Nel 1991 Fernando Ainsa scriveva nei «Cuadernos Americanos» un articolo dal titolo La reescritura de la historia en la nueva narrativa latinoamericana; a seguire, nel 1993, Seymour Menton pubblicava il frutto di anni di ricerche: La nueva novela histórica de la América Latina 1979-1992. Ciò che accomuna i due lavori è l’analisi di una nuova tendenza letteraria latinoamericana che può vantare nomi di spicco fra gli autori nazionali di lingua spagnola: la riscrittura della storia. Una sorta di ossessione che nasce dal bisogno di rileggere gli eventi storici in chiave romanzata. Non entrerò nel merito delle innumerevoli particolarità e caratteristiche del genere né delle ragioni storico-sociali che hanno permesso la nascita di un filone che ha portato a un’affermazione senza precedenti della letteratura latino-americana nel mondo, ma vorrei soffermarmi un momento su quelle che possono essere considerate la caratteristiche generali.
In primo luogo il nuovo romanzo storico latino-americano propone una rilettura del discorso storico ufficiale e il recupero delle voci secondarie che il cosiddetto “discorso dominante” aveva emarginato. Abolisce in questo modo la distanza epica del romanzo storico tradizionale e supplisce alle mancanze della storiografia dando voce a ciò che finora era stato negato. Il paradosso è che, attraverso le “menzogne” e le invenzioni della letteratura, la realtà smette di essere un semplice elenco di date e fatti e la letteratura stessa si fa portavoce di un vissuto collettivo che nessuno aveva mai avuto intenzione di documentare. E allora, attraverso il processo di ficcionalización dei personaggi storici, gli eroi scendono dai piedistalli e diventano umani e ci viene presentata la loro intimità, comprensiva di debolezze e fragilità, senza omissioni. Per far questo spesso vengono adoperati punti di vista molteplici e frammentati che vanno a sostituire la voce onnisciente. Sempre più frequentemente vengono utilizzate cronache, lettere e documenti come escamotages per rendere il fuoco dell’obiettivo più eterogeneo. Un caleidoscopio di voci capaci di ricostruire un mondo sommerso e taciuto. Comunque, il motore di questa ricerca era sicuramente la necessità di recuperare un’identità nazionale troppe volte straziata dalla violenza che ha da sempre caratterizzato il continente sudamericano.
Ora, questo bagaglio letterario ha lasciato un segno importante nel panorama culturale dell’America Latina ed è diventato un modello per le nuove generazioni. Basti pensare a nomi come Carlos Fuentes, Augusto Roa Bastos, Mario Vargas Llosa con Conversación en la Catedral, La guerra del fin del mundo, La fiesta del chivo, Tomás Eloy Martínez con La novela de Perón e Santa Evita, Gabriel García Márquez con El general en su laberinto ecc.
L’eredità culturale dei grandi maestri viene sapientemente recuperata e rielaborata dall’argentino Camilo Sánchez, che ricostruisce abilmente le vicende che ruotano attorno alla figura di Johanna Van Gogh-Bonger, la vedova nientemento che di Theo Van Gogh, fratello del più noto Vincent, spingendo questa volta lo sguardo fuori dai confini nazionali, con l’ambizioso obiettivo di riscattare una di quelle piccole storie che stavano andando perdute nell’oceano della storiografia ufficiale. E così questa volta viene catturato dal processo di ficcionalización il grande pittore fiammingo e la sua famiglia. Lo scrittore trasforma i personaggi reali di una storia che sembrava completa e satura nei personaggi di un romanzo e ci racconta un particolare che la storiografia ha considerato marginale e insignificante e che invece è stato la chiave di volta del successo del pittore olandese.
Van Gogh sembrava non aver bisogno di altro. Tutto era già stato detto. Tutto era già stato scritto. Ma Sánchez sente che c’è ancora un enigma: come è possibile che un personaggio morto in assoluta povertà e che in vita non ha venduto più di due quadri nel giro di qualche anno sia diventato una delle figure di spicco del panorama artistico internazionale? Sánchez scopre Johanna van Gogh-Bonger grazie a un documentario della BBC e da buon giornalista sente la crescente necessità di documentare, ricostruire, investigare. Se Sánchez è il detective della storia di Johanna, Johanna a sua volta è il detective della storia di Vincent. Due storie parallele e complementari che ci portano a percepire la donna quasi come un doppio dell’autore: Sánchez finisce per ricostruire gli eventi con gli occhi di Johanna. È un’ombra che si muove dietro le quinte e tira le fila del discorso. S’instaura un gioco di ricerca nella ricerca: lui investiga sull’investigazione di qualcun altro. Se dovessi pormi il problema di una trasposizione cinematografica, immaginerei due storie parallele e alternate nelle immagini che si muovono una sulla linea del passato e una sulla linea del presente, perché, sebbene sia assente dal punto di vista testuale, l’ansia di ricostruzione di Sánchez e la passione per questa storia si percepisce in ogni riga.
Johanna van Gogh-Bonger, giovane vedova di Theo Van Gogh, prende in mano le lettere che si sono scambiati per anni Vincent e il fratello, suo marito (cfr. Vincent van Gogh. Lettere a Theo, Parma, Guanda, 2013), con il proposito di scoprire chi fosse veramente il padre del suo bambino e cosa lo avesse portato a lasciarsi morire dopo il suicidio del fratello. Forse cerca anche di trovare una chiave di lettura nuova degli eventi, in grado di interrompere i funesti accadimenti che si stavano abbattendo sulla dinastia dei Van Gogh: il primo morto poco dopo la nascita, il secondo, il pittore, morto suicida, e il terzo, suo figlio, che porta un nome destinato alla tragedia.
Quello che invece scopre, oltre a un legame indissolubile fra il marito e suo fratello, è una vera mappa segreta dell’opera di Vincent Van Gogh, un ricco testamento artistico, un manifesto del colore: «e io vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. (…) per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni dell’arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa invece di dipingere il muro banale del misero appartamento dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda illuminata su questo sfondo blu sontuoso rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo» (C. Sánchez, La vedova Van Gogh, Milano, Marcos y Marcos, 2016, pp. 93-94). Johanna scopre un Van Gogh scrittore e scopre lo spessore intellettuale delle sue opere, tanto snobbate dai suoi contemporanei. Le lettere insegnano a guardare l’opera, sono il manifesto della sua personale corrente artistica.
Johanna, forte, intraprendente e indipendente, ha avuto l’intelligenza di capire che gli innumerevoli dipinti dimenticati in un appartamento parigino dovevano essere recuperati, valorizzati, esposti. Comincia dalla sua nuova casa: «Oggi pomeriggio ho appeso molte tele a Villa Helma. Questo è stato il primo gesto, svelare i quadri al mondo» (p. 120).
Intanto continua a leggere e a studiare un corpus di oltre seicento lettere che i due fratelli hanno lasciato alla storia, isolando i passaggi più poetici da quelli superflui. L’occhio “esterno” di Johanna le permette di vedere al di là delle disgrazie e delle malattie che si erano abbattute sulla famiglia Van Gogh e di realizzare con meticolosa caparbietà quello che per il marito era diventata un’ossessione e una fissazione patologica: far conoscere il Van Gogh artista. «Mentre Theo sogna grandiose retrospettive, lei cerca di liberare i quadri dalla reclusione» (p. 63). La sua strategia è di procedere con pazienza e con un preciso programma lasciato in eredità per iscritto da Vincent nelle lettere: esporre molto e vendere poco. Johanna riesce a intuire un potere espressivo incredibile nell’uso dei colori di suo cognato, che alcuni addirittura considerano tanto potenti da poter propagare il potere oscuro della follia: «Bisogna incenerire tutti quegli eccessi di viola e cobalto, di verdi smeraldini e aranci d’Oriente. Son loro che hanno provocato, argomentano, il colpo al petto di Van Gogh, la paralisi che in questi giorni attanaglia Theo» (p. 49).
La narrazione di Sánchez rende giustizia a una donna incredibilmente dimenticata dalla storia: «ed era un tempo in cui le scelte delle donne avevano il mondo contro» (p. 126), e che invece ha avuto un ruolo essenziale per il riconoscimento internazionale dell’opera di Van Gogh. Ancora una volta il potere della letteratura è quello di riscattare la storia. Ancora una volta le frontiere dei generi si dissolvono e i personaggi della finzione ci raccontano qualcosa di più reale di una serie di date ed eventi, e soprattutto ancora una volta bisogna restituire il giusto merito al lavoro svolto da una donna eccezionale, perché troppo spesso la storiografia si è occupata di far risaltare gli eroi e di cancellare le eroine.
In chiave estremamente moderna potremmo dire che il romanzo di Sánchez è lo spin-off della storia principale, quella conosciuta da tutti, quella del grande pittore. Una storia piccina e secondaria che si nasconde dietro l’enorme mitologia nata intorno alla figura dell’artista, che grazie a Camilo Sánchez comincia a far capolino sempre meno timidamente.
Frammentato come un puzzle, il testo di Sánchez non affida la storia al solo narratore esterno, ma si muove su molteplici piani: il racconto in terza persona, il diario privato di Johanna van Gogh-Bonger, le lettere di Theo e Vincent, ma anche poesie, testi critici, citazioni, annunci e ritagli di giornale. Se da una parte la voce onnisciente si occupa di portare avanti la narrazione, dall’altra le lettere e il diario introducono il lettore nell’intimità dei personaggi storici, proprio come dicevamo poco fa a proposito della molteplicità delle voci narranti nel nuovo romanzo storico e della necessità di far scendere gli eroi dai piedistalli della storia. Tuttavia, anche la voce narrante segue un’impostazione di sequenze simili a quelle di un diario e tiene spesso Johanna al centro del suo punto di vista.
Tutta questa premessa è necessaria per far comprendere quanto lavoro ci sia dietro un testo di così piacevole lettura. Inoltre, ci siamo soffermati sul carattere frammentario dell’opera proprio per far emergere il fatto che dietro La vedova Van Gogh c’è un enorme impegno stilistico, che ha reso il testo di un’incantevole fluidità. La frammentarietà dell’opera senza un’eccellente consapevolezza e padronanza linguistica poteva generare un testo sconnesso e privo di legami fra le varie parti, e invece risulta scorrevole e di piacevole lettura. Se l’intenzione dell’autore era quella di recuperare una storia sconosciuta e marginale per infonderle nuova linfa, l’edizione italiana di questo libro contribuisce a supportare l’intento del suo creatore: regalare una nuova vita a Johanna van Gogh-Bonger e far circolare la sua storia. Di libro in libro, di voce in voce, di lingua in lingua, che la storia di Johanna abbia inizio: «E comincino pure a chiamarmi, con sufficienza, la vedova Van Gogh» (p. 117).
(fasc. 12, 25 dicembre 2016)