“San Pierpà”. Pier Paolo Pasolini a Roma Est tra sacralizzazione e gentrificazione

Author di Igiaba Scego

Il Pasolini del teatro di Frosini-Timpano

La compagnia teatrale Frosini-Timpano[1], formata da Elvira Frosini e Daniele Timpano, ha ormai abituato il pubblico affezionato alle sue pièces al fatto che queste galoppano letteralmente nella storia d’Italia. L’approccio della compagnia è quasi sempre irriverente, in loro alberga non solo il gusto della satira portata agli estremi, ma anche la condizione etica di una ricerca che tende ad una verità nascosta, una verità che si trova dentro le pieghe di una narrazione della patria mai raccontata del tutto al popolo. Per questo la compagnia, oltre ad attraversare sentimenti universali quali amore, paura e nostalgia, si è distinta con il tempo in quel minuzioso scavare negli armadi scomodi della memoria, in quei luridi armadi della vergogna e dell’oblio.

Se Dux in Scatola (2006) mette in scena il corpo morto di Benito Mussolini e le vicissitudini delle sue spoglie mortali, in un altro spettacolo dal titolo Zombitudine (2013) la critica è tutta verso una società che non sa fare altro che odiare e aver paura dell’altro. Una diffidenza che il duo interpreta in chiave horror godereccia, che un po’ fa ridere e un po’ terrorizza. Hanno poi riflettuto sul Risorgimento, con Risorgimento Pop (2009), sono stati i coniugi Ceaușescu, in Gli Sposi (2018), hanno attraversato il terrorismo brigatista e non solo in Aldo Morto (2012) per poi precipitare in una commedia generazionale come Ecce Robot (2007), dove i manga giapponesi sono stati l’occasione di riprendere in mano gli scomodi anni ’80 del secolo scorso. Il tema della memoria quindi è sempre in primo piano nella loro poetica.

E questo tema si fa letteralmente carne in Acqua di colonia[2] (2016), dove viene tematizzata dalla compagnia la rimozione degli italiani del colonialismo fatto subire ai popoli dell’Africa Orientale tra XIX e XX secolo. Una sorta di J’accuse ad un paese, l’Italia, che si è totalmente lavato le mani dai crimini coloniali con l’assolutorio Italiani Brava gente. Ma, nonostante il tema sia altamente drammatico, il duo teatrale non smette di giocare, con la solita irriverenza, sul filo della contraddizione. Spesso mettono in scena non solo i protagonisti della vergogna coloniale (Indro Montanelli e la sua sposa bambina, per esempio, comprata con pochi spiccioli in Africa Orientale), ma anche gli istinti dell’Italiano medio di oggi che di quella storia non vuol sapere nulla, che anzi mette al centro della scena il suo razzismo, chiamandolo eufemisticamente “fastidio” contro gli africani, quei corpi neri che considera invasori del nuovo millennio. Così facendo, con ironia e sagacia intellettuale Elvira Frosini e Daniele Timpano fanno una denuncia molto aperta ad un razzismo che sta impregnando la vita pubblica dell’Italia della fine degli anni Dieci, ma allo stesso tempo sottolineano anche le numerose lacune storiche che il popolo italiano si trascina pressoché da sempre.

Uno spettacolo intelligente, Acqua di Colonia, dove la gente impara quello che non sa, dove, però, assieme ai criminali di guerra, il duo artistico sviscera per intero l’immaginario italiano sull’Africa, senza lasciare nulla all’immaginazione. E nell’assistere allo spettacolo si appare meravigliati che assieme ai Montanelli, alle “faccette nere”, alle Karen Blixen della Mia Africa, al Topolino cattivissimo della canzone coloniale Topolino in Abissinia, ci sia anche Pier Paolo Pasolini[3]. Il pubblico rimane interdetto quando Elvira Frosini indossa un paio di occhiali e diventa il poeta. E la meraviglia è ancora più grande quando a lei si avvicina un Daniele Timpano che indossa una parrucca afro. Il pubblico freme, si aspetta una gag comica. Perché per ben due volte a ruoli alternati il duo teatrale ha già messo in scena (nella prima sezione della seconda parte dello spettacolo) una vecchia gag di Gianni Agus e Ugo Tognazzi[4] (per loro stessa ammissione ripresa più volte da vari comici italiani quali Gino Bramieri e Pippo Franco) dove un pittore bianco viene “infastidito” da un angelo nero che chiede a gran voce al pittore di inserire, tra i suoi angeli bianchi, anche lui che è un povero “negro”.

Ora, però, non abbiamo nessun pittore come nelle scene precedenti, ma Pier Paolo Pasolini e il suo compare di mille avventure e mille film: Ninetto Davoli. È Davoli che in questa scena prende il posto dell’africano dell’immaginario coloniale (visto nelle scene precedenti), tanto che Elvira Frosini-Pasolini lo dice in modo chiaro ed esplicito: «Beh sì, il Terzo Mondo comincia da qui. Da casa tua. Vedi quei ricciolini neri lì? Hanno preso il posto tuo, il nuovo sottoproletariato sono loro. Per te è finita»[5], e ribadisce più avanti che Davoli è ormai un uomo medio «un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista. Un uomo medio non esiste […] esisti solo in quanto servi al Capitale. Da uomo medio sottostai alla legge ferrea della merce, e tremi all’arrivo delle nuove merci che ti sostituiranno»[6].

L’eco della protesta pasoliniana prende forma nel favellare dell’attrice Elvira Frosini. Ma il duo teatrale non usa guanti di seta nemmeno con il poeta. Lui in fondo ha aggiunto il suo sguardo al quadro già esotista che l’Italia ha dell’Africa. Infatti nel suo recitato verrà detto dall’attrice Elvira Frosini, ormai Pasolini sulla scena, che: «avevo previsto anche la distruzione del terzo mondo da parte del Capitale, la fine dell’Africa arcaica, mitica, preistorica, del suo candore barbaro e le sue masse di ultimi della terra, questi Alì dagli occhi azzurri che marciano verso Nord-Ovest. Tu sai di cosa stiamo parlando?»[7]. E la risposta spiazzante di Ninetto Davoli, o meglio dell’attore Daniele Timpano, è semplicemente «dei Negri»[8]. E qui nella pièce si assiste a qualcosa che Pasolini ha quasi provato di persona, nel girare i suoi Appunti per un’Orestiade africana (1975): Pasolini incontra in questo suo film quasi documentario un gruppo di studenti africani, che non sono minimamente d’accordo con la sua idea di Africa ancestrale e mitica. Loro si sentono parte di un’Africa moderna, studiosa, finalmente indipendente e cominciano una singolar tenzone di parole a cui il poeta, al contrario di molti, non si sottrae. È lì in quella scena di pochi minuti, in quel parlarsi tra diversi e simili, che nasce un incontro. Il poeta e gli studenti africani si studiano per poi, chissà, un giorno riprendere la battaglia di parole (e lo scambio di sguardi) in un secondo momento.

Purtroppo la crudele morte di Pier Paolo Pasolini interrompe ogni dialogo, ogni ripensamento, ogni confronto tra un poeta occidentale e un gruppo di studenti dell’Africa Indipendente. Ma il duo Frosini-Timpano, memore di questo scambio, non solo riprende quel dialogo degli Appunti per un’Orestiade africana, ma riesce attraverso questo uso del corpo vivo del poeta a parlare al pubblico di uno sguardo coloniale che è penetrato dove meno ce lo si aspettava, ovvero nel modo problematico che Pasolini aveva di guardare l’Africa e gli africani[9]. Modo di guardare che forse sarebbe cambiato nel tempo, vista la sua voglia di confronto continuo, ma proprio il tempo era scaduto e l’Idroscalo di Ostia con il suo carico di dolore era lì in agguato a trasformare il poeta nel suo stesso mito. Ed è qui che l’irriverenza, la dissacrazione del duo artistico Frosini-Timpano si fa totale. Non è una critica a Pasolini, ma una critica al pubblico e a un certo modo di vivere la città di Roma in chiave pasoliniana. Dice Frosini-Pasolini:

Al Pigneto, un quartiere di Roma, ex borgata sottoproletaria ora di moda, trovate anche un mio murales: io con la mascherina blu di Capitan America con “io so i nomi” scritto sulla fronte. Mi trovate là, su un muro, vicino al bar Necci, dove i proprietari miliardari dicono che io avrei girato alcune scene di Accattone, nel ’60, ma non è vero, le ho girate giù in fondo alla strada. E così veglio, dall’alto del mio muro, su radical chic, hipster, intellettualini piccoli borghesi, medioletari e artistini con le Birkenstock che fanno l’aperitivo, io, santo patrono delle loro confuse giornate, dei loro costosi vestiti finto proletari. Essi mi chiamano Pierpà e non mi hanno mai letto, mai, ma mi recitano un rosario al giorno fatto di citazioni dai miei scritti, sempre le stesse. Tutti questi miei figli e nipotini postumi, queste mie brutte copie, questi infelici, queste mie nemesi. Del resto lo avevo previsto[10].

La Roma di Pasolini e il Pasolini dei romani

Anche qui c’è una posizione netta del duo artistico. Una posizione che racconta da vicino una parte dell’urbanistica di Roma, un J’accuse anche qui della gentrificazione in atto in quelle zone della capitale d’Italia legate alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Ma per capire queste frasi, a tratti anche disturbanti, va analizzato per prima cosa il rapporto che Pasolini aveva con la città di Roma.

Sono davvero due entità distinte Roma e Pasolini[11], da una parte un poeta-scrittore-vate che diventa emblema della protesta verso una società borghese e capitalista e dall’altra la città dei Papi, del potere dello Stato, di imperi più o meno indigesti. Una città monumentale, immensa ed eterna. E anche il poeta è diventato eterno come la città grazie al suo pensiero. Ma poi l’incontro fatale è avvenuto tra la città e quel forestiero, incontro che presto si è trasformato in uno strabiliante e bizzarro rapporto d’amore. Venticinque anni di vita insieme incisi in due date da tenere ben presenti. La prima è quella dell’arrivo dove un poeta dialettale friulano, ancora poco noto, sbarca letteralmente in quel carrozzone che è la stazione Termini. È il 28 gennaio del 1950 e ancora Pasolini non è il Pierpà con cui una certa Roma di Borgata prenderà confidenza. L’altra data è quella fatale della morte all’idroscalo di Ostia. Un rituale di morte dove il poeta è l’agnello di un sacrificio crudele ed ingiusto. La morte del poeta si consuma tra il 1° e il 2 novembre del 1975[12]. È tra queste due date che Pasolini vive Roma e la fa sua. Ma non è la Roma imperiale quella che lo attira di più. Anzi, la Roma del potere è quello che lui combatte, mentre è sempre più affascinato dalla Roma dei diseredati, dei marginali, dei ragazzi di borgata, delle tragedie quotidiane, dell’immensa povertà. È quella frontiera del disagio che lo attira, quell’ironia violenta che solo la Capitale ha in sé. È questo lato di Roma che presto diventerà la sua ossessione. Sono anni di cambiamento quelli tra il 1950 e il 1975. Come dice Dario Puntuale nella sua Roma di Pasolini:

sono i decenni dopo la Guerra, il fascismo, le macerie, il piano Marshall, anni nei quali gli italiani scelgono la Repubblica, il vestito buono per la Domenica in chiesa, devotamente divisi tra Bianchi e Rossi. Un paese rurale stanco di zappare, corre in città dove il lavoro appare sopportabile e i poveri possono scoprirsi ricchi o, se non altro, così promettono i portavoce del miracolo economico[13].

Ed è a Roma, in questo laboratorio sempre in bilico tra grandeur imperiale e povertà più perniciosa, che Pasolini vede in azione quel dispositivo che trasforma ogni individuo in uno schiavo legato ad una continua mercificazione non solo di quello che ha attorno a sé, ma del suo Io più profondo. È attraverso quel popolo che abita i margini che parte del suo pensiero si chiarisce. È in quella Roma marginale che si forma il poeta. Ed è a Roma, città sempre fatta da grandi squilibri sociali (dopotutto era la Roma dell’antica suburra), che Pasolini diventa Pasolini, anzi diventa Pierpà. Un poeta che sa di appartenere alla classe borghese, ma che da quella classe rifugge non solo con la critica aspra e puntuale, ma anche con il corpo. Non è un caso che in quella immensa città che è Roma lui cerca proprio quelle zone dove le persone sembrano più fragili, in pericolo, ma in fondo così tanto vive. E tra le tante zone una parte importante la prende il cosiddetto quadrante Est della capitale d’Italia, un tempo derubricato come Sud di Roma. Una zona questa che comprende quartieri come il Pigneto e Tor Pignattara, strade gloriose come la Casilina e la Prenestina di antica e romana ascendenza, e poi Porta Maggiore, l’acquedotto Felice, Via dell’Acqua Bullicante, il Bar Necci. Luoghi attraversati dal poeta e raccontati in vari libri e film, da Ragazzi di Vita ad Accattone. Di fatto si può dire che il quadrante Est domina in parte il paesaggio pasoliniano.

Tra queste zone va evidenziato proprio il Pigneto[14]. Per molti è un quartiere che non esiste, un raggruppamento di vie che non ha la dignità di un quartiere. Per altri invece è un agglomerato che lentamente si è mangiato anche le borgate storiche adiacenti. Forse, più che un quartiere potremmo dire che il Pigneto è un’idea. E in questo, ma si vedrà in seguito, anche un’invenzione pasoliniana. Se volessimo indicare i limiti fisici di questo quartiere non quartiere o quartiere super quartiere, macroarea sentimentale e umorale, si potrebbe dire che il Pigneto si estende tra le vie Prenestina e Casilina, anche se altri spingono il quartiere addirittura più in là, al confine con la ben più popolosa Tor Pignattara, fermando i suoi confini a Piazza dei Condottieri. C’è anche chi però (visto che i confini dei quartieri romani sono porosi) spinge la frontiera al di là di Via Malatesta, sconfinando in quella Via dell’Acqua Bullicante che è stata al cuore di Ragazzi di Vita (1955): in fondo era lì che c’era il Cinema Impero dove i ragazzi di Pasolini andavano a vedere i film in terza visione[15]. Per collocarla in una macroarea potremmo dire che il Pigneto si trova in quello che un tempo era definito Prenestino-Labicano, adiacente al Tiburtino. Pigneto è un nome che svela la sua stessa natura, chiamato così per via dei pini, che in questa zona erano presenti. Era proprio un pigneto a correre lungo le mura di cinta di Villa Serventi, villa della famiglia Caballini, nel XIX secolo.

Ma poi con Roma Capitale, con i sindaci modernizzatori che si sono susseguiti nella città, anche il Pigneto ha cambiato volto e funzione. Già agli albori degli anni ’10 del secolo scorso è diventato deposito tranviario, ma anche zona industriale (qui era ubicata la fabbrica farmaceutica Saronno, poi trasferitasi in Svizzera nel dopoguerra – oggi l’ex fabbrica è sede di un hotel di lusso), per questo il Pigneto, come d’altronde la borgata storica di Tor Pignattara, ha accolto da subito un sottoproletariato urbano che in quei siti lavorava. Ma durante il fascismo il Pigneto era anche, va ricordato proprio per gli sviluppi di una Roma prima neorealista e poi pasoliniana, zona di partigiani.

Camminando ancora oggi per le sue strade, si trovano pietre di inciampo e targhe commemorative come quelle che hanno contrassegnato la casa di Antonio Atzori, il ferroviere sardo ucciso a Mauthausen, a Via Ascoli Piceno, 18; la casa di Angelo Galafati, morto alle fosse Ardeatine, a Via di Fortebraccio, 25; la casa di Ferdinando Persiani, antifascista deportato anche lui a Mauthausen, a Via Ettore Giovenale, 35; la casa di Fernando Nuccitelli, che come Persiani e Atzori finì i suoi giorni in un campo di concentramento, a Via Romanello da Forlì, 34; e poi il luogo in cui lavorò il partigiano Tigrino Sabatini, la fabbrica della SNIA Viscosa[16]. Oggi, causa la dismissione della fabbrica avvenuta negli anni ’50, la targa-ricordo è stata collocata nell’area che è stata poi trasformata in parco, il Parco delle Energie, a Via Prenestina, 175. Il Pigneto non solo quindi zona che a Roma, assieme a San Lorenzo, ha subito i più violenti bombardamenti (da parte degli alleati che volevano colpire la zona ferroviaria) della Seconda Guerra Mondiale, ma anche Pigneto zona di resistenza e di lotta. Ma il quartiere nel dopoguerra inizia tassello dopo tassello a costruire il suo mito. E prima di Pasolini questo mito ha un altro volto, il volto di Roberto Rossellini[17]. Qui infatti, a Via Monteccuccoli (dove nel 2003 la Digos troverà al civico 3 uno dei covi delle Nuove Brigate rosse) viene girata forse una delle scene più famose del cinema italiano. Quella dove Anna Magnani, in Roma Città aperta (1945), corre dietro un camion pieno di nazisti, che le hanno appena prelevato il marito Francesco, e viene uccisa da una raffica di mitra con ancora il nome del marito sulle labbra. Il civico 17 da dove Anna Magnani è uscita disperata è ancora lì come monito al quartiere, per ricordare che sì la zona era povera, ma ha saputo avere una visibilità mondiale come poche altre zone al mondo[18]. E, nonostante i disagi del dopoguerra, la povertà incipiente, le migrazioni dal sud e dal centro dell’Italia, il Pigneto comincia a cucirsi addosso una sorta di aura mitica. E dopo Rossellini ne arriveranno altri, di registi: Visconti con Bellissima (1951) e con ancora Anna Magnani, Pietro Germi con il suo Il ferroviere (1956), Nanni Loy con il seguito fortunato dei Soliti ignoti (1958) intitolato Audace colpo dei soliti ignoti (1960); e anche dopo, a Neorealismo finito, siamo nel 1977 e il Neorealismo è solo un ricordo lontano lontano, approderà nel quartiere pure Mario Monicelli con Un borghese piccolo piccolo (1977) e con una casa che affaccia direttamente su Via L’Aquila, dove Alberto Sordi mediterà la vendetta dopo la morte del figlio.

Le iconiche antitesi urbane di un Pasolini “sacro”

Il Pigneto odora di Neorealismo e cinematografo. Ed è stato questo Neorealismo ad aver attirato Pier Paolo Pasolini proprio lì. Tuttavia, la sua non è una scelta estetica: oseremo, piuttosto, dire etica. Da quando è a Roma, Pasolini rifugge quella città imperiale e monumentale che puzza di intrighi, potere, marcio. E si spinge così sempre più in là, dove, come molti dei suoi protagonisti, si sposta con i mezzi pubblici ed esplora queste zone periferiche che lo avevano già attratto dallo schermo di un cinematografo. Pasolini racconterà molte zone di Roma in realtà: Monteverde dove abita, Testaccio, Garbatella ecc. Ma è solo il Pigneto ad essere legato a quei ragazzi scapestrati e teneri delle sue osservazioni, ragazzi sempre in bilico tra perdizione e follia, che saranno di fatto una cifra importante della sua letteratura e del suo cinema. Il Pigneto si può dire che nasca con Accattone, nel 1961[19]. Sono anni di mobilità sociale, anni di boom economico, anni che Pasolini vede anche come anni pericolosi, di assoluta perdita di senso. E già in Accattone (1961) mette in scena chi da questi processi rimane ai margini. Ed ecco che Vittorio Cataldi, interpretato da Franco Citti, diventa parte del quartiere[20]. Questo ladro mancato e sradicato è l’epicentro di una sconfitta, più della società che sua. E lo vediamo nel film mentre sta a casa sua in Via Ettore Giovenale, sempre al Pigneto.

Però, a onor del vero Via Ettore Giovenale è solo periferica nella centralità di Accattone: l’epicentro del film (non l’unico) è in Via Fanfulla da Lodi, dove c’è il bar Necci[21]. Oggi, e su questo si tornerà anche più avanti, appena entrati nel bar, campeggia un ritratto technicolor del poeta, ma le scene non si girarono effettivamente lì al civico 50, perché il regista preferì un garage più avanti, al numero 68, dove fece portare alcune sedie dal bar. Ma, ecco, nella geografia pasoliniana e nella costruzione del mito anche urbano e romanocentrico di Pasolini, Via Fanfulla da Lodi è un elemento essenziale della nostra analisi.

Quindi, dal 1961 si può dire che il Neorealismo, che aveva dato al quartiere una certa fama, ma paradossalmente effimera, viene soppiantato e il Pigneto diventa in tutto e per tutto una zona pasoliniana, con la pretesa di essere la zona più pasoliniana di tutte nella città di Roma. In realtà il rapporto del poeta con la città non ha quasi confini. Il suo Pigneto dialoga con il suo Testaccio e il Testaccio con il suo Monteverde, spingendosi oltre fino al Gazometro e al di là raggiunge i grattacieli di Donna Olimpia, fino arrivare al maledetto Idroscalo dove il poeta verrà massacrato. Roma di fatto è una parte essenziale della sua essenza poetica. Questo perché Pasolini, un friulano dalla grande cultura e sensibilità, si fa in fondo romano, per capire questa incerta capitale, chiusa tra due poteri, quello dei Papi e quello dello Stato, e tra l’irriverenza tipica di chi deve, nonostante tutto, avere a che fare con un potere che affama.

Soprattutto va ricordato che il poeta non giudica i suoi personaggi, soprattutto quelli di borgata, i comportamenti seguono un’altra scala di valori rispetto a quelli della società borghese: a Pasolini non importa che siano ladri mancati o reali, ma che siano in effetti persone a tutto tondo senza maschere. E in questo un quartiere non quartiere come il Pigneto diventa il palcoscenico delle loro gesta, ma anche del suo sguardo di poeta indirizzato verso i loro corpi parlanti. Ecco perché in un certo senso possiamo dire che a livello di senso il Pigneto anzi il Grande Pigneto, che si estende fino a Tor Pignattara, può considerarsi letterariamente e cinematograficamente un’invenzione del poeta. Questa invenzione si è anche trasformata, con il passare del tempo, nel suo contrario, ovvero in una sacralizzazione di Pasolini in quanto cantastorie di questa area della Capitale. Si passa dunque da un Pasolini che inventa il Pigneto ad un Pigneto che si inventa un “suo” Pasolini.

Ciò si avverte soprattutto nella recente street art che ha preso letteralmente piede in questo quadrante della città. È proprio al Pigneto che la figura di Pier Paolo Pasolini diventa il centro di una galassia iconografica. Va detto che il poeta poi è sempre stato amato dagli street artists[22]. Il suo volto marcato da martire parla al presente e gli artisti lo hanno subito trasformato in una maschera di lealtà, rettitudine, onestà. L’intellettuale impegnato, che di fatto era, per molti street artists diventa quasi un santo laico da agitare contro la corruzione del contemporaneo. Il suo volto, il suo corpo ritratto intero o martoriato come all’Idroscalo, la sua postura diventano l’emblema di quella ricerca infinita dove il bene non smette mai di lottare contro il male. E non a caso è stata forte la sensazione quando sui muri di Roma, in varie parti della città, da Piazza San Calisto a Via di Porta Portese passando per Vicolo del Moro, è apparsa d’improvviso una Pietà moderna dove Pasolini tiene tra le braccia sé stesso cadavere. Un’immagine potente, criptica, un manifesto accusatorio di cui però di primo acchito non si sono intese le intenzioni. È una pulsione di morte quella rappresentata, legata alla sua fine all’Idroscalo? O chissà il suo contrario, una pulsione vitale che, porgendo agli occhi di chi guarda sé stesso cadavere, vuole invece dire “certo mi hanno ucciso, ma io sono vivo più che mai”? Le letture sono entrambe plausibili. Solo che all’inizio di queste apparizioni Roma è stata colta alla sprovvista, non sapendo chi fosse l’autore e men che meno quali fossero le sue intenzioni. Era solo chiaro che quella Pietà, com’è stata subito soprannominata, è stata acclamata come capolavoro, tanto da far desiderare a qualcuno di imbrattarla, sfregiarla, portando in quel segno dell’oltraggio la stessa antipatia che il poeta da vivo ha sempre suscitato in corrotti e “anime sporche”.

L’autore dell’opera, Ernest Pignon-Ernest[23], va detto non era nuovo alla rappresentazione pasoliniana. Il pioniere della street art, francese, classe ’42, aveva già ritratto il poeta nel 1980 a Certaldo, la patria del Decameron. Il corpo del poeta lo aveva impresso su un antico muro della cittadina, un corpo nudo, appeso all’ingiù, martirizzato, polverizzato quasi. Il corpo del poeta che è solo il riflesso del suo martirio all’Idroscalo. Mucchio di ossa, fragili, ma che nascondono dentro quel dolore la forza di chi, seppur vinto dal male, non retrocede, ma assume il dolore su di sé e diventa esempio per la comunità. Pignon vede Pasolini come guida, un uomo che aveva messo alle strette la società contemporanea e che ne ha letto i meccanismi, non rifuggendo dalle grandi narrazioni mitiche che anche Pignon ha sempre amato. Pasolini in fondo per Pignon è colui che mostra la strada, una sorta di San Pietro laico, e come il santo anche lui è a testa in giù, appeso ad un gancio come la carne in una macelleria. La carnalità del ritratto del poeta è viscerale, autentica, senza sconti. La morte ci appare brutale, ma la resurrezione è quella di un Cristo laico che non ha bisogno di annunci, di nessun Noli me tangere, di prove, ma solo, sembra dirci Pignon, della sua opera, dei suoi scritti, di tutte quelle parole con cui il poeta ha sempre riempito l’aria intorno a sé. Nonostante Pasolini a Certaldo sia già un cadavere, egli, sembra dirci Pignon, è vivo. E lo stesso dicasi per la pietà pasoliniana che tanto ha interrogato i romani. Lì la morte del Poeta è evidente, tremenda, ma anche qualcosa di superabile dal genio del poeta stesso. Se è viva la poesia, sembra dirci Pignon, sarà vivo anche il poeta da qualche parte, probabilmente in noi. Ed è così sulla scia del Pignon di Certaldo che si sviluppa, soprattutto a Roma, un culto pasoliniano soprattutto in quel Pigneto (ma anche Grande Pigneto fino a Tor Pignattara) che lui ha contribuito a reinventare con il suo cinema. Qui si concentrano varie opere di street artists che fanno del poeta un’icona a tratti quasi irraggiungibile. Le opere in sé sono superbe, piene di pathos, ma è il discorso che si forma intorno a queste opere di per sé innocenti che induce all’ipotesi che esse trasmettano di fatto l’antitesi di quello che Pasolini pensava e voleva per sé stesso e la società.

Esaminiamole.

Il fulcro naturalmente è quella Via Fanfulla da Lodi dove sono state girate molte scene del film Accattone[24]. La via che poteva rimanere anonima pullula di vita. Il Bar Necci è il suo punto focale. Come detto in precedenza, Pasolini ha preferito al vero bar un garage, al civico 68, ma il bar porta dentro di sé la leggenda. Ed è appena entrati che Pasolini, come già accennato, con occhiali scuri e giacca gialla sgargiantissima si presenta ai frequentatori del bar come un nume tutelare. Pasolini e il film Accattone diventano anche parte del menù. E qui le parole del duo artistico Frosini-Timpano che puntano il dito contro questo uso improprio del corpo del poeta riecheggiano in noi. Di fatto il quartiere non è più quello popolare di un tempo e paradossalmente la sua gentrificazione si è sviluppata parallelamente alla crescita nel quartiere di una mitologia pasoliniana punteggiata da opere e memorie murali. La street art nata con l’intento di omaggiare, di fare di quella memoria carne, come effetto collaterale (non voluto) ha avuto il radicale cambiamento del quartiere da zona popolare a zona pop. Il Pigneto diventa così di nuovo un’altra invenzione: se Pasolini l’ha creata come entità letteraria e cinematografica, la movida e la gentrificazione l’hanno reinventata non solo all’ombra del poeta, ma anche nel riflesso di operazioni immobiliari “dubbie”, che hanno trasformato il quartiere in zona di locali alla moda, alternativi, dove i prezzi delle case sono schizzati a cifre esorbitanti.

Ma il Pigneto, se da una parte è gentrificato, dall’altra, nei suoi interstizi, rimane un quartiere difficile dove spaccio e malavita non hanno mai veramente arretrato. E in tutto questo appaiono sui muri i volti iconizzati del poeta. Volti ben fatti, acuti, perfetti, iconici, volti che interrogano, che fanno riflettere, fanno piangere, ma sempre all’ombra degli aperitivi di una società hypster che forse il poeta non l’ha mai davvero letto. L’accusa del duo Frosini-Timpano aleggia intorno a questi volti. Ma, prese singolarmente, le opere sono davvero di pregio e si vede che la gentrificazione di certo non era nelle intenzioni degli street artists in questione.

Soprattutto a Via Fanfulla Da Lodi l’icona Pasolini diventa qualcosa che sfiora addirittura il sacro. Basta imboccare la strada da sinistra, arrivando da Via di Fortebraccio (da dove, a proposito di storie di quartiere, è stato prelevato, come già detto in precedenza, Angelo Galafati per essere condotto e ucciso alle Fosse Ardeatine), e ci si imbatte in un grande occhio, singolo, che ci fissa o forse ci interroga (cfr. Immagine 1).

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Immagine 1: L’occhio di Pasolini a Via Fanfulla da Lodi (© foto di Igiaba Scego).

È l’occhio del poeta, che l’artista Mauro Pallotta alias Maupal[25], noto anche per aver realizzato Papa Francesco I volante come Superman, ha realizzato su un muro giallo che domina la via. Lo spunto del murales viene da una citazione attribuita a Pasolini che in realtà è tratta da un elogio post mortem di Patrizio Barbaro a Pier Paolo Pasolini, dove vien detto che è proprio l’occhio a cogliere la bellezza, quella intima, vera, unica. Ma l’occhio, non sappiamo se era intenzione dell’artista che si rifà a quella citazione, ha anche qualcosa di minaccioso, qualcosa che porta in sé una domanda muta. Forse sulla morte o forse sulla vita che proprio quell’occhio da un aldilà vede scorrere accanto a sé. Qui Pasolini sembra quasi un novello Giordano Bruno, il suo occhio spesso non solo domina il paesaggio urbano di Via Fanfulla da Lodi (una via che ora è così diversa dalla via dove Pasolini ha girato Accattone), ma è un occhio sovraccaricato da un tratto spesso, sembra quasi carboncino su un foglio, segno marcato, duro, che fa presto a trasformarsi in un buco nero che ci inghiotte. È un occhio che ci scruta e ci giudica. Un occhio che incontra i nostri occhi e sembra interrogarci sulle nostre vite mercificate. Ed è incredibile notare, invece, che di fronte all’occhio pasoliniano di Maupal ci affacciamo piuttosto su qualcosa di completamente diverso, un’immagine serafica, dai colori pastello, che ai nostri occhi appare finalmente come il mare piatto dopo la tempesta.

Ma il murales non potrebbe essere più diverso dal suo vicino. Il soggetto, di Mr. Klevra[26], è la madre di Gesù in persona. Ma non la Madonna adulta e prosperosa delle tele rinascimentali, bensì una madre bambina, la ragazza che Pasolini aveva scelto per interpretare Maria nel suo Il Vangelo secondo Matteo (1964): Margherita Caruso. Il suo volto liscio, virginale, giovane ed innocente domina la via. Anche lei guarda chi arriva dal fondo della strada. Ma qui non c’è nulla che la Madonna bambina scruti. È lo spettatore che la guarda con riverenza e ammirazione. Colpito anche dai bizzarri, e in fondo misteriosi, segni bizantini che la donna porta intorno a sé.

E qui l’icona richiama l’icona, infatti l’aureola e il velo rosso ci ricordano certi mosaici del ravennate, dove ogni volto diventa qualcosa che va oltre il volto stesso. Un’apparizione senza dubbio mistica, maestosa, ma in fondo così umana, in quegli occhi bambini che ci guardano e ci sfuggono. La via in fondo diventa quindi un altare pasoliniano, un altare dove fermarsi, contemplare, meditare. Almeno in teoria. Ma poi basta fare pochi metri dai murales di Maupal e Mr. Klevra, che sono posti in alto rispetto al nostro sguardo, e ci si imbatte in un altro prodotto della street art, questa volta ad altezza d’uomo.

È il murales incriminato dalla coppia Frosini-Timpano, quello con Pasolini che indossa la maschera di Capitan America, il Pasolini dell’“Io so i nomi”. Basta attraversare da lì, dal punto esatto del Pasolini supereroe, per ritrovarsi dentro il bar Necci, dentro il cuore della movida pignetina. E in questo murales, realizzato da Omino71[27], che da sempre mescola il mondo dei consumi, del fumetto, dei volti iconici al rock più spinto, c’è tutta la contraddizione di una via che fa della sua storia merce. Omino71, riducendo con irriverenza il poeta ad un supereroe della Marvel, dà la sensazione che la differenza tra essere un mito ed una merce è labile. Quella di Omino71 è un’esaltazione, un’incoronazione a martire vate preveggente indovino del poeta, certo una sua elevazione. Ma guardandolo dalla via, dal tran tran di quella borghesia alternativa che si sussegue nei tavolini alla moda del Bar Necci, il murales assume nella nostra bocca un altro sapore. E l’invettiva di Frosini-Timpano, tesa a mercificare proprio il poeta che più di tutti si è battuto contro la mercificazione, appare davanti a questo murales addirittura paradossale.

Un “altro” Pasolini – da “San Pierpà” all’umanità del pensatore

Però questi street artists in fondo sono consapevoli del loro ruolo, e anche dei rischi dello spazio urbano, del mercato immobiliare e della gentrificazione. Ma il loro omaggio al poeta in Via Fanfulla da Lodi è forse l’opera stessa, l’opera nuda, sembrano dirci attraverso i colori che sbucano dai muri. È il Pasolini a 360° in quanto vita vissuta e soprattutto in quanto morte subita. È quella ad essere resa eterna. Nonostante lo spazio urbano sempre più eroso dal Capitale e oltremodo gentrificato di Roma Est. E forse per questo Pasolini in questa via ci circonda da ogni parte, dall’alto, sbucando da palazzi e antenne, e dal basso mentre camminiamo, ed è straniante trovarcelo accanto. Quindi, guardando le opere singolarmente o in dialogo tra di loro, non troviamo niente di cacofonico o peggio speculativo. Quello avviene fuori dall’opera e a prescindere dall’opera. Avviene perché si è voluto costruire, anzi ricostruire, un quartiere all’ombra di un mito. E non è l’opera singola in sé a spingere la speculazione, ma la sua pervasività. Quello che preoccupa non è l’omaggio sacrale di Via Fanfulla da Lodi, ma la moltiplicazione dei murales, seppur belli, fuori da essa.

Ed ecco che camminando si può vedere un Pasolini con la mano sulla fronte su Via del Pigneto (cfr. Immagine 2), un Pasolini regista accanto al Totò di Uccellacci e uccellini (1966) adiacente a Piazza dei Condottieri (cfr. Immagine 3), un Pasolini a colori sul portale del Cinema Impero (cfr. Immagine 4) assieme a Mario Monicelli e Anna Magnani.

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Immagine 2: Pasolini con la mano sulla fronte su Via del Pigneto (© foto di Igiaba Scego).

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Immagine 3: Pasolini regista accanto al Totò di Uccellacci e uccellini (1966),

vicino Piazza dei Condottieri (© foto di Igiaba Scego).

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Immagine 4: il Pasolini di David “Diavù” Vecchiato

sul portale del Cinema Impero di Tor Pignattara (© foto di Igiaba Scego).

Sono il suo volto, persino i suoi stessi accessori ‒ basti pensare ai suoi famosi occhiali scuri, la macchina da presa, le giacche sportive ‒ a diventare oggetto di culto. È la sua presenza che l’arte omaggia e che invece la speculazione sfrutta. Ed ecco che un quartiere romano, con le sue bellezze e i suoi problemi, viene trasformato in una sorta di Greenwich Village o ancora peggio in una Williamsburg dei poveri e tutto in nome di quel poeta viandante friulano che probabilmente sarebbe inorridito davanti alla mercificazione della sua memoria.

Naturalmente, è ovvio quasi dirlo, il Pigneto non ha niente di quei quartieri newyorchesi. Mancano i teatri, gli spazi culturali (anche se alcuni, come la libreria femminista “Tuba”, resistono come “presidio democratico” in una selva di locali che offrono solo alcool) e soprattutto mancano i corpi che possono fare di un quartiere qualcosa di veramente alternativo. E quindi, se si guarda da vicino questo quartiere non quartiere che è il Pigneto, vi si intravedono molte qualità, la possibilità di una vita diversa in una città in piena decadenza come Roma. Ci sono una biblioteca, varie librerie, un festival di letteratura all’insegna del femminismo, un cinema, un nucleo di cittadini impegnati. Ma poi invece, e questo si nota soprattutto in quella zona adibita ad isola pedonale, l’unico tipo di commercio possibile è quello che si occupa di ristorazione e in particolare di cocktail, alcool, aperitivi. Ed è qui che i murales vengono, nonostante la loro bellezza e profondità, spogliati dei loro più intimi significati.

Il Pasolini omaggiato sui muri fa presto a diventare il Pasolini oltraggiato da chi specula, usando il suo nome. In poche parole nel quadrante Est si assiste ad un corto circuito di significato che avrebbe probabilmente preoccupato il poeta stesso. Basti pensare a quanto i significati a volte siano traslati, manipolati. Il Pigneto non è più quel quartiere periferico di un tempo, men che meno un quartiere operaio. È un quartiere dove tra cibo vegan e aperitivi biologici puoi perdere mezzo stipendio seduto su uno dei vari tavolinetti alla moda dell’isola pedonale. Ma è la percezione del Pigneto che è ancora legata miticamente ad Accattone. Basti pensare che un regista impegnato e operaista come Ken Loach, durante la prima romana del suo Jimmy’s hall (2014), ha più volte sottolineato di essere felice di aver presentato il suo film a Via L’Aquila, al Cinema L’Aquila, al Pigneto, un quartiere di periferia. Ken Loach pensava forse ad Accattone o forse a Roma città aperta. Pensava comunque ad un cinema italiano fatto di baracche e piccola gente umile, ma la realtà del Pigneto intorno è mutata, e non viene ancora letta con delle lenti reali e del presente[28].

Ed è proprio la figura di Pasolini, proprio colui che paradossalmente ha sempre denunciato il capitale e la sua pervasività in ogni ambito umano, a diventare l’agente di questi processi di appropriazione e mercificazione quasi senza limiti a cui la speculazione ha abituato Roma. Un po’ come il Che Guevara che domina sulle T-Shirt di mezzo mondo o la Frida Khalo diventata la pittrice buona per tutte le stagioni. Ed è questo iato tra la figura reale, le opere degli autori e il mito che permette ai fantasmi del profitto di sbucare fuori inaspettati. Allora ci si chiede se nel quadrante Est di Roma un altro Pasolini sia possibile, più vicino al reale. E se le opere di pregio fatte nelle vie pasoliniane possano un giorno dialogare con il territorio e la cittadinanza in un modo nuovo, senza essere viste per forza con un mojito in mano.

Forse per avere questo e per omaggiare davvero il poeta, a parte interrompere il ciclo continuo di speculazioni immobiliari, andrebbe fatto un lavoro proprio nel quartiere di letture di opere pasoliniane. Tornare alla parola scritta, alla riflessione sulla società. Percorrere la via opposta a quella che ci porta all’iconizzazione e riportare il poeta alla sua umanità di pensatore. Solo così l’occhio carboncino, denso e senza scampo, del Pasolini ritratto da Maupal potrà guardare veramente la bellezza di un quartiere che torna ad essere un quartiere per la gente. Per cogliere davvero l’essenza del lavoro fatto da Pasolini nel quartiere, sarebbe da intravedere nel suo Pigneto la filigrana sottile di chi l’ha preceduto, quel Neorealismo che ha portato in Italia una grammatica diversa del guardare alla società, così in antitesi con il Fascismo e le sue manie di grandezza. In poche parole, quello che ha sempre mosso il Poeta era mutare lo sguardo, senza dimenticare l’opera meritevole di chi l’ha preceduto. Ed è qui che l’iconizzazione va trasformata in azione. Non uno sguardo statico, iconico, spento, morto. Ma uno sguardo attento, presente e che non rifugge dal tornare a scorrere le parole di un testo. Uno scrittore non è niente senza la sua scrittura. Non basta il volto, ma servono le parole del Poeta, parole che si devono fare carne non solo nelle strade della città, ma nei cuori e nelle letture di chi quelle strade le attraversa quotidianamente. Per avere un vero sodalizio tra il fruire del mito e la conoscenza dell’intellettuale. Per non trasformare Pasolini in San Pierpà. Solo così l’omaggio degli street artists potrà davvero rendere onore ad un intellettuale che nelle sue varie identità, da critico a regista, da giornalista ad attivista delle parole, da scrittore di prosa a poeta, ha saputo sempre essere scomodo e attuale.

Riferimenti bibliografici:

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  • C. Cucchiarelli, Quello che i muri dicono. Guida ragionata alla street art della capitale, Roma, Iacobelli, 2018;
  • L. De Giusti, R. Chiesi, Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini, Bologna, Cineteca di Bologna, 2015;
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  • M. Gaia, La storia del Pigneto. Dalla Preistoria ai giorni nostri, Roma, Typomedia Editore, 2019;
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  • L. Martellini, Ritratto di Pasolini, Roma-Bari, Laterza, 2006;
  • N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989;
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  • D. Pontuale, La Roma di Pasolini, Roma, Nova Adelphi, 2019;
  • G. Rizzo, L’Italia fascista e colonialista dissacrata da Frosini e Timpano, Roma, Internazionale, 2016;
  • G. Scandurra, Il Pigneto. Un’etnografia fuori le mura di Roma. Le storie, le voci e le rappresentazioni dei suoi abitanti, Roma, Cleup, 2007;
  • A. Scarpellini, L’Africa fantasma di Elvira Frosini e Daniele Timpano, Roma, Doppiozero, 2016;
  • I. Scego, R. Bianchi, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma, Ediesse, 2014;
  • G. Trento, Pasolini e l’Africa/L’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazioni dell’Africa postcoloniale, Milano/Udine, Mimesis Edizioni, 2010;
  • Ead., Subalternity, Grace, Nostalgia and the “rediscovery” of italian colonialism in horn of Africa, in Postcolonial Italy: The Colonial Past in Contemporary Culture, a cura di C. Diop, C. Romeo, New York, Palgrave MacMillan, 2012, pp. 139-54;
  • S. Zecchi, Pasolini Massacro di un poeta, Milano, Ponte Le Grazie, 2015.
  1. Cfr. anche il sito Ufficiale della compagnia Frosinitimpano (Elvira Frosini e Daniele Timpano): https://frosinitimpano.wixsite.com/frosinitimpano.
  2. Per ulteriori dettagli sul tema della memoria coloniale nell’opera teatrale della Compagnia teatrale Frosini-Timpano si vedano: A. Scarpellini, L’Africa fantasma di Elvira Frosini e Daniele Timpano, Roma, Doppiozero, 2016; https://www.doppiozero.com/materiali/lafrica-fantasma-di-elvira-frosini-e-daniele-timpano; G. Rizzo, L’Italia fascista e colonialista dissacrata da Frosini e Timpano, Roma, Internazionale, 2016: https://www.internazionale.it/opinione/giuseppe-rizzo/2016/11/19/acqua-di-colonia-timpano-frosini.
  3. Cfr. E. Frosini, D. Timpano, Acqua di Colonia, Imola, Cuepress, 2016, p. 53.
  4. Per la visione si rimanda al video (1958) Angeli Negri: https://www.youtube.com/watch?v=LNu9d8ITZ0Q.
  5. Ivi, p. 54.
  6. Ivi, p. 55.
  7. Ivi, p. 54.
  8. Ibidem.
  9. In quanto al rapporto di Pasolini con l’Africa si vedano: P. P. Pasolini, Appunti per una Orestiade africana, i film dell’Orso, IDI cinematografica, Radiotelevisione italiana, 1970; G. Trento, Pasolini e l’Africa / L’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazioni dell’Africa postcoloniale, Milano/Udine, Mimesis Edizioni, 2010; Ead., Subalternity, Grace, Nostalgia and the “rediscovery” of italian colonialism in horn of Africa, in Postcolonial Italy: The Colonial Past in Contemporary Culture, a cura di C. Diop, C. Romeo, New York, Palgrave MacMillan, 2012, pp. 139-54.
  10. E. Frosini, D. Timpano, Acqua di Colonia, op. cit., pp. 53-54.
  11. Questa tesi è stata discussa da parte di vari critici, tra i quali: D. Pontuale, La Roma di Pasolini, Roma, Nova Adelphi, 2019; N. Naldini, Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989; Pasolini e Roma, a cura di E. Siciliano, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2005; L. Martellini, Ritratto di Pasolini, Roma-Bari, Laterza, 2006.
  12. Cfr. S. Zecchi, Pasolini Massacro di un poeta, Milano, Ponte Le Grazie, 2015.
  13. D. Pontuale, La Roma di Pasolini, op. cit., pp. 15-17.
  14. Per ulteriori informazioni sulla zona del Pigneto si vedano: M. Gaia, La storia del Pigneto. Dalla Preistoria ai giorni nostri, Roma, Typomedia Editore, 2019.
  15. Cfr. I. Scego, R. Bianchi, Roma Negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma, Ediesse, 2014, pp. 26-48.
  16. Indirizzi ricavati da una perlustrazione personale da parte dell’autrice di questo saggio nei luoghi della Resistenza nel quartiere Pigneto.
  17. Per la storia del Pigneto: G. Marnetto, La Storia del Pigneto. Dalla Preistoria ai giorni nostri, op. cit.; G. Scandurra, Il Pigneto. Un’etnografia fuori le mura di Roma. Le storie, le voci e le rappresentazioni dei suoi abitanti, Roma, Cleup, 2007.
  18. Cfr. R. Katz, Roma città aperta. Settembre 1943-giugno 1944, Milano, Il Saggiatore, 2015; D. Bruni, Roberto Rossellini. Roma Città Aperta, Roma, Lindau, 2013.
  19. Cfr. L. De Giusti, R. Chiesi, Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini, Bologna, Cineteca di Bologna, 2015.
  20. Cfr. F. Citti, C. Valentini, Vita di un ragazzo di vita, Carnago, SugarCo, 1992.
  21. Si veda il sito ufficiale del Bar Necci: https://www.necci1924.com/ (nella “Gallery”, sotto la rubrica di “Storia”, assieme alle foto dello staff attuale si trovano anche le foto delle riprese di Accattone in Via Fanfulla Da Lodi).
  22. Cfr. C. Cucchiarelli, Quello che i muri dicono. Guida ragionata alla street art della capitale, Roma, Iacobelli, 2018.
  23. Cfr. il sito ufficiale di Ernest Pignon-Ernest: https://pignon-ernest.com/.
  24. Cfr. A. Jaubourg, M. Innocenti Jr., Pasolini Pigneto, Il Bar Necci ai tempi di Accattone, volume fotografico pubblicato proprio in concomitanza della manifestazione “Pasolini Pigneto”, Roma 8 maggio 2014.
  25. Le descrizioni dei graffiti sono legate ad un sopralluogo e ad un’osservazione personale dell’autrice di questo saggio. Invece, per il sito ufficiale di Maupal si veda: https://www.maupal.net/.
  26. Cfr. il sito ufficiale di Mr. Klevra: http://www.klevra.com/.
  27. Cfr. il sito ufficiale di Omino 71: http://www.omino71.eu/.
  28. Si veda, in questo contesto, il testo critico di V. Mattioli, Vita vera. Guida a Roma est, in «Vice», 14/9/2012; online: https://www.vice.com/it/article/qbgz4q/vita-vera-roma-est.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)