Nelle scelte stilistiche ed estetiche di Angelo Maria Ripellino non poco dovettero incidere tanto l’origine isolana del poeta quanto gli interessi culturali per il mondo slavo che egli coltivava a livello professionale. Se, infatti, la sua anima siciliana protendeva naturaliter al barocco e racchiudeva in sé, insieme con un’ironia paradossale, un ancestrale terrore-ossessione per la morte, gli interessi culturali per il mondo slavo, connessi alla sua “professura” universitaria, lo portarono all’incontro rivelatore con il barocco ceco: con poeti del calibro di Jiří Kolář, di Frantíšek Halas, di Vladimír Holan, e con la misteriosa e “magica” Praga.
«Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro» – aveva egli dichiarato in un’intervista – «fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto e i congegni, le meraviglie del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana [di Palermo] alla cupola di San Nicola di Praga»[1]; non senza aver prima puntualizzato che,
sebbene io sia imbrattato delle fuliggini del Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia affondano le mie radici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico […]. Dell’infanzia insulare mi porto dietro un fagotto di emblemi: il ricordo di dolci comprati alla ruota del monastero, le stanze mortuarie con le salmodianti comari in nero, i presepi con arance e lumie, il basso continuo della tristezza, che pende dai nostri occhi come le cispe di un tracoma e una certa pagliacceria fanfarona[2].
C’era in lui un’intima coerenza, una perfetta, inscindibile corrispondenza tra critica e poesia («Vorrei – aveva anche scritto – che la critica fosse gaiezza, tentativo di agghermire la gioia della parola, che è sempre mimica, danza, sorriso […], anche quando il discorso prende il crespo del lutto, propende al tragico. E che non fosse mai pedantesca, accigliata»[3]).
In questa prospettiva, non appare senza significato il fatto che Ripellino abbia intitolato, in seguito, un lavoro critico Letteratura come itinerario nel meraviglioso e che, fin dall’opera del suo esordio poetico, abbia eletto a metafora-simbolo della vita il teatro: il luogo incantato in cui l’universo si può davvero interamente inventare, nominare e rappresentare e nel quale – con trucchi, maschere, scintillii di luci, bisticci verbali, clamori e artifici tecnico-retorici varî – può fingersi di arrestare il fuggire rapinoso del tempo, il breve apparire e durare della bellezza, la precarietà della gioia e del piacere, l’incedere angosciante e inarrestabile della «ballerina dagli occhi di cavallo»[4] che è la morte.
Il “meraviglioso” ripelliniano, ha osservato Luigi De Nardis,
grumo di sogni, d’enigmi della nativa Sicilia e del barocco fantastico e funebre della Roma divenuta sua, calamitava attorno a sé, con la forza d’una metafora archetipica, luoghi, paesaggi, le “figurine fiabesche” della letteratura, quelle del teatro, ruotanti come sopra una boitê à musique, quelle che si atteggiano dalle botteghe d’antichi e sapienti artisti popolari e le raffinatissime icone scomposte e larvali della pittura odierna; e, accanto, le immagini dei suoi cari, degli amici, degli oggetti. Regista e cerimoniere, come ebbe a definirsi, d’una liturgia spettacolare che obbediva a regole rigorose, e dei ritmi, nella fascinazione dell’artificio e, insieme, della meraviglia della vita[5].
Si comprende allora la ragione per la quale i nuclei tematici e i calchi iconografici e stilistici si carichino, già in Non un giorno ma adesso, di inusitata violenza espressiva (benché ancora non si tratti della violenza espressiva sistematicamente organizzata ed esibita che conformerà le strutture compositive a partire da La fortezza d’Alvernia); e si comprende pure come mai compaiano, nella raccolta dell’esordio, le tematiche, gli spunti figurali, i motivi tipici della poesia del Ripellino maggiore.
Non è un caso, infatti, che vi facciano capolino i «pupazzi» (cfr. Come un pupazzo di Schlemmer), i «teatrini» e gli «angeli» in parrucca rococò (Teatro), i lunatici «clowns» e le figurine di carta ritagliata (Poesia 59), i «trapezisti pagliacci» (Piccolo circo), i «ridicoli omini» (Solanum Dulcamara), i circoletti e i triangoli di Kandinskji (Piccolo circo), i riferimenti alla musica di Leoš Janáček (Fuga, Circo Iscanus) e l’innesto di morfemi attinti ad aree semantiche straniere, in prevalenza slave (Benvenuto tra noi signor Tumlír, I rossi lunghi tram di Leningrado); il senso angoscioso, così precipuamente barocco, di horror vacui che attanaglia l’animo del poeta (in Schwitters, si legge: «Ma ho bisogno di loro [delle cose], il loro schermo / altezzoso e malefico mi aiuta / a vincere l’angoscia dello spazio, / di rivestire di nomi l’abisso. / Ho bisogno d’infarcire il vuoto / di ciarpame, di rancidi feticci… »); e l’idea, anch’essa di derivazione barocca, della poesia come artificio stilistico, come accanito e abile-astuto lavoro tecnico che sappia «tendere agguati alla fantasia», inventare una realtà “altra” e librare il poeta nell’infinito – ed esclusivamente suo – spazio dell’immaginazione (il motivo viene compiutamente sviluppato in Come cilindri) e, soprattutto, che sappia distrarre la morte, tenerne lontana la raggelante mano.
Ma vi si rinvengono, sintomaticamente, i nuclei tematici delle tre costanti della poesia ripelliniana: il sentimento dell’estrema fragilità e precarietà della vita minata dalla malattia – il morfema “malsanía”, che costituirà il Leitmotiv della Fortezza d’Alvernia e sarà presente anche in Sinfonietta[6] e nelle successive raccolte, compare per la prima volta in Non un giorno ma adesso: nel distico di chiusura del componimento Poesia 59 («questa è la malsanía che ci governa, / il nostro delirio, la nostra allegrezza») –; la concezione della vita come perenne rappresentazione teatrale, ininterrotto spettacolo, effimera carnevalata, in cui l’uomo deve di continuo travestirsi, mutare maschera e trucco, per eludere i proditori agguati della morte («Qual trucco avrà per mutare se stesso / in manichino o in fantasma o in esercito che spaventi la morte?»: cfr. Inutilmente Kao-O-Wang); l’attribuzione di un qualche potere salvifico alla poesia, alla quale, si è già accennato, viene demandata la funzione «di tenere a bada la morte con tranelli verbali, bisticci e negozi d’immagini»[7].
Non vanno trascurate, inoltre, le iperboliche personificazioni, acclarative del senso barocco[8] della poesia ripelliniana, che punteggiano i testi della raccolta d’esordio – le case, per esempio, sono «vecchine / coi fazzoletti delle persiane sugli occhi» (Come pupazzi di Schlemmer ); l’autunno incarna «Jack lo sventratore» (Come elefanti di Mògano); e la morte diventa una «ballerina dagli occhi di cavallo» (Solanum Dulcamara); la montagna si trasforma in automa che «sventola i suoi verdi stracci» (La montagna come automa); e «Ride e ammicca» il villaggio «vestito / di fiocchi, di nastri e di calze nere» (Domenica) – che ne giustificano la qualifica di iperbarocco: di un barocco contraddistinto, cioè, dalla «geometria di uno spazio pieno di simboli governati da una concezione pittorica e dall’immanenza di un catalogo lessematico diviso tra il condizionamento del vocabolario crepuscolare e la posizione di un surrealismo penetrato da bizzarre linee di forza»[9].
Gli stessi nuclei tematici cui sopra s’è accennato, organizzati in moduli stilistici e linguistici più raffinati, ricompaiono nelle strutture diaristico-poematiche della Fortezza d’Alvernia, dove la loro enunciazione viene affidata a una schiera di ombre vagolanti nella notte senza fine di un luogo infernale di dolore e di pena («il topònimo “Alvernia”» – avverte il poeta nel Congedo all’opera – «è una parola compòsita, un portemanteau word, nella quale si assommano inverno, averno, verna, e inoltre il ricordo dell’Auvergne francese e la Chanson pour l’Auvergnat di Brassens, che spesso udivo da un disco di Juliette Gréco)»[10]: un orroroso labirinto di malattia, di sofferenza, di paura, illuminato, talora, dalla flebile luce di una speranza sùbito smorzata dall’irrimediabile gelo di morte incombente.
In quest’atmosfera allucinata, da fortezza e da manniana Montagna incantata – la fortezza d’Alvernia non è che la denominazione poetico-fantastica del sanatorio di Dobríš, situato a quaranta chilometri da Praga, dove, nel 1964, Ripellino fu ospite per alcuni mesi –, si muove il brancaleonesco esercito dei “nonostante”: «tutti noi che ‒ spiega il poeta ‒ contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati dalle raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male»[11]. Sono i varî Giovedì e Zafferano, che giocano a carte, mentre gli altri ospiti d’Alvernia, «vuote canne malfatte, giuncastri tignosi», viaggiano sulle ali della fantasia alla volta di «mesopotamie salubri»[12]; sono la «Jacobina magnifica / suffragette fröbeliana, flessuosa dispensatrice di pathos, e tutta vocali»[13], e il signor Munia, «trasportatore di gialle immondizie e sputacchiere»[14] che si accanisce ad annaffiare, nel disperato tentativo di farle sopravvivere, le rachitiche piante ornamentali sistemate nei corridoi della fortezza; è Aloisio Cuore, «malato di cuore / bianco di calce, come gli escrementi dei gallinacei»[15] o Charlie Rybàri, illusionista e gran mago, che dà spettacolo, che entra nei versi e si fa personaggio («Anch’io sono chiuso nel ventre d’una bottiglia, / benché sappia trarre di tasca a qualsiasi nonostante / nastri, accendini, bandiere, morselli di pane, orologi. / Anch’io sono fuga di fughe, e ritorno e follore e speranza: / qualcosa che sventola senza uno spazio. / Vo a cominciare, e lor signori mi guardino. / Un teatro nel teatro d’Alvernia […]»)[16]: una folla, insomma, di «povere verghe / in mano a negromanti», di «poveri violini / sotto archetti di vento, perduti splendori, la bocca / intrisa di rosso puré di carote»[17].
Su tutti si staglia e domina l’ombra del “nonostante”-io poetico, che intona, con voce tenorile tenuta in falsetto, il suo «desolato, derisibilissimo assòlo», che canta la sua inconsolabile malinconia («In Alvernia / la malinconia ti viene appresso come un cane») e la sua condizione di malato avvertita come marchio di diversità («la mia negritudine»)[18], che scandisce il suo declamato melodico, anzi melodrammatico, sul destino o chi altri gli ha rubato il bene della salute e lo ha costretto in Alvernia come un appestato («Non sono un appestato, non dovete fuggire. / Venite nel mio cubo-incubo, nel mio Camarillo. / C’è qualcuno / che mi ha rubato la sporca salute, e la porta / come un abito altrui troppo grande […]»)[19]: ombra del “nonostante”-io, che modula virtuosisticamente la voce della sua tremenda disperazione esistenziale e intellettuale («Amaro è vedersi in sfacelo nel gorgo / d’un perfido specchio spumoso, l’accorgersi / che il mondo è degli altri, e che gli altri / sono implacabili verso i mollicci, / gli storpi, gli stolidi, i cionchi, i dannati […]»)[20], fino a invocare, per resistere, per non cedere al risucchio del gorgo, il soccorso della sua «fantasia-Zauberflöte»[21].
Il mélos dei versi aggancia ed esalta, in particolare, gli eventi minimi, banali, marginali che si verificano in Alvernia (i quali, com’è intuitivo, risultano filtrati ed elaborati dall’ipertesa sensibilità immaginativa di chi li vive): la serenata con l’orchestrina Orpheus; il cadere della prima neve; l’escursione domenicale fuori dalla Fortezza; il suicidio di un “nonostante” etc. E anche i grandi accadimenti della cronaca – le prime imprese degli astronauti nello spazio, l’assassinio dei Kennedy, la tragedia del Vietnam, i trionfi dei Beatles etc. –, di cui i venti del mondo portano l’eco fin dentro la Fortezza, appaiono distanti, vuoti di significato per chi, come l’io-“nonostante”, senta sé stesso ormai in bilico sull’abisso dell’eterno silenzio e abbia intuito che neppure la poesia può più salvarlo («Mentre morivo, la poesia si seccava in un prestigioso grigiore »)[22].
Non c’è nulla, nelle cinquantuno stazioni di quest’oratorio, di irreale, di inventato. I nomi che vi compaiono sono dei «senhals botanici e ornitologici di figure reali, dei guerrieri della fortezza»[23]: di medici, di infermiere, di portantini, di malati – il primario Petr Ostrý vi assume lo pseudonimo ora di Kakadú, per la sua somiglianza a un parrocchetto dal piumaggio bianco, ora di Papageno, personaggio del mozartiano Flauto magico, perché «ascoltavamo insieme, inchiodati per ore e ore su dure durissime sedie di latta, opere ed opere, Lieder e sinfonie»[24]; mentre la «Colomba gestuosa», che compare nel secondo verso del componimento di apertura della raccolta, rappresenta l’infermiera responsabile del reparto nel quale Ripellino si trovava ricoverato – ; e il paesaggio, la foresta intorno alla Fortezza, i cervi, i castelli, la neve, le piante, i cinghiali, come precisa il poeta, trovano rigoroso riscontro nella realtà di quei mesi. Soltanto che, nei varî segmenti versici del poemetto ove compare, ogni elemento del reale, introiettato nello spazio psicologico dell’io, finisce con l’esserne fortemente connotato.
Al di là del lato biografico, tuttavia, i componimenti della Fortezza d’Alvernia rappresentano un universo miniaturizzato, in penombra, presso abbuiato dalla «tenebría malsanile» che ottunde i “nonostante”, e ridotto alla dimensione di un teatrino sul cui proscenio irrompono a esibirsi, avvicendandovisi, e vi spariscono sùbito risucchiati dal buco nero delle quinte, stralunati guitti, giardinieri Monzelius, patetici violinisti, calvi e occhialuti Loplop, lunari Pierrots sorpresi ad inseguire farfalle, acrobati da circo, Ecbeti-furetti, giocolieri cinesi: «povere schiere di fools dalle palpebre d’oro». Ognuno vi improvvisa, secondo il proprio estro o ghiribizzo, vi recita, dissimulandoli ironicamente, magari grottescamente, il proprio dolore, la propria esistenza appesa a un sottilissimo filo, la disperazione di probabile senza domani, l’orrore della malattia e l’incombenza, tangibile quasi, della morte.
C’è, dunque, nella Fortezza d’Alvernia, la teatralizzazione del senso – oppressivo, angoscioso, barocco – della morte e dell’estrema precarietà dell’esistenza umana, di cui Ripellino affida la rappresentazione a un io-ombra primo attore che, contornato da un manipolo di ombre-comparse, la interpreta virtuosisticamente, dilatando gli effetti spettacolari, sonori e figurali della recita mediante una dizione che spazia dall’ironico al patetico, dal sarcastico al grottesco, dal giocoso al tragico. Si tratta di una spettacolarizzazione che riflette l’ansia ripelliniana di
immettere nel tessuto dei versi le consuetudini della pittura, di trattar le parole come tubetti di colori schiacciati e di attrarle in viluppi fonetici [con] le trovate allegoriche, la buffonería sottesa di lugubre, le deformazioni, il […] guardare la vita grottescamente come il calvario di un clown, il quale s’ingegni di continuare a sonare su un logoro violino che va ogni momento in frantumi[25].
È la stessa ansia che traspare da Notizie dal Diluvio, da Sinfonietta e da Lo splendido violino verde, dove davvero ogni componimento riesce, secondo le intenzioni del poeta, a «dare spettacolo», a trasformarsi in un «esercizio di giocolería e di icarismo sul filo dello spàsimo»[26]. Non appare senza significato che adesso la poesia abbia, essa stessa, un nome, si chiami Sweetheart, e si identifichi con uno sgangherato violino «sempre aggrondato / come un numero comico»: con un violino che è, sì, un «banale feticcio dai lunghi capelli di corde», ma che, se imbracciato e archettato da chi nel componimento dice “io” (che ripetutamente lo dichiara suo: «mio violino», «mio maleficio», «mio trademark»), quanta giocosità di timbri, di musiche, di struggenze, di armonie, di «virtuosismi d’acrobata» sa inventare!
Benché talora faccia le bizze come una prima donna, «recalcitri come un indemoniato» o si faccia trovare dentro «un cubo di ghiaccio inespugnabile, arcigno», il violino-poesia entra sempre in sintonia, in qualsiasi circostanza, con lo stato d’animo di chi lo imbraccia e archetta. Che è un io sottilmente ironico e autoironico, il quale mostra di possedere la piena consapevolezza di «quanto folclore, / quanto tritume» di suoni possa anche produrre il suo “svilito” strumento; e, tuttavia, non rinuncia a travestirsi, a truccarsi da violinista-pagliaccio, per entrare in scena e dare spettacolo, per esibire l’inutilità di un’arte che ormai non incanta nessuno. Ecco: l’io protagonista di Notizie dal diluvio, di Sinfonietta e dello Splendido violino verde ‒ che aveva già dichiarato di sentirsi un «reietto» nella propria lingua[27] e che soffre di non essere preso nella debita considerazione come poeta a causa della sua attività accademica, della sua «professura» («Slavista! Mi gridano donne con frappe sul capo / e con fettucce e colombe e fleurettes e cràuti e baubau. / Slavista! Mi assalgono omini violacei […]»)[28], tanto da promettere, nel caso che rinasca, di dedicarsi a un’altra professione («Chiedo perdono. È deciso. La prossima volta / farò un altro mestiere»)[29] – crede, sia pure tormentato dagli inevitabili dubbi che gli instillano le emergenze di banalità e di terribilità del reale, nella funzione salvifica della poesia. Per lui, infatti, poesia è àncora di salvezza nella tempesta del mondo, fraterno palpito di pietà per il destino della creatura umana intrappolata nella gelida morsa del tempo, nel grigiore annichilente del tran-tran quotidiano, nel tranello, ineludibile, immisericorde, della morte in agguato. È, soprattutto, svolo della «bianca» fantasia per liberarsi e liberare dalla «proterva aridità» che ci ottunde: «Aridità, ti respingo con tutta l’anima: / proterva aridità, mia coetanea. Non voglio essere Anitra Parlante. / Non voglio mutarmi in scultura di pòmice, / non voglio languire nel tuo reclusorio, / nell’atro carcere e caucaso della secchezza. / Muoia Geremia, perché ha profetato. Ma è certo: / sparita la stirpe degli Aridi, un giorno / parecchi / avranno sete di bianca fantasia. / Per loro io lavoro, per di qui a cent’anni […]»[30].
Il lavoro del poeta, tuttavia, incontra un ostacolo pressoché insormontabile nel muro del reale, qui rappresentato baroccamente come un insieme di specchi dentro i quali balugina, all’improvviso, una folla di inquietanti figurae: maschere, cere demoniache, bianchi musi di gesso, arlecchini sogghignanti, dileggianti, sghignazzanti, che si moltiplicano, «guizzano nelle specchiere, soffiano sui ceri, / si fanno spuma, zizzània tra il vetro, si allungano torbidi, / inventano un Krumlov sciancato»[31] e pronunciano dei beffardi, sguaiati «Pax vobis»; che, talora, balzano fuori dagli specchi e aggrediscono l’io, lo inseguono «con livore di guardie caldee, con sberleffi, / con barbe negre posticce da giustizieri»[32]. Sono figure che simboleggiano il sordido, sotterraneo esercito del Terrore, le oscure forze del Male, avvezze ad agire nell’ombra, a tramare, a fomentare vizî, delitti, stragi, a promuovere guerre, catastrofi, e che si accaniscono sugli inermi, sugli oppressi, sui “vinti”; figure che allegorizzano, in sintesi, i servi-amanti di Gewalt – «la vecchina trafficante / dal naso rosso», sempre pronta a cambiare ideologia: la Storia –, coloro che la spingono, la trascinano in avanti, la fanno procedere; la schiera «dei suoi accòliti, / dei calebani bugiardi, degli uccellatori maniaci, / degli untori, dei liberatori, dei maestri di rappresaglia»[33], di cui il poeta fornisce il catalogo completo delle raffinate arti di persuasione occulta e non («Chi si cava di bocca venti braccia di cordella, / chi slumaca ricette per un avvenire soave, / chi strappa e scuffia stoppa e sputa fiamme, / chi ci opprime con resse di frasi sconnesse, con bratislave, / chi offre morselli di pane alla nostra fame, / chi schiaccia i fratelli sotto i rastelli dei cingoli […]»)[34].
Ciò nonostante, il “lavoro” dell’io non si arresta. Patetico, ostinato, donchisciottesco clown, sollecita il suo sgangherato violino-poesia sino allo sfascio, nel tentativo di strappargli il trillo più ammaliante, capace di esorcizzare tutti i «delegati» del Maligno, le caterve di «orribili referendari» che, con scorrerie sanguinose, «spengono l’ansia dei fragili, la disperazione, la sete / degli oppressi, gettandoli / nell’abominoso frantoio della vecchia Gewart / dai mustacchi di lepre»[35]. Perché la poesia non ha, per Angelo Maria Ripellino, soltanto funzione di salvazione individuale, ma anche di riscatto e di salvazione collettivi, sociali, e quello che, nelle sue invenzioni liriche, potrebbe apparire come alto divertimento si rivela, in realtà, da una raccolta all’altra, come una drammatica denuncia dei mali dell’uomo. Per questo, ancora, l’eroe della poesia ripelliniana, se è pur tentato di rifugiarsi e nascondersi nel tiepido nido degli affetti intimi, privati[36], o di nominare-enumerare vecchiumi, bric-à-brac, cianfrusaglierie, al fine di discernere, esorcizzandola, la parte maligna del reale e di fornirne una surreale rappresentazione-metaforizzazione[37], sa sempre reagire camuffandosi, truccandosi, travestendosi da patetico-grottesco pagliaccio, oppure scindendosi ora nel loico e razionale organista-illusionista Rabàs, conoscitore della «strepitante patria degli uccelli»[38] e teorizzatore di una metafisica del contingente («Rabàs l’organista mi disse: Non creda all’eterno, / ai quadri viventi, alle cere, all’asbesto. / Tutto ciò che soffriamo non vuole durare, / ogni cosa è soltanto un racconto d’inverno, / perché la notte sia meno lunga e più lesto / il fluire degli astri: un racconto da obliare»)[39], ora nello stralunato acchiappanuvole Signor Solferino o nel malato-maldestro Pierrot-Scardanelli, ora, quali speculari immagini esteriorizzate e moltiplicate – “replicanti” – di costoro, in una folla di itineranti maghi e prestigiatori, di guitti da teatrini di periferia, di attori dell’Opera Buffa, di Merlini spiritati, e di altre figurae consimili, che interpretano, tutti, il grande, effimero e, all’apparenza, vario-giocoso spettacolo della vita. Di una vita che va intesa, sempre (sottolinea il poeta, con sublime ghigno ironico), come un idillio: «Meravillosa fuente de las delicias. / Magnifico viaje en un vapor misterioso»[40].
E per questo, infine, il tono della musica che caratterizza i componimenti raccolti in Notizie dal diluvio sembra alternare timbri squillanti a timbri gravi, su di un ritmo accelerato, affannoso, come di tromba che annunci l’apocalisse in atto (nei segmenti versici si susseguono le allitterazioni, le paronomasie, le eufonie e le cacofonie prodotte dalla giustapposizione di gruppi sillabici contenenti vocali brevi e lunghe, il ripetersi insistito di parole sdrucciole etc.); mentre il nucleo tematico del dolore individuale, privato, dell’uomo aggredito dalla malsanía, che era predominante nella Fortezza d’Alvernia, si dilata fino a inglobare una nozione corale, collettiva, di dolore, nella quale trovano spazio tutte le tragedie, i soprusi, le violenze, i terrori e gli orrori che tormentano l’uomo: dal terremoto nella valle del Bèlice all’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Questa sensazione di forte disagio che traspare dalla poesia ripelliniana appare non dissimile dallo sgomento avvertito dall’uomo barocco nel momento in cui era entrata in crisi la concezione rinascimentale che poneva l’uomo al centro dell’universo. L’uomo barocco, trovandosi improvvisamente catapultato in un cosmo infinito, vi si aggirava stupefatto, sbigottito, ormai privo di certezze, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di nuovi pilastri di orientamento cui ancorare le ragioni dell’esistenza, con la coscienza dell’ingannevolezza del fenomenico, della relatività dei rapporti tra le cose e delle sue stesse conoscenze. Se, comunque, le cennate sensazioni di smarrimento e di disorientamento generavano nell’uomo barocco un senso di vitale meraviglia di fronte all’infinito dilatarsi dell’universo, al moltiplicarsi incessante-inesauribile e al mutarsi delle forme e delle parvenze del reale, che si rifletteva sulla scrittura poetica (in cui si affinavano gli apparati linguistico-retorici e metrico-stilistici e la metafora spiccava quale speciale strumento per sintetizzare la rappresentazione di un universo effimero e cangiante) come esigenza di adeguare pensiero ed espressione alla nuova, non più statica ma dinamica, visione della realtà, decisamente disperato e tragico risulta il sostrato della sensazione di panico che anima l’invenzione lirica ripelliniana: quasi che, a originare quella sensazione, sia l’oscura, angosciante percezione, da parte dell’io, di un esistere pencolante sull’abisso del Nulla.
La stessa meraviglia, fine precipuo delle stilizzazioni liriche del poeta barocco – si richiama, in proposito, l’asserzione del Marino, contenuta nella Fischiata XXXIII della Murtoleide: «È del poeta il fin la meraviglia; / parlo dell’eccellente, non del goffo: / chi non sa far stupir vada alla striglia» –, pare acquistare, nei componimenti ripelliniani (spia dello sconvolgimento gnoseologico ed etico che squassa l’animo dell’autore e ne influenza la Weltanschauung), una funzione di meraviglia del negativo: degli aspetti più ambigui e tragici della realtà e della Storia, colti e liricamente stilizzati, con un pessimismo pressoché assoluto, dall’angolo prospettico di una totale negazione barocca e di una visione complessiva del mondo quale effimero e ingannevole teatro, sul cui proscenio l’uomo, per resistere ed esistere, deve travestirsi, camuffarsi, truccarsi senza tregua, e rappresentare, con furiosa-ironica disperazione, la ridicola, sconclusionata, inutile e grottesca pantomima che è l’esistenza. Barocco, dunque, non come mero fatto retorico, e neppure come categoria storica o metastorica; barocco, piuttosto, come personale spazio immaginativo-fantastico e poetico nel quale l’io dibatte e combatte l’idea, ossessiva, tormentosa, della morte; e, nel contempo, come scelta di stile, approntamento di un attrezzatissimo laboratorio di permanente sperimentazione e provocazione: uno scrutare in avanti a occhi ben sgranati, fingendo, e lasciando credere, di stare arroccati in posizioni di retroguardia.
Le prime raccolte poetiche ripelliniane lasciano trasparire, sparse ma visibili, tracce paesaggistiche («i negozi chiudono a Vienna»[41]), figurali («Koltońscki, inzuppato di pioggia»[42]), di oggetti («la statuetta rococò di Viatka»[43]), letterarie («Siamo a Kalda, all’estrema stazione del mondo»[44]), pittoriche («i quadri di Klee»[45], «l’urlo di Munch[46]), musicali («a scherzare / come Despina»[47], «germina un quartetto di Janáček»[48], «Non ci sarà Papageno a tener desti i tuoi rami»[49]), riferibili a situazioni, a personaggi e ad atmosfere di una Mitteleuropa ancora distante, da fondale («Franz Kafka mi ha inviato mille corone / con sua nipote»[50]), la cui funzione sembra essere quella di alimentare il kitsch cupo, da fortezza, legato al «basso continuo della sofferenza»[51] che strazia il poeta. I componimenti delle raccolte a partire da Notizie dal diluvio, invece, proiettano violentemente in primo piano un kitsch più corrusco, più contornato e nitido, avvertito come presenza attuale, assorbente piuttosto che ingombrante, di una Mitteleuropa vissuta come memoria letteraria e come patria del cuore. Si tratta, tuttavia, non della Mitteleuropa dello «spumeggiante sfarzo di Vienna, […], del-[la] beata spensieratezza dell’Austria felix»[52], bensì di quella, un po’ più spostata verso oriente, della “magica” Praga, confluenza e coagulo di stili, di umori, di culture, di civiltà: la Praga delle strade e del ghetto, dei palazzi e delle cupole, dei passaggi misteriosi, del respiro fumoso delle locande, dei cortili, dove si aggirano essenze metafisiche, medianiche silhouettes, inquietanti ombre jiddisch, e tutta una congerie di creature – saltimbanchi, equilibristi, venditori di oroscopi, imbonitori, clowns, menestrelli, funamboli, violinisti, tavernieri, arlecchini, maghi, ciarlatani – stralunate e marginali. Di conseguenza, una Mitteleuropa segno e memoria di memorie, traccia indelebile e non sbavata nostalgia, e della quale nei versi rimane, alimentato da una forte tensione stilistica ed etica, un gioco di segrete, impervie allegorie.
Degli aspetti, degli oggetti, delle figure, dei nomina di questa Mitteleuropa si nutrono in particolare i tessuti versici di Notizie dal diluvio e di Sinfonietta, con un’ebbra, furibonda, arcimboldesca molteplicità di rimandi e reminiscenze (immagini di Klee e di Magritte, motivi di Janáček e di Mahler, agganci e incastri di suoni, preziosità linguistiche e sintattiche, citazioni, contaminazioni criptiche, palesi, dirette, indirette, scorciate, falsate, succose linfe boeme e baluginanti fulgori barocchi); mentre, nelle strutture compositive delle ultime raccolte – Lo splendido violino verde e Autunnale barocco –[53], pur rimanendone intatte sia la trama e l’orditura della molteplicità dei rimandi e delle reminiscenze, sia l’appena indicato intarsio linguistico, sintattico e delle interpolazioni intratestuali, nonché le tumescenze aggrovigliate delle figurazioni barocche e il clangore da baraonda degli effetti musicali (vocalismi, allitterazioni, stridori assonantici, bisticci di paronomasie, sonorità di gragnuole omofoniche, “improvvisi” da tiritera infinita di enjambements), lo spericolato icarismo stilistico sembra allentare un poco il suo forsennato e vorticoso impeto di totale teatralizzazione-spettacolarizzazione delle emergenze della realtà, per lasciare maggior spazio a un’ironia acre, malinconiosa, forse più riflessiva e cosciente di coreografare – tra riottose tenerezze e tetraggini grifagne, tra esplosioni di pirotecniche allegrie («un grullo sorriso posticcio») e accenni di funerei presagi – un estremo e, comunque, fatuo balletto sul ciglio del Nulla.
Ecco perché i componimenti dello Splendido violino verde e di Autunnale barocco si collocano sul discrimine fra vitale necessità dell’invenzione-rappresentazione poetica della realtà e lucida consapevolezza dell’inutilità disperante di essa. Da un lato vi perdura, infatti, l’esigenza dell’io, giustificata dal consueto, ossessivo fine di giocare a nascondere con la morte, d’inventarsi, con la parola, nel teatrino della parola, un universo parallelo o alternativo a quello reale, fantasioso ma possibile, gioioso e interamente vivibile. Sicché, nella furia enumerativa dei versi, spiccano, tra gli altri oggetti, i ceri accesi, le candele in consunzione, i fiochi lumi, che attenuano la luce, che generano penombre e ombre dalle quali può sbucare un Buster Keaton o Charlot in bombetta e bastone – i buffi tristi –; oppure lo spazio di una stanza può smarginare in favolose Cimelie o Szuflade o Vetralie o Kakatukke, o in Eldoradi-Paraguay («Si cruccia della solitudine e aspetta / sempre un cugino dal Paraguay, / un dottor Jazz con la sua Bugatti cachettica, / che non verrà mai / […]. Eppure ha bisogno di Luoghi Comuni, di ciarla, / di musichette al glucosio, di gàrrule tortore, / di calabroni saccenti, di contrabbassi, / di tutto il bailamme che tiene a bada la morte»)[54]. Dall’altro, prima vi s’insinua sub specie di angoscioso interrogativo («Chi potrò salvare con gli stracci dei versi, / con questo ingordo viluppo di inutilezze, / con questa inguaribile malsanía di parole, / ora che il gasolio delira e il carovita vaneggia / e lo zucchero muore? / Chi potrò soccorrere col balsamo delle metafore, / di cui in gioventù ho fatto incetta, / se io stesso ho paura delle vuote domeniche / e delle notti senza un filo di luce / e dell’isoscele pioggia, di questa belletta che intride le reni? […]»)[55] e poi vi si fa strada, nella forma del dubbio dilacerante («Mio Dio, che torbida sera. / Grondano pece i tamburi. / E Scraps li annusa come fossero miele / […]. Mi tagliano il cuore gli archetti, / e tra i cocci e i brandelli di questo deserto / chi può rendermi certo / che sono vivo / che ha un senso quello che scrivo / nel lugubre argento del lume? […]»)[56], la sconsolata-agghiacciante certezza che l’universo altro dal poeta stesso inventato; la parola che lo comunica, la quale, già in Sinfonietta, cominciava a presentarglisi “sparuta” («Le parole sparute che scrivo / non hanno virtù di salvarmi / come i talismani e i pentacoli […]»)[57]; la teatralizzazione-spettacolarizzazione sfrenata della parola che è la sua poesia («questa candida lebbra», questa «cicalería da fanciulla»)[58] non costituiscano che nomi vuoti, inutili, falsi, che non servono a nulla, a salvare nulla e nessuno, a definire alcunché: «Nomi che non rivestono cose / nomi vuoti, pieni di falsía»[59].
Intanto, ancora nello Splendido violino verde, fra dubbi e provvidenziali riprese, l’illusione-mito resiste, anche se non si tratta più di un’illusione-mito di tipo consolatorio («Ma non bastano per consolarti le pingui parole»)[60], bensì di una mera formula magica o di un rito di scongiuro, di cui non si possa o non si sappia più fare a meno («il bailamme che tiene a bada la morte»). Forse l’avanzare dell’età, la vecchiaia vicina, la cruda e implacabile verità della vita hanno ora imbrigliato e un poco immalinconito il funambolico gioco dell’io. Il quale non rinuncia all’abitudine dei suoi travestimenti e delle sue sarabande sonoro-stilistiche e figurali, ma, di fronte al quadro di desolazione e di caduco che gli offre il reale nell’unica prospettiva ormai ravvicinata della morte, indossa ancora la sua palandrana pagliaccia, imbraccia il suo sgangherato-splendido violino verde e attacca, da guitto, da menestrello, da vendifrottole, da Fregoli, da incantatore incantato, la sua straziante, dolcissima sinfonietta, perché la vita sia, fino all’ultimo, gioia, spettacolo, teatro, musica, clamore che distragga la morte, circo, fiera, calderoniano sueño.
Il tratto demoniaco, incarnato dal personaggio che nei versi dice “io”, si trasforma in angelicante: l’io-Scardanelli (e i varî suoi doppî, signori Gobellino, Abellino, Vanellino, personaggi da seicentesca Commedia dell’Arte; ma, nello Splendido violino verde e in Autunnale barocco, accanto a Scardanelli e al dottor Spallanzani, figura, quest’ultima, di inequivocabile marca hoffmanniana, compare anche un «Ripellino») ‒ che si commuove per la partenza dei comici, avvertendo «pesanza» nel cuore e trasforma quella partenza nell’altra: degli ufficiali «con fanfara» del quarto atto della čecoviana Le tre sorelle, in cui finge di entrare, se non da protagonista, quanto meno da comparsa[61]; che diventa sempre più malinconico, sentimentale e «maldestro», tanto da dedicarsi al giardinaggio, da far visita alle vecchine o da andare a conversare con un Dio vecchio e solo, diabetico, «infiacchito da eccessi di tenerezza»[62] nella polverosa bottega di orologiaio ove si è ritirato[63] ‒ gioca le sue residue carte false per attestare, senza ombre di dubbio, la sua inconsistenza di personaggio, la sua finzione d’essere: la sua non-esistenza coincidente, sintomaticamente, con la quasi inconsistenza esistenziale, la quasi non-esistenza, di chi gli fornisce anima e stilizzazione poetica.
Il discorso inventivo, per questa via, non poteva che accorciarsi nell’epigrammatico o assottigliarsi in una sorta di gnomico-grottesco teso al metafisico. Scardanelli, d’altronde, sembra aver raffreddato i propri bollenti spiriti: se va a trovare Dio con la scusa di farsi riparare una pèndola, in realtà, più che per dare o ricevere compagnia e chiacchierare, è per ascoltare e cominciare a esaminare il «campionario / di ambròsie e di archètipi di trascendenza»[64]. E, se ancora frequenta salotti, se vi continua a suonare il pianoforte come un tempo, sta sempre “di là” ormai, in luoghi attigui, come un fantasma di cui si avverta la presenza, e la sua musica si è fatta «amara», perché egli non può più assaggiare le delizie della vita («Non fate chiasso coi cucchiaini: / nell’attiguo salotto Scardanelli continua a sonare. / La torta ha bizzarri pinnacoli e gai lanternini, / ma egli non la può assaggiare. / E perciò è così amara la sua musica […]»)[65].
Ecco, questo è il Ripellino ultimo di Autunnale barocco: il Ripellino che convoca, per l’addio, tutti i suoi fantasmi e non esita a confessare a ciascuno la propria pena per il tarlo della vecchiaia che gli frantuma i sogni («Ora, già vecchio, comincio a capire / il linguaggio del lago, il pigolío delle dalie, le ire / degli ubriachi gerani. / […] Dietro quei monti villani / si annida un paese incantato, / ma non potremo giungervi mai […]»)[66], per le costrizioni della malattia e per il gelo della solitudine («A mano a mano si fa sempre più squallida / e deserta la casa […]. / Vi si incontrano angeli sempre più stolidi, / incrostati di muffa e di bava, / angeli claudicanti e molto grigi […]»)[67], per la fine della festa della vita («La rumorosa festa ha dato fondo / a tutte le cibarie. Ora fa freddo, / e non c’è più nulla da mangiare. / Sono chiusi i negozi, dorme il mondo […]»[68]: «[…] Malumore di fine carnevale. / Come Agar è scacciata l’intrusa allegria / e spadroneggia la malinconia, / spazzando domino e gale / festoni e stelle filanti. / È finito il tempo di ballare […]»)[69].
Prevale, nell’atmosfera cupa, di chiusa disperazione evocata dai versi, il sentimento, barocco, di disfacimento in atto, della corruzione e della decomposizione avviate e inarrestabili, metaforizzato da «Tutto il dolciume natalizio della morte»[70] che il poeta si sente piombare addosso «con macabro splendore»[71] ed esplicitamente dichiarato nel cupio dissolvi che sono i quattro versi della poesia n. 72 di Autunnale barocco: «Volare via da me stesso / come un uccello migratore, / da questo roveto, da questo malessere, / da questo perenne dolore».
E in questo sentimento, spesso sublimemente ironizzato fino al grottesco, s’intrufola, come accade a chi sia impegnato nel definitivo braccio di ferro con la “Gelida”, la memoria struggente dell’origine, sia come recupero di volti, di gesti, di paesaggi, di figure e profumi e sapori della propria infanzia lontana («Il buon tempo antico era la grossa mela / posata su una nuvola d’ovatta, / uno specchio barocco con una succosa candela, / una rosa rossa spampanata. / Il buon tempo antico era mia madre / col macinino del caffè tra le ginocchia, / e le nere gelse e i sonagli del mare […] / Era il calduccio di casa nelle umide sere, / l’infuso di tolù, menta e limone / e i pupi di zucchero sul canterano […]»[72]; «[…] Ma almeno / portarsi il caldo ovino del presepe / fino alla fine, l’acerba flagranza / del latte succhiato, il candore di cigno / dell’infanzia»)[73]; sia come nostalgico rispecchiamento nell’immagine infantile della nipotina Daria[74].
Sotto questo profilo, non si può dubitare che Ripellino riveli la sua matrice di poeta italiano, mediterraneo, che alle spalle ha la tradizione occidentale del grottesco: da Plauto alla Commedia dell’Arte, dall’Opera Buffa a Pirandello. E qui il cerchio sembra chiudersi, specie se si raffrontino talune risultanze testuali, disseminate nelle raccolte del nostro poeta («È che un tragico è sempre un buffone»[75], per esempio; oppure: «Grande è la buffonería del dolore»)[76], con la definizione pirandelliana della vita come «una molto triste buffoneria – si noti la perfetta coincidenza terminologica – poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà […] la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria»[77]. E se si tenga conto che altre emergenze testuali dimostrano come Ripellino non abbia mai definitivamente reciso le sue radici con l’humus culturale dell’isola nativa. Si legga, a quest’ultimo proposito, la definizione ironico-grottesca – «l’africano di Pietroburgo» – che il poeta di sé fornisce in Autunnale barocco[78]; si ponga attenzione ai più decisi riferimenti alla propria origine siciliana contenuti in Sinfonietta («C’è sempre un coro di scialli neri, / che mi trascino dal fondo di un’isola […]»)[79] e nello Splendido violino verde («Porto in me un paesaggio ferroviario / con luce minerale di limone, / con arance accecanti e lunghi fili / di canutiglia e bracci di binario. / Dentro la mia notte infuria un treno, / un hidalgo spocchioso, uno spaccone. / Va da Lercara Friddi a Magazzolo […]»[80]; si veda anche, nel componimento n. 36 della stessa raccolta, l’immagine della città barocca, che «si gonfia fino alle stelle / coi carciofi verdognoli delle sue cupole, / […] non Praga, ma un’altra»: Palermo!)[81]. Si consideri, infine, la presenza, accanto a morfemi dotti, a termini appartenenti alle varie discipline specialistiche (pittoriche, letterarie, musicali) o di provenienza mitteleuropea e slava, della residua traccia di un vocabolario vernacolare siciliano, sia pure in forma italianizzata, adoperato come lingua della poesia: «bastàsi», «incìgnano», «allumàte», «femminelle» e «caraffa» in Notizie dal diluvio[82]; «alloppia», «fantasima», «vecchiarone», «assettatuzza», «sciancàto», «allòppiano», «parpaglioni», «casciolella», «càntaro», in Sinfonietta[83]; «azzeccòsa», «cànteri», «ròsica», «gentilùzze», «sconocchiato», «canteràni», «zàgara», «intabbaccate» nello Splendido violino verde[84]; «pazzòtico», «assennatuzza», «spampanàta», «canteràno», «stradùzze», «mafia», in Autunnale barocco[85].
Sul piano della stilizzazione, nei testi poetici ripelliniani – da Non un giorno ma adesso ad Autunnale barocco – si addensano gli elementi linguistici e i riferimenti culturali più disparati. Vi si ritrovano, pertanto, rimandi al Quartetto per archi e alla Volpe furba di Leoš Janáček, all’opera buffa mozartiana Così fan tutte, alla Zauberflöte e al Don Giovanni, ai Lieder e alle sinfonie di Mahler, alle Danze slave di Dvořák, alla musica di Weber e a quella jazz; accenni alla pittura di Klee, di Max Ernst, di Kandinskij, di Velasquez, di Bosch, del Veronese, di Goya; prestiti dalle figurine grottesche di Hoffmann, dai romantici boemi, dai surrealisti praghesi e dal Due-Trecento poetico italiano («malsanía», «affrantura» ed «esvaliato» da Jacopone da Todi; «follore» da Guittone d’Arezzo; «brago», «occhi di bragia», «ciacco», «lurchi», «arto», «loquela» e «cachinni» da Dante; «bozzagro», «begolardo», «mescianza» e «gherone» da Cecco Angiolieri; «corrotto» da Cecco d’Ascoli e da Boccaccio, «agghiada» da Cino da Pistoia; e ancora: «orranza», «rancura», «guarnello», «ordura», «pesanza» etc.), dal nostro Cinquecento (in particolare dalla commedia Il Candelaio di Giordano Bruno: «fanfaluchi», «gravìgradi», «amostanti» etc.) e dal nostro Novecento («schieràni», «lèmuri», «monili», «cernecchi», «croco», «biffa», «falotico» da Montale).
Vi si ritrovano, inoltre, insieme con morfemi attinti all’attualità («vasi di Tiffany», «i gemini, i cosmos, i calcolatori, le antenne», «frittelle di auto schiacciate», «e parlano / di pudicizia, di amore, di patria, di Onassis», «Ballonzola il Carovita», «pesano persino il prezzemolo», «siamo fili che oscillano ad ogni soffio / come i mobiles del signor Calder», «Non c’è Nescafé che consoli…»), innesti di vocaboli cechi e slavi («ulano», «bratislave», «colbacchi», «kolende», «katorghe», «klikusci», «usake», «kobieta», «fintiflijùscka», «vodka», «memlinc», «dacia» etc.) o di animali appartenenti al bestiario fantastico medievale («gattigrù», «Anubio dal becco storto di squallido tapiro», «gatto padule») o attinti dalla rubriche taurine etc.
Tutti questi materiali semantici, peraltro, compaiono contestualmente nei versi, come l’effetto di una sorta di sincretismo, che simuli l’assiduo collage mentale degli elementi più imprevedibili e distanti e anche (all’apparenza) inconciliabili, all’io offerti dalla fenomenologia del reale. Il fatto è che, in connessione con la sua “professura”, Ripellino aveva avuto occasione di smontare, da studioso, interi sistemi di scrittura poetica – quello dei simbolisti russi, il Cubofuturismo in sé e negli influssi esercitati sul primo Majakovskij, su Chlebnicov, sui dadaisti tedeschi, sui barocchi boemi e i surrealisti praghesi, oltre ai nostri, primitivi, a Dante e al Dolce stil novo, ai barocchi italiani e spagnoli e, naturalmente, al Novecento – e di analizzare, da poeta in proprio, i poteri e i limiti della parola.
Si capisce allora perché l’io, torturato dalla “malsanìa”, possa definirsi «una squallida quaresima, / un palco d’ossa e di stecchi: un’India arsiccia»[86]; come l’acqua possa essere «jazz»[87]; la pioggia «contorsionista e fanatica», «isoscele», «scalena»[88], grondante «come gli urlanti capelli dei Beatles»[89]; e la morte «la senza ginocchia, la figlia di Bruegel»[90] o «la gelida, / verde, baffuta, pestilenziale Gertrude»[91]; la poesia «Sweetheart, mio violino»[92]; la Storia «Gewalt, la vecchia trafficante / dal naso rosso»[93]; la fantasia «Zauberflöte»[94]; la vita «Mozart»[95] e «arlecchina»[96] e «gaglioffa»[97]; il vento ora «corvo»[98] ora «barabba»[99] ora «unicorno»[100]; il cuore «ghetto»[101]; le dame «bottiglie»[102]; la luce «pagliaccia»[103] e «colomba»[104]; l’autunno «bettoliere»[105]; i gabbiani «tromboni»[106]; la stradaccia «ciacca»[107]; e la notte «Goya»[108], «etiopessa»[109] e «teatro»[110].
In generale, si può osservare (ma le notazioni hanno carattere meramente esemplificativo e non esaustivo) che il linguaggio poetico ripelliniano si istituzionalizza su una serie di forzature e di deformazioni del lessico ordinario, le une e le altre imbrigliate in una girandola incandescente di figure retoriche e virtuosità tecniche. La più evidente forzatura consiste nell’uso in forma sostantivale della preposizione “nonostante” (nella Fortezza d’Alvernia, in Notizie dal diluvio e nello Splendido violino verde) e dell’avverbio di tempo “oggidì”, donde l’“oggidiano” che compare nel sesto verso del componimento n. 50 dello Splendido violino verde.
Non mancano, tuttavia, forzature d’altro genere: l’impiego, nella forma aggettivale con desinenza in “-ìa” marcata dall’accento acuto, di forme sostantivali (per esempio: «malsanía», «tenebría», «capigliaría», «primería», «estranía», «ricadía», nella Fortezza d’Alvernia[111]; «ballería», «mattía», «barrería», «cicalería», «fonía», «minutería», in Notizie dal diluvio[112]; «estranía», «ciurmería», «malsanía», «diavolería», «balía», «demonía», in Sinfonietta[113]; «Schickería», «cicalería», «malsanía», «baronía», «buffonería», «streghería», nello Splendido violino verde[114]; «falsía», in Autunnale barocco[115]; ovvero con desinenze in «esco», «eschi», «esca», «esche», che riproducono mimeticamente suoni simili a quelli prodotti dalle parlate slavofone (per esempio: «turlupinesco», «stregonesco», «diavolesco», «canaglieschi», «chagalleschi», «topeschi», nella Fortezza d’Alvernia[116]; «violinesco», «clownesco», «gruesco», «farsesche», «coniglieschi», «diavolesca», «ballateschi», «demoniesca», in Notizie dal diluvio[117]; «asinesche», «boiesco», «topesco», «streghesche», in Sinfonietta[118]; «burlesco», «arabesco», «gaglioffesca», «guittesco», «clowneschi», «fanfaronesca», «turcheschi», nello Splendido violino verde[119]; «farsesco» e «maneschi», in Autunnale barocco[120].
Inoltre – frammisti a una vasta gamma di morfemi astratti, tutti di derivazione aggettivale (per esempio: «amarità», «nudezza», «stremità», «spessezza», «sparutezza», «terribilità», «mellifluità», «inutilezze», «torbidezza», «fragilezza», «scaltrinezza», «afrezza», «fracidezza» etc.), e a un altrettanto ampio ventaglio di termini aulici (per esempio: «ruine», «diruta», «putisci», «luteo», «inopia», «simulacro», «manto», «immantinente», «rabescato», «meriggi», «sembianze», «stolidi», «gocciole», «duolo», «brama», «gaudioso», «tizzo», «coltre», «beltà») –, non difettano né i sostantivi adoperati in funzione aggettivale di altri sostantivi («sparviera tristezza», «sole eunuco», «palandrana pagliaccia», nella Fortezza d’Alvernia[121]; «femmina pioggia», «palandrane babbuine», «cielo gabbiano», in Notizie dal diluvio[122]; «memoria stregona», «animuccia coniglia», «anima amazzone», «notte beghina», «poesia saltimbanca», «luce pagliaccia», «luna limone», in Sinfonietta[123]; «ciacca stradaccia», «rigattiera cuccagna», «pioggia contorsionista», «mano ciabatta», «notte teatro», «bombette pagliacce», «vita arlecchina», nello Splendido violino verde[124]; «terra pagliaccia», «notte vetraia», «gonne gazzelle», «autunno bettoliere», «luce colomba», in Autunnale barocco)[125] né i cognomi di personaggi illustri, anch’essi adoperati con funzione aggettivale e insieme astrattizzante («vita-mozart», e «stupido ovidio», in Notizie dal diluvio; «rotondi adami», in Sinfonietta; «notte-Goya» e «vento barabba», nello Splendido violino verde).
Significativo è, ancora, l’impiego di taluni nomi di personaggi della cronaca con l’intento di ricavarne figurazioni allegoriche, emblematiche del nostro tempo. Questi nomi compaiono nei versi con l’iniziale minuscola («mi zufola un gazzelloni sul flauto»; «parole succhiose ed ammicchi cagliostri»; «mi sbirciano, / per commuovermi come un corazzini»; «Mille milve violacee mi appaiono da mille porte»; «Perché lo scruta così torvamente […] / il sensale di agnelli?») e stilizzano, in modo potentemente espressivo e figuralmente icastico-perentorio, il senso dei terrori che assediano e ossessionano l’io.
Esteso e assai variegato vi risulta anche il catalogo delle figure retoriche attivate dalla stilizzazione. Nel discorso lirico vertiginosamente paratattico e asindetico, spiccano le allitterazioni, spesso con incremento, decremento e inversione di gruppi sillabici omofoni («fioche fiamme», «mala mescianza», «turista turibolo», «mazzuolo macchiate», «trucioli truci di tralci intrecciano croci», «corde ormai sorde di ricordi», nella Fortezza d’Alvernia; «violaceo violino», «gioia gioconda», «logora gora», «freddo friggere di fruste / sui fracassi», «di mollica molto muffiti», «selve proterve», «versi venti roventi», «coda colante di una cometa», in Notizie dal diluvio; «muta màdia», «mutevole maga», «frivola folla di foglie», «miccia molliccia», «lunghi lucignoli», «voragine vorace», «stolte storielle», «occhi di allocchi», «inferto feroci ferite», «vecchi velieri invetriati vacillano», «concava conca», «posticci feticci», «vecchio sguardo delle beguarde», in Sinfonietta; «allocchi avviliti», «buffi barboni», «fantocci farciti di fecciosa», «bruciata brughiera», «amaro autunno», «l’ombra dei bracconieri braccati», «barcollante baraonda», «verdastro velluto», «predato prodigio», «grumi di agrumi», nello Splendido violino verde; «tintinnano tetre», «vino verde», «rossa rosa», «Castrone, criticastro cattivo», «puntuti pinguini», «pigoli pazzi di passeri», in Autunnale barocco.
Vi si rinvengono, infine, la paronomasia («abili alibi», «ribalda ribalta», «candide foglie candite»), l’epanadiplosi («Passato, perduto passato»), la paronomasia con l’epanadiplosi insieme nello stesso verso («folli ofelie feline ofelie folli»), il chiasmo («cantavano gli alberi / le navicelle cantavano»), l’epanalepsi («L’autunno brucia col suo sigaro le foglie, / le foglie morenti […]»), l’epanafora («Lamparna: ecco che è tutto questo / arruffìo di minuscoli omini. / Lumparna: il maldestro arrampicarsi di insetti falliti. / Lumparna […]»).
Con questo mélange détonant di virtuosità tecnico-retoriche, stilistico-musicali e figurali, che ne rendono un unicum nel quadro della cultura poetica del Novecento, Angelo Maria Ripellino esorcizzava la morte e si reinventava continuamente la favola della vita. Ridicolizzandone, tuttavia, l’enfasi, la vacuità, l’arroganza citrulla: da «Hanna Schygulla, / sciantosa di varietà, sulla riva / del Nulla»[126].
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L’intervista, in forma di autosaggio, intitolata Di me, delle mie sinfoniette, gli era stata sollecitata da Giacinto Spagnoletti nel 1975; ora si può leggere nel volume A. M. Ripellino, Poesie 1952-1978, a cura di A. Fo, A. Pane, C. Vela, Torino, Einaudi, 1990, pp. 249 e sgg. ↑
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Ibidem. ↑
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A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, p. 11. ↑
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A. M. Ripellino, Solanum Dulcamara, in Id., Non un giorno ma adesso, Roma, Edizioni Grafica, 1960, stampata dal pittore Achille Perilli, che ne ha accompagnato i componimenti con suoi disegni (ora leggibile in A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Milano, Rizzoli, 1967). ↑
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Cfr. L. De Nardis, La corrispondenza tra critica e poesia, in «Nuova Rivista Europea», marzo-giugno 1979, p. 103. ↑
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Torino, Einaudi, 1972; comprende anche i componimenti di Notizie dal diluvio, apparsi presso lo stesso editore nel 1969. ↑
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A. M. Ripellino, Congedo a La fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 134. ↑
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Il Barocco, vale la pena di ricordarlo, si esprime sempre in un virtuosismo tecnico e stilistico stupefacente, che non si realizza inconsciamente o per caso, ma è voluto, cercato e posto in essere mediante la messa a punto di un preciso programma di lavoro in tale direzione. Proprio Gianbattista Marino assegnava al poeta il fine di meravigliare, ma la meraviglia del poeta barocco “traduce in primo luogo lo stupore di fronte all’infinita varietà dei linguaggi e, correlativamente, delle cose, per un universo tutto da inventare e nominare, e anche per gli aspetti più inquietanti di esso” (cfr. G. Bàrberi Squarotti, in Dizionario della letteratura mondiale del ’900, Roma, Edizioni Paoline, 1980, vol. I, p. 235). ↑
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S. Lanuzza, L’apprendista sciamano, Messina-Firenze, D’Anna, 1979, p. 133. ↑
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A. M. Ripellino, Congedo a La fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 129. ↑
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Ibidem. ↑
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Ivi, componimento n. 22. ↑
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Ivi, componimento n. 3. ↑
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Ivi, componimento n. 10. ↑
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Ivi, componimento n. 35. ↑
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Ivi, componimento n. 45. ↑
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Ivi, componimento n. 18. ↑
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Ivi, componimento n. 4. ↑
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Ivi, componimento n. 1. ↑
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Ivi, componimento n. 14. ↑
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Ivi, componimento n. 5. ↑
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Ivi, componimento n. 33. ↑
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Ivi, componimento n. 7. ↑
-
A. M. Ripellino, Congedo a La fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 129. ↑
-
Ivi, p. 134. ↑
-
Ibidem. ↑
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Cfr. A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 1. ↑
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Da A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimento n. 2. ↑
-
Ibidem. ↑
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Da A. M. Ripellino, Notizie dal Diluvio, op. cit., componimento n. 22. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 30. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 33. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ivi, dai componimenti nn. 28, 45 e 51. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 14. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 34. ↑
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Ivi, dal componimento n. 74. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 14. ↑
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A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 2. ↑
-
A. M. Ripellino, Come cilindri, in Non un giorno ma adesso (poi, nella Fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 113). ↑
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A. M. Ripellino, Storia d’una sardina decapitata, in Id., La fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 65. ↑
-
Da A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 4. ↑
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Ivi, componimento n. 17. ↑
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Ivi, componimento n. 20. ↑
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Ivi, componimento n. 34. ↑
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A. M. Ripellino, Cignus Iscanus, in Id., Non un giorno ma adesso (poi nella Fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 118). ↑
-
Da A. M. Ripellino, Fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 48. ↑
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Ivi, componimento n. 4. ↑
-
A. M. Ripellino, Congedo alla Fortezza d’Alvernia, op. cit., p. 131. ↑
-
A. M. Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1973, p. 309. ↑
-
Pubblicati, rispettivamente, a Torino (Einaudi, 1976) e a Milano (Guanda, 1977). ↑
-
A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 7. ↑
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Ivi, componimento n. 32. ↑
-
Ivi, componimento n. 54. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., n. 36. ↑
-
A. M. Ripellino, Lo Splendido violino verde, op. cit., componimento n. 3. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimento n. 31. ↑
-
A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 4. ↑
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Cfr. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimento n. 76. ↑
-
Ivi, componimento n. 65. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Da A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimento n. 68. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 79. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 65. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 69. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 80. ↑
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Ivi, dal componimento n. 14. ↑
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Ivi, dal componimento n. 49. ↑
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Ivi, dal componimento n. 53 (cfr. anche il componimento n. 14). ↑
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Cfr. A. M. Ripellino, Stenolux per la bambina Daria, che chiude Autunnale barocco, op. cit. ↑
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Cfr. A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 74. ↑
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Ivi, dal componimento n. 72. ↑
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L. Pirandello, Saggi, poesie e scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, pp. 1285-86. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., dal componimento n. 77. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 44. ↑
-
Ivi, dal componimento n. 35. ↑
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Roma-Praga-Palermo: le città in cui «mi sembra inscritto il vacillante triangolo della mia vita» (cfr. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 324). ↑
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A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., dai componimenti nn. 24, 30, 37, 40 e 77. ↑
-
A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., dai componimenti nn. 7, 13, 17, 32, 36, 42, 50, 72 e 73. ↑
-
A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., dai componimenti nn. 12, 5, 18, 39, 60 (due), 70, 73. ↑
-
A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., dai componimenti nn. 19, 47, 49, 58 e 64. ↑
-
A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., dal componimento n. 2. ↑
-
A. M. Ripellino, Così cosi, in Id., Non un giorno ma adesso, op. cit. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimenti nn. 11, 32 e 66. ↑
-
A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 17. ↑
-
Ivi, componimento n. 6. ↑
-
A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 54. ↑
-
A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimento n. 1. ↑
-
Ivi, componimento n. 33. ↑
-
A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 33. ↑
-
A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimento n. 69. ↑
-
A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 86. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimento n. 6. ↑
-
A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 24. ↑
-
A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 79. ↑
-
A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimento n. 41. ↑
-
A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 7. ↑
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Ivi, componimento n. 64. ↑
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Ivi, componimento n. 54. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimento a p. 103. ↑
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Ivi, componimento n. 82. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 64. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 5. ↑
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Ivi, componimento n. 15. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimento n. 23. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 46. ↑
-
A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimenti nn. 51, 24, 30, 12, 18, e 2. ↑
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A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimenti nn. 40, 50, 13, 39, 52, e 67. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimenti nn. 8, ibidem, ibidem, 27 e 73. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimenti nn. 2, 3, 32, 61, 72 e 76. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimento n. 31. ↑
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A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimenti nn. 40, 15, 50, 21 e alle pp. 76 e 82. ↑
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A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimenti nn. 3, 25, 37 (due), 49, 51, 71 e 75. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimenti nn. 47, 69, 56, 61, 77 e 78. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimenti nn. 20, 39, 56 e 78. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimenti nn. 55 e 76. ↑
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A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia, op. cit., componimenti nn. 7, 46 e 48. ↑
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A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, op. cit., componimenti nn. 6, 20 e 59. ↑
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A. M. Ripellino, Sinfonietta, op. cit., componimenti nn. 19, 31, 40, 44, 49, 59 e 68. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimenti nn. 5, 61, 11, 45, 46, 75 e 86. ↑
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A. M. Ripellino, Autunnale barocco, op. cit., componimenti n. 8, 24, 75, 82 e alla p. 103. ↑
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A. M. Ripellino, Lo splendido violino verde, op. cit., componimento n. 86. ↑
(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)