione: un altro interlocutore sostiene, invece, che quella di Pasolini è «una visione niente affatto aristocratica», difende l’attenzione del critico per le relazioni tra esseri umani e ritiene che egli interpreti il mezzo televisivo come «un diaframma intermedio di cui non c’è nessun bisogno per i rapporti tra uomo e uomo». Lo reputa «eccessivamente pessimista», ma comprende che «non possa che essere pessimista e scettico».

Pasolini replica che il grande pessimismo implica sempre grande ottimismo[36], ma torna indietro (invero ritrattando) per chiarire di non aver fatto riferimento, in precedenza, alla situazione in cui si trova in quel momento in televisione (in realtà, visionando la registrazione, è assai semplice dimostrare il contrario): ribadisce, dunque, che «parlare dal video è parlare sempre ex catedra, anche quando questo è mascherato da democraticità, da eccetera eccetera».

Nella seconda parte del filmato, intitolata L’omologazione, una voce fuori campo esprime alcune radicate convinzioni di Pasolini: che «il potere vuole che si parli in un dato modo, ed è in quel modo che parlano gli operai, appena abbandonano il mondo quotidiano, familiare o dialettale, in estinzione». «In tutto il mondo ciò che viene dall’alto è più forte di ciò che si vuole dal basso», prosegue. «Ciò che resta originario in un operaio è ciò che non è verbale, per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo», aggiunge. Oltre alla «vecchia ferocia» dei campi di concentramento dell’URSS, alla schiavitù nelle democrazie orientali etc., mentre scorrono delle immagini di repertorio, viene ricordata «la nuova ferocia, che consiste nei nuovi strumenti del potere, una ferocia così ambigua, ineffabile, abile da far sì che ben poco di buono resti in ciò che cade sotto la sua sfera».

«Non considero niente di più feroce della banalissima televisione», afferma, poi, la voce fuori campo che propone il messaggio di Pasolini. Racconta di aver visto sfilare in video «un’infinità di personaggi, la corte dei miracoli d’Italia, e si tratta di uomini politici di primo piano»: la televisione fa di loro dei «buffoni», «riassume i loro discorsi facendoli passare per idioti, col loro sempre tacito beneplacito», oppure propone per intero, senza riassumerli, i loro telegrammi, «idioti come ogni espressione ufficiale». Il video, dunque, «è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’opinione pubblica, servilmente servita per ottenere il totale servilismo [con efficace gioco di parole], l’intera classe dirigente italiana»; tutto vi viene presentato come fosse «in un involucro protettore, col distacco e il tono didascalico con cui si discute di qualcosa già accaduta»: in realtà, «nulla di sostanziale divide i comunicati della televisione da quelli dall’analoga comunicazione fascista» (tema che abbiamo visto ricorrere specie negli Scritti corsari). Si ribadisce che importante è che in tv non trapeli mai nulla di «men che rassicurante»: l’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene permea, infatti, tutti i programmi televisivi ed «esclude gli ascoltatori da ogni partecipazione politica, come al tempo fascista», perché «c’è chi pensa per loro». Da tutto ciò nasce un «clima di terrore»: «non va pronunciata una parola di scandalo», «non può essere pronunciata una parola, in qualche modo, vera».

A questo compendio filmico di citazioni pasoliniane segue, in conclusione, un famoso video a colori girato sulle dune di Sabaudia, in cui un Pasolini vestito con un impermeabile scuro sopra la camicia rosa e il maglione di vari colori, e con i capelli scompigliati dal vento, ribadisce che «ora […] il regime è un regime democratico», però «quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere… il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece, riesce a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari». Il «vero fascismo è proprio questa… questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia», fenomeno che, a suo dire, è avvenuto nei dieci anni precedenti all’intervista: ne parla come di un «incubo», al risveglio dal quale «ci accorgiamo che non c’è più niente da fare».

Il video, che s’impernia tutto sul potente volto pasoliniano che pare quasi scavato dal vento, sullo sfondo di un ceruleo mare in tempesta e di un cielo grigiastro (colori che molto somigliano a quelli di certe ambientazioni di alcuni dei suoi più noti film), si conclude con Pasolini che si volta di scatto verso le onde e si affretta verso la battigia, dando le spalle alla telecamera (quasi in un moto di protesta nei riguardi del mezzo di cui, peraltro, si è appena servito per lanciare il proprio monito, il proprio messaggio di sfiducia nel presente e nel futuro: di rassegnazione). Un’uscita di scena repentina e teatrale, molto efficace, di cui il regista (in tal caso attore) è, di certo, assai consapevole. Basta rammentare le sue dichiarazioni a Jon Halliday:

Anche un’immagine sonora, diciamo un tuono rimbombante in un cielo nuvoloso, è infinitamente più misteriosa di qualsiasi descrizione, anche la più poetica, che potrebbe darne uno scrittore. Questi deve trovare l’oniricità attraverso un’operazione linguistica di grande raffinatezza, mentre il cinema è molto più vicino fisicamente ai suoni e non ha bisogno di alcuna elaborazione. Ha solo bisogno di produrre un cielo gonfio di nuvole e un tuono, e immediatamente si è vicini al mistero e all’ambiguità del reale[37].

Un fondale, dunque, accuratamente scelto (nella sua scarna desolazione) e un tempo meteorologico pazientemente atteso per conferire ancora più pregnanza alle proprie parole “apocalittiche” (se vogliamo, “profetiche”).

Nonostante tali motivi ritornino spesso nell’intera produzione giornalistica e saggistica pasoliniana, non si può non ricordare che proprio all’«acculturazione» è dedicato, in particolare, un articolo uscito sul «Corriere della Sera» col titolo Sfida ai dirigenti della televisione e poi raccolto, privato della parte finale, in Scritti corsari con il nuovo titolo 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione. Gioverà rammentare che in esso Pasolini scrive testualmente che «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi»[38]:

Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana[39].

Nell’ultimo saggio a firma di Paolo Lago[40], uscito per Mimesis Edizioni nel mese di giugno del 2020, lo studioso parte dal presupposto che il cinema pasoliniano, soprattutto per quanto concerne i quattro film ricordati nel titolo (cui egli dedica altrettanti distinti capitoli: Edipo re, Teorema, Porcile e Medea), sia contraddistinto da una contrapposizione di spazi fra ambientazioni di carattere borghese (perlopiù interni contrassegnati da funerei silenzi o discorsi ripetitivi, ridondanti e rutilanti, oppure esterni dai colori freddi e dalle geometrie oppressive) e prati di periferia, lande brulle e desolate, connotate da colori vivaci e brillanti, o deserti fuori dal tempo e mitici di un’Africa che è metafora di un mondo ancora non inglobato dalle logiche del capitalismo occidentale (viene qui ripresa la già menzionata contrapposizione fra Centro e periferie).

La «dialettica degli spazi»[41] descritta vede, però, l’ordinato spazio borghese quasi minacciato dalla possibilità che v’irrompa quello astorico del deserto, sempre latore del mito della barbarie. Come rammenta Lago, in una serie di interviste a Jean Duflot realizzate fra il 1969 e il 1975 e raccolte sotto il titolo Il sogno del centauro, Pasolini affermava che proprio la parola “barbarie” era quella che amava di più al mondo, perché sinonimo di una primigenia purezza: a tal proposito, appare opportuno ricordare ancora una volta la serie delle invettive di Pasolini contro la società dei consumi lanciate dalle pagine del «Corriere della Sera» di Piero Ottone e poi raccolte negli Scritti corsari, in cui il capitalismo occidentale – si è visto – viene interpretato come un nuovo fascismo o un nuovo regime nazista, avente come scopo l’omologazione totalitaria del mondo. L’opposizione degli spazi nel cinema pasoliniano implica, dunque, una contrapposizione di società: quella industriale e quella contadina, abitatrice di lande desolate che possono variare dal deserto alle periferie romane. In particolare, il critico ricorda al riguardo la valenza trasgressiva che Deleuze e Guattari attribuiscono allo «spazio liscio», a suo parere assimilabile al deserto abitato e attraversato dai nomadi.

Lago sostiene che la visione di Pasolini, in cui un universo arcaico e mitico dalle valenze positive si contrappone a quello della modernità industriale, potrebbe, a torto, apparire reazionaria: egli, invece, la riconnette al pensiero di Robert Kurz[42], che ritiene necessaria un’antimodernità radicale per emanciparsi dalla gabbia del valore e della merce tipica della società contemporanea. Lo spazio borghese, infatti, risulta essere asservito al neocapitalismo e in esso si muovono gli «individui a una dimensione» descritti da Marcuse[43], disumanizzati e robotizzati: è, dunque, uno spazio desacralizzato in cui, ad esempio, l’Ospite di Teorema (1968) può divenire elemento perturbante e portatore del sacro. Tale spazialità è anche protagonista di Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975), nel quale le torture dei fascisti divengono metafora della violenza e dell’alienazione connesse alla società dei consumi degli anni Settanta in Italia.

L’enfasi sul potente “gesto” finale del Pasolini che conclude il video girato sulle dune di Sabaudia, però, sembra quasi contraddire, nella prassi, quanto dichiarato dallo stesso nella Lettera del traduttore premessa alla sua traduzione dell’Orestiade[44], nella quale egli illustra di aver sistematicamente modificato i toni sublimi della trilogia, trasformandoli in civili e operando un avvicinamento alla prosa. Questo stile si accosta a quello che dovrebbe connotare il Teatro di Parola pasoliniano, di matrice intellettuale, che, nel suo Manifesto per un nuovo teatro (del 1968)[45], si contrappone a quello della Chiacchiera, borghese, e anche al Teatro del Gesto o dell’Urlo, antiborghese e le cui caratteristiche sono il focus sul dibattito, sullo scambio di idee e sulla lotta letteraria e politica.

Nel corso della propria trattazione, Lago fa sempre riferimento sia ai movimenti della macchina da presa (ad esempio, quello «tunnellizzato» che si ritrova in Porcile) sia alla scelta pasoliniana degli attori (Ninetto Davoli è visto come una figura quasi angelica e innocente di messaggero in Teorema, per fare un esempio). Quanto agli stili di ripresa, l’autore illustra efficacemente che le immagini relative ai deserti in Pasolini sono realizzate da una mdp «tremolante»[46] e portata in spalla, mentre quelle degli interni borghesi da una macchina rigidamente bloccata e ferma. Inoltre, i colori accesi e sgargianti connotano le ambientazioni desertiche o sottoproletarie, mentre languide tinte pastello contraddistinguono quelle borghesi. I due stili di ripresa, dunque, sottolineano proprio il conflitto fra i due universi contrapposti, anche se Lago evidenzia alcuni momenti di contaminazione e di ibridazione stilistica: ad esempio, in Porcile il vento che di solito connota il deserto invade lo spazio borghese, e lo stesso accade per il silenzio dell’universo arcaico medievale che, a un tratto, irrompe anche nell’altra dimensione.

È chiaro che un regista così consapevole del linguaggio cinematografico e dei suoi potenti mezzi espressivi non poteva non giovarsi delle proprie conoscenze/competenze al riguardo pure nei casi in cui si ritrovava, magari suo malgrado, a fare la parte dell’“oggetto di visione” anche televisiva, e dell’“attore”: ci sembra, dunque, che, nonostante Pasolini accusi sovente la televisione di non essere un medium democratico («Non c’è dubbio […] che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione […] specie, appunto, la televisione […], non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre»[47], ad esempio) e di veicolare un messaggio che, paternalisticamente, piove dall’alto sul telespettatore più o meno consapevole e dotato di strumenti culturali di decodificazione, pragmaticamente all’occorrenza se ne serva. D’altro canto, come già sottolineato, proprio nel secondo video preso in esame (Cinema ’70 – Arte, élite e massa) egli dichiarava, realisticamente e quasi cinicamente, riguardo al cinema a lui contemporaneo: «io strumentalizzo la produzione che c’è» e «la produzione che c’è strumentalizza me».

Anche solo analizzando i quattro video proposti, ritengo si possa concludere che un giovane che oggigiorno fosse incuriosito da Pasolini e tentasse un primo approccio al suo pensiero visualizzando i filmati facilmente reperibili in rete non avrebbe una percezione distorta del personaggio e dell’intellettuale; al contrario, sono convinta che anche nella didattica scolastica dell’ultimo anno delle superiori, ad esempio, la fruizione in classe delle registrazioni su Pasolini disponibili sul Web potrebbe rappresentare una valida introduzione al lessico specifico, alle parole-chiave, ai motivi ricorrenti, all’ideologia e all’estetica pasoliniani, sortendo l’effetto di incuriosire gli studenti forse fino al punto da indurli ad affrontare la lettura dei suoi più noti romanzi o ad approcciarsi alle sue raccolte di saggi, che spesso dei giovani parlano e ai giovani talora sono indirizzati.

Riferimenti bibliografici a opere di Pasolini:

  • Eschilo, Orestiade, traduzione di P. P. Pasolini, a cura dell’Istituto Nazionale del Dramma antico per le rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa, 18 maggio-5 giugno 1960, Urbino, STEU, 1960;
  • P. P. Pasolini, 17 maggio 1973. Analisi linguistica di uno slogan, in «Corriere della Sera» (col titolo Il folle slogan dei jeans Jesus), poi in Id., Scritti corsari, prefazione di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 2013, pp. 12-16;
  • Id., 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 22-25;
  • Id., Marzo 1974. Vuoto di Carità, Vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 34-38;
  • Id., 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 39-44;
  • Id., 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 45-50;
  • Id., Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango, in «Paese Sera», poi in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 51-55 (col titolo 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino);
  • Id., 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 56-64;
  • Id., 16 luglio 1974. Il fascismo degli antifascisti, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 65-70;
  • Id., Scritti corsari [1975], prefazione di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 2013;
  • Id., Come è mutato il linguaggio delle cose, in Id., Lettere luterane, op. cit., pp. 57-60;
  • Id., Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè, in Id., Lettere luterane, op. cit., pp. 54-56;
  • Id., Lettere luterane [1976], presentazione di G. Crainz, Milano, Garzanti, 2013;
  • Id., Saggi sulla Letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999.

Riferimenti bibliografici a opere su Pasolini:

  • L. Serianni, Appunti sulla lingua di Pasolini prosatore, in «Contributi di filologia dell’Italia mediana», vol. 10, 1996, pp. 197-229;
  • D. Balicco, Letteratura e mutazione: Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, Franco Fortini, Roma, Artemide, 2018;
  • M. A. Bazzocchi, Esposizioni: Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, Il Mulino, 2017;
  • Id., Alfabeto Pasolini, Roma, Carocci, 2022;
  • M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda, 2010;
  • B. Bronzini, Dare forma al silenzio: Heiner Müller e Pier Paolo Pasolini artisti dell’intervista, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 2020;
  • A. Carli, L’occhio e la voce: Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino fra letteratura e antropologia, Pisa, ETS, 2018;
  • A. Cascone, Gli allievi bolognesi di Roberto Longhi: Arcangeli, Bassani, Bertolucci e Pasolini narratori d’arte, Padova, Padova University Press, 2021;
  • F. Chianese, Mio padre si sta facendo un individuo problematico: padri e figli nell’ultimo Pasolini (1966-75), prefazione di F. Vighi, Milano-Udine, Mimesis, 2018;
  • R. Contu, Anni di piombo, penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni “complicati”), Passignano sul Trasimeno (PG), Aguaplano-Officina del libro, 2015;
  • P. D’Achille, Pasolini per l’italiano, l’italiano per Pasolini, a cura di S. Schiattarella, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2019;
  • G. Fadini, Pasolini con Lacan: per una politica tra mutazione antropologica e discorso capitalista, Milano-Udine, Mimesis, 2015;
  • F. Faraci, Anima nomade: da Pasolini alla fotografia povera, prefazione di F. Arminio, a cura di D. Maida, Milano-Udine, Mimesis, 2022;
  • G. C. Ferretti, Pasolini personaggio: un grande autore tra scandalo, persecuzione e successo, con album fotografico, Novara, Interlinea, 2022;
  • M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, Roma, Carocci, 2022;
  • G. Garrera e S. Triulzi, «La «Medea» di Pasolini», in «Diacritica», a. III, fasc. 5 (17), 25 ottobre 2017, pp. 13-14;
  • Eid., «Razza sacra». Pasolini e le donne (appunti per una ricerca), Roma, Edizioni Cambiaunavirgola, 2019;
  • A.-V. Houcke, L’antiquité n’a jamais esisté: Fellini et Pasolini archéologues, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2022;
  • Il Gramsci di Pasolini: lingua, letteratura e ideologia, a cura di P. Desogus, Venezia, Marsilio-Casarsa della Delizia, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 2022;
  • Il lupo avrà il sorriso? Conversazioni su Pier Paolo Pasolini, a cura di L. De Fiore, Roma, Castelvecchi, 2022;
  • “Io lotto contro tutti”. Pier Paolo Pasolini: la vita, la poesia, l’impegno e gli amici, a cura di M. Locantore, Venezia, Marsilio, 2022;
  • R. Kurz, Ragione sanguinaria, a cura di S. Cerea, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014;
  • P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Sesto San Giovanni (MI), Mimesis Edizioni, 2020;
  • P. Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Firenze, Clinamen, 2017;
  • La storia nascente: l’Italia degli anni Settanta, a cura di I. Puskás, Firenze, F. Cesati, 2016;
  • H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, traduzione di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1967;
  • Moravia, Pasolini e il conformismo, con introduzione e cura di A. Fàvaro, Avellino, Sinestesie, 2018;
  • N. Naldini, Breve vita di Pasolini, Milano, Guanda, 2022;
  • Pasolini e i media, a cura di V. Codeluppi, Milano, Franco Angeli, 2022;
  • M. Panetta, Nel segno del magistero longhiano: Bologna crocevia di esperienze, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, a cura di P. Pieri e L. Weber, vol. II, Dal primo dopoguerra alla fine del Neorealismo, Bologna, Clueb, 2010, pp. 45-62;
  • Pasolini e le periferie del mondo, a cura di P. Martino e C. Verbaro, Pisa, ETS, 2016;
  • Pasolini e Sciascia: ultimi eretici, a cura di F. La Porta, Venezia, Marsilio-Casarsa della Delizia, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 2021;
  • Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Parma, Guanda, 1992;
  • Pier Paolo Pasolini: non mi lascio commuovere dalle fotografie, a cura di M. Minuz e R. Carnero, Cinisello Balsamo, Silvana, 2022;
  • A. Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole: cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Milano, Bompiani Overlook, 2019;
  • W. Siti, Quindici riprese: cinquant’anni di studi su Pasolini, Milano, Rizzoli, 2022;
  • G. Tomei, Il Pasolini borghese: da Teorema agli Scritti corsari a Petrolio, prefazione di R. Rosati, Roma, Nuova cultura, 2018;
  • A. Tricomi, Pasolini, Roma, Salerno Editrice, 2020;
  • S. Triulzi, Sul set di Medea. Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, in «Diacritica», fasc. 5 (17), 25 ottobre 2017, pp. 26-33;
  • Id., Note nel frastuono del presente: Pasolini, Manganelli, Landolfi, Pavese, Roma, Diacritica Edizioni, 2018 (http://diacritica.it/wp-content/uploads/4.-Sebastiano-Triulzi-Note-nel-frastuono-del-presente-Pasolini-Manganelli-Landolfi-Pavese.pdf), pp. 13-44;
  • C. Vecce, Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno, Roma, Carocci, 2022;
  • F. Zabagli, Filologia minima su Pasolini e altro, Dueville, Ronzani, 2022.

Sitografia:

Da Youtube:

  1. Su Pasolini, com’è noto, c’è una bibliografia sterminata; si ricordino, a proposito degli argomenti trattati, almeno i recenti: G. Fadini, Pasolini con Lacan: per una politica tra mutazione antropologica e discorso capitalista, Milano-Udine, Mimesis, 2015; La storia nascente: l’Italia degli anni Settanta, a cura di I. Puskás, Firenze, F. Cesati, 2016; Pasolini e le periferie del mondo, a cura di P. Martino e C. Verbaro, Pisa, ETS, 2016; M. A. Bazzocchi, Esposizioni: Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, Bologna, Il Mulino, 2017; D. Balicco, Letteratura e mutazione: Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, Franco Fortini, Roma, Artemide, 2018; A. Carli, L’occhio e la voce: Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino fra letteratura e antropologia, Pisa, ETS, 2018; G. Tomei, Il Pasolini borghese: da Teorema agli Scritti corsari a Petrolio, prefazione di R. Rosati, Roma, Nuova cultura, 2018; S. Triulzi, Note nel frastuono del presente: Pasolini, Manganelli, Landolfi, Pavese, Roma, Diacritica Edizioni, 2018 (http://diacritica.it/wp-content/uploads/4.-Sebastiano-Triulzi-Note-nel-frastuono-del-presente-Pasolini-Manganelli-Landolfi-Pavese.pdf), pp. 13-44; A. Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole: cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Milano, Bompiani Overlook, 2019; B. Bronzini, Dare forma al silenzio: Heiner Müller e Pier Paolo Pasolini artisti dell’intervista, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 2020; A. Tricomi, Pasolini, Roma, Salerno Editrice, 2020; A. Cascone, Gli allievi bolognesi di Roberto Longhi: Arcangeli, Bassani, Bertolucci e Pasolini narratori d’arte, Padova, Padova University Press, 2021 (sullo stesso argomento mi permetto di rimandare anche al precedente M. Panetta, Nel segno del magistero longhiano: Bologna crocevia di esperienze, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, a cura di P. Pieri e L. Weber, vol. II, Dal primo dopoguerra alla fine del Neorealismo, Bologna, Clueb, 2010, pp. 45-62); Pasolini e Sciascia: ultimi eretici, a cura di F. La Porta, Venezia, Marsilio-Casarsa della Delizia, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 2021; M. A. Bazzocchi, Alfabeto Pasolini, Roma, Carocci, 2022; F. Faraci, Anima nomade: da Pasolini alla fotografia povera, prefazione di F. Arminio, a cura di D. Maida, Milano-Udine, Mimesis, 2022; G. C. Ferretti, Pasolini personaggio: un grande autore tra scandalo, persecuzione e successo, con album fotografico, Novara, Interlinea, 2022; A.-V. Houcke, L’antiquité n’a jamais esisté: Fellini et Pasolini archéologues, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2022; Il Gramsci di Pasolini: lingua, letteratura e ideologia, a cura di P. Desogus, Venezia, Marsilio-Casarsa della Delizia, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, 2022; Il lupo avrà il sorriso? Conversazioni su Pier Paolo Pasolini, a cura di L. De Fiore, Roma, Castelvecchi, 2022; “Io lotto contro tutti”. Pier Paolo Pasolini: la vita, la poesia, l’impegno e gli amici, a cura di M. Locantore, Venezia, Marsilio, 2022; N. Naldini, Breve vita di Pasolini, Milano, Guanda, 2022; Pasolini e i media, a cura di V. Codeluppi, Milano, Franco Angeli, 2022; Pier Paolo Pasolini: non mi lascio commuovere dalle fotografie, a cura di M. Minuz e R. Carnero, Cinisello Balsamo, Silvana, 2022; W. Siti, Quindici riprese: cinquant’anni di studi su Pasolini, Milano, Rizzoli, 2022; F. Zabagli, Filologia minima su Pasolini e altro, Dueville, Ronzani, 2022.
  2. Si precisa che l’interpunzione delle trascrizioni cercherà di riprodurre, il più possibile, le pause del parlato e di aiutare il lettore a comprendere meglio il senso dei discorsi pasoliniani.
  3. Cfr. Youtube all’URL: https://youtu.be/wkqoc8blFvI (video in b/n; durata: 3 minuti e 59 secondi).
  4. Al riguardo si veda, oltre al sempre imprescindibile L. Serianni, Appunti sulla lingua di Pasolini prosatore, in «Contributi di filologia dell’Italia mediana», vol. 10, 1996, pp. 197-229, P. D’Achille, Pasolini per l’italiano, l’italiano per Pasolini, a cura di S. Schiattarella, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2019.
  5. Al riguardo si veda C. Vecce, Il Decameron di Pasolini, storia di un sogno, Roma, Carocci, 2022.
  6. Per comprendere bene la sfumatura di significato attribuita da Pasolini a questo aggettivo si veda almeno: P. P. Pasolini, 17 maggio 1973. Analisi linguistica di uno slogan (uscito prima sul «Corriere della Sera» col titolo Il folle slogan dei jeans Jesus), in Id., Scritti corsari, prefazione di A. Berardinelli, Milano, Garzanti, 2013, pp. 12-16, cit. a p. 12: «Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro. […] La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato».
  7. Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Parma, Guanda, 1992, p. 177.
  8. Cfr. YouTube all’URL: https://www.youtube.com/watch?v=PwOpYy5v4zE (video in b/n; durata: 3 minuti e 53 secondi).
  9. Al riguardo si vedano, fra gli altri interventi, i recenti: G. Garrera e S. Triulzi, La «Medea» di Pasolini, in «Diacritica», a. III, fasc. 5 (17), 25 ottobre 2017, pp. 13-14; S. Triulzi, Sul set di Medea. Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, in «Diacritica», fasc. 5 (17) cit., pp. 26-33; P. Landi, Soggetto e mondo nel cinema di Pasolini, Firenze, Clinamen, 2017; G. Garrera e S. Triulzi, «Razza sacra». Pasolini e le donne (appunti per una ricerca), Roma, Edizioni Cambiaunavirgola, 2019; P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, Sesto San Giovanni (MI), Mimesis Edizioni, 2020; M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, Roma, Carocci, 2022.
  10. P. P. Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, ed. cit., pp. 56-64: ovviamente l’incipit è tratto dalla p. 56.
  11. Cfr. YouTube all’URL: https://www.youtube.com/watch?v=QS2jn8txV1o (durata: 6 minuti e 33 secondi).
  12. Cfr. anche l’URL: https://www.cittapasolini.com/post/pasolini-sulla-famiglia.
  13. Al riguardo si veda Moravia, Pasolini e il conformismo, introduzione e cura di A. Fàvaro, Avellino, Sinestesie, 2018.
  14. Sulla questione cfr. F. Chianese, Mio padre si sta facendo un individuo problematico: padri e figli nell’ultimo Pasolini (1966-75), prefazione di F. Vighi, Milano-Udine, Mimesis, 2018.
  15. Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, op. cit., pp. 11-12.
  16. Al riguardo si leggano anche P. P. Pasolini, Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè e Come è mutato il linguaggio delle cose, in Id., Lettere luterane [1976], presentazione di G. Crainz, Milano, Garzanti, 2013, pp. 54-56 e pp. 57-60. Sulle due raccolte pasoliniane degli Scritti corsari e delle Lettere luterane si veda anche M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Parma, Guanda, 2010.
  17. Cfr. P. P. Pasolini, Scritti corsari, ed. cit., pp. 34-38.
  18. Ivi, p. 35.
  19. Ivi, pp. 35-36.
  20. Ivi, p. 36.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Al riguardo si veda anche R. Contu, Anni di piombo, penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni “complicati”), Passignano sul Trasimeno (PG), Aguaplano-Officina del libro, 2015, specie le pp. 156 e sgg.
  24. P. P. Pasolini, 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, ed. cit., pp. 39-44, cit. a p. 40.
  25. Ibidem.
  26. Ibidem.
  27. Ivi, p. 41.
  28. P. P. Pasolini, 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 45-50, cit. a p. 46.
  29. Ivi, p. 50.
  30. P. P. Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id., Scritti corsari, ed. cit., p. 61.
  31. Ibidem.
  32. Ibidem.
  33. Ibidem.
  34. P. P. Pasolini, 16 luglio 1974. Il fascismo degli antifascisti, in Id., Scritti corsari, ed. cit., pp. 65-70, cit. a p. 69.
  35. Cfr. YouTube all’URL: https://youtu.be/4ZucVBLjA9Q (durata: 10 minuti e 15 secondi; il primo video è in b/n).
  36. In 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, art. cit., p. 58, ammetteva di detestare «ogni ottimismo, che è sempre eufemistico».
  37. Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, op. cit., pp. 181-82.
  38. P. P. Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 22-25, cit. alla p. 22.
  39. Ibidem. Al riguardo si veda anche: P. P. Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango, in «Paese Sera», poi raccolto in Id., Scritti corsari, ed. cit., alle pp. 51-55 (col titolo 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino); si veda soprattutto la p. 54.
  40. P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, op. cit.
  41. Ivi, p. 11.
  42. R. Kurz, Ragione sanguinaria, a cura di S. Cerea, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2014.
  43. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, traduzione di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1967.
  44. Eschilo, Orestiade, traduzione di Pier Paolo Pasolini, a cura dell’Istituto Nazionale del Dramma antico per le rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa, 18 maggio-5 giugno 1960, Urbino, STEU, 1960.
  45. Ora raccolto in P. P. Pasolini, Saggi sulla Letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999.
  46. P. Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea, op. cit., p. 22.
  47. P.P. Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Id., Scritti corsari, op. cit., pp. 22-25, cit. alle pp. 24-25.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)