Che inquietante, poetico romanzo La straordinaria tristezza del leopardo delle nevi del brasiliano Joca Reiners Terron, che Caravan ha pubblicato nel 2015 nella traduzione di Vincenzo Barca e Serena Magi, proseguendo nella lodevole perlustrazione dei territori della giovane narrativa sudamericana.
Vi incontriamo un’umanità dolente e ingabbiata, contaminata con animali dolorosamente reali e con altri trasfigurati dalla fantasia come quello del titolo, e creature che sembrano partecipare di entrambe le nature, almeno finché non scopriamo di quale malattia soffrono. Per l’appunto una delle protagoniste, di età indefinibile, bambina o vecchia (in realtà vecchia, ma non importa), apparente ibrido mostruoso e patetico di uomo e animale, in realtà erosa da una devastante forma di porfiria, costretta a vita notturna, lentissima nei movimenti e muta, si aggira circospetta nel mondo notturno che l’autore le ha imbandito attorno, lasciando dietro di sé una scia di sangue e croste, con il solo conforto di una tata-infermiera, la pia sig.ra X: intabarrata in una mantella rossa che la protegge dalla luce che le aprirebbe orribili piaghe sulla pelle, e dagli sguardi ancora più brucianti dei curiosi, è un vero e proprio Cappuccetto Rosso in balia di troppi lupi.
La aiutano, nel riempire di senso una vita tanto inspiegabilmente insensata, colma di tanto ingiustificato dolore, le fiabe, l’immaginazione, i documentari televisivi. Attraverserà anche un bosco, come è di prammatica in una fiaba, aggregandosi a una compagnia di visitatori notturni di un settore del giardino zoologico – e qui, tra i rottweiler di un tassista matto lasciati liberi di azzannare e uccidere e la malsana curiosità degli altri convenuti, sembra di trovarsi in mezzo a una specie di parodia di Jurassic Park, il film intendo (ci autorizza in questo un accenno dello stesso autore).
Il mondo minaccioso e pronto a esplodere in sussulti violenti della San Paolo di Joca Reiners Terron lascia poche speranze agli innocenti: tensioni razziali tracciate con pennellate ossessive in quartieri in cui i gruppi etnici non convivono mai davvero e si guardano in cagnesco pronti a deridersi o ad attaccarsi; uomini che aizzano bestie per ammirarne la presunta eleganza proprio negli atti più feroci, e che come esteti da quattro soldi trovano nella musica classica più ovvia la colonna sonora ideale di queste messe in scena; curiosità e attrazioni che diventano intimidazioni, aggressioni; un senso dilagante di declino, malattia, morte, che coinvolge anche l’altro protagonista, l’investigatore narrante, meticcio che sulla propria pelle (rossiccia) prova il conflitto tra mondi incompatibili (il padre ebreo, la madre nera), e assiste proprio il padre morente, in pagine che mi hanno ricordato più di una volta il più delicato e stilizzato Il grande animale di Gabriele Di Fronzo (compare, a un certo punto, anche un grosso bisonte impagliato, per dire).
L’autore riesce – ed è un prodigio – a mantenere un bell’equilibrio tra materiale tanto disparato, che invece di esploderci davanti agli occhi è messo in ordine, implacabile, verso il finale. Il fiabesco rende sopportabili gli sbandamenti splatter, l’amara visionarietà tempera l’accettazione di certe convenzioni noir. La solitudine delle vite coinvolte nel racconto è compensata dalla ricerca (o dal sogno) di un contatto, di una ricomposizione: per il leopardo delle nevi, nel quale la sventurata protagonista si rispecchia, è l’attrazione per l’umano, per ciò che di nobile e libero l’essere umano può creare (il canto, dal potere consolatorio). Il disagio che proviamo nasce dalla sensazione che stia per accadere qualcosa di terribile (lo sappiamo perché assai spesso sin dalle prime pagine si fa riferimento a deposizioni, a verbali di polizia, il che non lascia presagire nulla di buono, anche se lascia incerti sulla reale natura di quello che avverrà).
(fasc. 12, 25 dicembre 2016)