Sebbene il romanzo fosse stato edito per la Gastaldi di Milano nel 1950, e fosse risultato vincitore del secondo premio all’omonimo Concorso Nazionale per il Romanzo[1], Serafino Maiolo aveva vergato le pagine di questa sua seconda opera molti anni prima, tra il 1934 e il 1935[2], quando a Roma, poco più che ventenne[3], si accingeva a portare a termine i propri studi in Giurisprudenza[4].
L’opera, in effetti, riflette chiaramente il mondo romano di quel periodo storico, con riferimenti ricorrenti ai circoli intellettuali e all’ambiente accademico che, assai presumibilmente, lo stesso autore dovette frequentare negli anni della sua gioventù. La vicenda principale
rispecchia un piccolo dramma in un ambiente di giovani intellettuali, di giovani artisti, che si conchiude con l’incenerimento del manoscritto di un poema per mano del suo stesso autore. “Non era il poema della sua vita, l’opera che avrebbe rivelato il suo ingegno, la sua vera arte che avrebbe illuminato il suo nome?”. A queste angosciose domande, l’incendiario risponde: “Vanitas, vanitas”[5].
Il libro, sapientemente organizzato in tre parti ‒ intitolate, rispettivamente, L’altalena del cuore, Valentina e Faville spente ‒, narra le vicende di Lucio, Adelina, Valentina e Dario, personaggi che, intrecciati per affinità o contrapposizione nell’eterno gioco del doppio ‒ che ha tra i suoi più luminosi riferimenti artistici contemporanei l’Ippolito Nievo delle Confessioni di un italiano o il David Lynch di Twin Peaks, ma anche l’Italo Svevo di Senilità con la struttura tetragonale che i protagonisti imprimono all’opera ‒, vivono un’esistenza letteraria intessuta di pensieri, idee, ideali, a tratti soffocanti, e di fatti concreti, pochi ma fondamentali.
La fabula è abbastanza semplice, lineare, senza particolari colpi di scena, eccetto un paio, e coincide quasi interamente con l’intreccio, fatta eccezione per un flashback di Adelina che, nelle ultime pagine, richiama la parte iniziale del libro, o addirittura lo precede, e che riesce a conferire al testo un andamento perfettamente circolare così nella forma come nel contenuto. La chiave di lettura del romanzo, d’altronde, non è esclusivamente quella cronologica degli avvenimenti: come i personaggi del libro vivono perlopiù di elucubrazioni, supposizioni, paure e idee, partorite negli antri più reconditi e inesplorati della psiche umana (il testo può benissimo essere ascritto, in tal senso, alla corrente neorealista), anche i destinatari dell’opera devono sforzarsi di leggere e interpretare I Vinti indossando lenti letterarie. I riferimenti e le citazioni colte sono, infatti, numerosi e anche le tecniche narrative si rivelano estremamente interessanti: dalla descrizione del paesaggio romano, del cielo e dei due protagonisti, vera e propria ekphrasis di un dipinto metaletterario, si giunge al rimando quasi onirico a Quo vadis? del polacco Henryk Sienkiewicz; da un’intera porzione della seconda parte, che segue gli schemi del romanzo epistolare e che ricorda palesemente I dolori del giovane Werther e le Ultime lettere di Jacopo Ortis, si ritorna alla scelta del titolo, I Vinti appunto, che rievoca il noto ciclo verghiano.
I temi affrontati, poi, denotano una vasta conoscenza filosofica e, più che offrire una risposta, insinuano dubbi, incertezze; interrogano tanto il protagonista quanto il lettore, favoriscono la riflessione: ci si domanda se la realtà possa essere conosciuta in maniera oggettiva o se il filtro della propria soggettività sia imprescindibile; se l’Arte sia superiore o inferiore al mondo dei Sensi e quanto debba essere umana o divina; se cose e persone mutino davvero o sia la percezione che si ha di esse a mutare; se la Morte smentisca o avvalori la Vita; quanto contino maschere (Pirandello) e illusioni (Leopardi) nella breve esistenza degli esseri umani; come la Vita abbia valore di per sé, al di là dell’amore, al di là dell’arte, perché «esistevano dunque altre cose, frivole sì, ma che avevano il potere di far impallidire le cose grandi, quelle cose rese grandi dalla fantasia e dal pensiero, quelle che elevano ma possono anche annientare» (p. 121).
Ciascun personaggio, inoltre, si afferma ed è contemporaneamente smentito dalla presenza del suo doppio, o meglio dei suoi doppi, poiché tutti i protagonisti di questo romanzo hanno almeno due o tre controparti di carta in cui si specchiano e oltre le quali scompaiono come spettri evanescenti. C’è la coppia Lucio/Adelina, col primo dominato da un pensiero visceralmente distaccato dalla realtà, e la seconda, fragile ma pragmatica, che conosce la vita; ma Lucio è l’altra faccia della medaglia anche rispetto a Dario, almeno apparentemente: i due si scoprono, poi, sempre più identici e vivono, seppur in maniera fisicamente diversa, lo stesso finale. Agli occhi di Lucio, anche Dario e Adelina sono uniti nell’estrema diversità: «Dario: il cammino severo dell’Arte. Adelina: lo specchio luccicante dell’Amore» (p. 32). Poi c’è la giovanissima Valentina, sorella di Lucio, e fulcro della doppiezza che, lungo le pagine del libro, sembra sempre più sfuggire di mano a Maiolo: climax vivente, ella si rivela quale Doppelgänger di Rosalba, di Adelina e, più di ogni altro, del fratello Lucio. Se quest’ultimo è uomo, vive in città, ha studiato e può costruirsi un futuro, Valentina è donna, nata e cresciuta in un piccolo paese di campagna, subisce passivamente gli esiti drammatici della condizione femminile del periodo storico in cui vive e, anche quando si ribella e prende in mano il proprio destino, è comunque inesorabilmente vinta dalla morale dettata da una realtà vetusta.
L’autore, inoltre, si rivela brillante tanto sul piano della forma quanto su quello del contenuto, proprio grazie alla figura di Valentina: il personaggio permette di affrontare la questione della disparità di genere, la qual cosa rende Maiolo, per certi versi, un femminista ante litteram. Anche la prosa «leggera mossa ariosa»[6] che costituisce, a quest’altezza cronologica, la cifra del suo stile, qui scorre in maniera piacevole, felice, raggiunge l’acme grazie al discorso diretto che nella seconda parte dell’opera diventa molto più abbondante che altrove; infine, la narrazione passa dall’uso della terza persona singolare a quello della prima, grazie al già citato espediente letterario del romanzo epistolare.
Lo scrittore, nonostante la giovanissima età dell’epoca, rivela una maestria tale da coniugare bene forma e contenuto: quando il riflettore illumina Lucio, che vive di pensieri, la scrittura è lenta, fatta di monologhi, la terza persona onnipresente e la descrizione è centrale, sebbene quasi mai si soffermi sull’aspetto esteriore dei protagonisti, volendo dare maggior risalto alle anime anziché ai corpi; quando, però, è Valentina a salire sul palcoscenico del romanzo, sono i fatti a prendere il sopravvento sui pensieri, la prima persona sulla terza, il dialogo sul monologo, lo scrittore onnisciente lascia il posto alla divinità creatrice dell’opera che è incarnata in una fanciulla, parla con la sua voce e scrive con termini aulici che rispecchiano la formazione, contadina ma feconda, della ragazza. E, come nella casa degli specchi, in un caleidoscopico moltiplicarsi di doppi e di coppie che diventano il doppio di altre coppie, anche la struttura del libro è animata da spirito analogo. La seconda parte può esser detta antitetica alla prima, vera e propria tesi dell’opera e, senza abbandonare la terminologia hegeliana, la sintesi drammatica del testo si dà nella terza e ultima parte: qui, con qualche conoscenza metaletteraria e un po’ d’immaginazione, è possibile anche fantasticare su cosa abbia provato il sommo poeta Virgilio allorquando, in punto di morte, chiese agli amici fidati di dare alle fiamme l’Eneide: «Il cuore si ribellava, il cuore che aveva suggerito il canto e aveva vissuto di esso. Perché? Non era il poema della sua vita, l’opera che avrebbe rivelato il suo ingegno, la sua vera arte, che avrebbe illuminato il nome? – Vanitas… vanitas!» (p. 151), avrebbe risposto Lucio Franzetti.
- Dalla relazione del Concorso Nazionale Gastaldi per il Romanzo, in S. Maiolo, I Vinti, p. 2: «libro al quale la Giuria ha assegnato il secondo premio, felice di additare in Serafino Maiolo un giovane scrittore serio e pensoso». ↑
- «Roma 1934. Fabrizia 1935»: ivi, p. 152. ↑
- S. Maiolo, C’è ancora una stella, Milano, Ceschina, 1959, seconda di copertina: «Serafino Maiolo nacque il 7 maggio 1911 a Laureana di Borrello (Reggio Calabria)». ↑
- Ibidem: «Seguì gli studi liceali classici e quelli superiori di giurisprudenza e filosofia, rispettivamente a Roma e Milano”. ↑
- Dalla relazione del Concorso Nazionale Gastaldi per il Romanzo, in S. Maiolo, I Vinti, op. cit., p. 2. ↑
- Ivi, p. 2. ↑
(fasc. 47, 25 febbraio 2023)