Pensa il risveglio, seconda opera narrativa di Alessandro Cinquegrani, è un romanzo che indubbiamente chiede molto al suo lettore.
C’è un uomo che racconta di essere sopravvissuto agli esperimenti di Mengele in un campo di sterminio, a differenza del proprio gemello, ma la sua storia fa acqua da tutte le parti. Il suo pronipote Lorenzo, regista incapace di compromessi, è alle prese con un film di fantascienza su una distopia paranazista ispirata ad Albert Speer: un futuro da noi non così lontano dove la riproduzione è strettamente controllata per il bene della specie e si spengono le malattie genetiche ancora nel ventre della madre. Ma non ci viene data alcuna garanzia che uno dei due mondi sia più reale dell’altro. Quando Lorenzo scompare, il suo «amico di sempre», perseguitato dalla mediocrità e dal proprio senso d’inferiorità nei confronti dell’altro, prende rapidamente il suo posto: il suo lavoro, la sua casa, il suo spazzolino, sua moglie – di tutto si appropria senza sforzo, come se gli fosse sempre appartenuto. Eppure è un impostore, e qualcosa nella consecutio degli eventi non torna: è tutto troppo facile, troppo veloce, troppo gratuito. Il protagonista smette di cercarlo per rintracciarne, piuttosto, la presenza dentro di sé in una spietata identificazione con le «esistenze estreme» delle figure mostruose che ossessionavano il rivale, tutte colpevoli della «logica senza intelligenza», del «calcolo freddo» del nazismo. E la realtà, interiore o esteriore che sia, si sgretola e finisce in rovina.
Ogni cosa, qui, è crepa, sfaldatura, motivo di sospetto. Dopotutto, diceva Speer, «Io mentii, e tuttavia mentendo non mentivo affatto». L’operazione di Cinquegrani è, perciò, tanto ambiziosa quanto coraggiosa, perché porta l’inverosimiglianza del racconto a una sorta di punto di rottura oltre il quale non c’è più differenza fra enigma e trasparenza e ogni cosa è ciò che è e non lo è al tempo stesso: simbolo e allucinazione che si dispiegano con modalità prossime al sogno, sebbene raccontati con realismo apparente, col ritmo del thriller e del film d’azione.
Pensa il risveglio è anche un omaggio alla lezione dei maestri a cui l’autore si rifà più o meno esplicitamente: il Sebald di Austerlitz, citato più volte; Bolaño, tramite il personaggio del Bruciato; l’indagine della psiche nazifascista di Littell in Il secco e l’umido (dove il polo simbolico dell’acqua è opposto all’aridità del pensiero assoluto totalitario, e non a caso qui il discusso titolo del film di fantascienza è La nostalgia dell’acqua); ma anche Cercas, Dick, DeLillo, e persino Umberto Saba, a cui si deve il titolo («pensa il risveglio, noi due soli, in tanto / squallore»). A partire da questa nutrita tradizione che ha analizzato non soltanto il nazifascismo ontico (ossia storico) ma anche quello ontologico (archetipico), Cinquegrani, già esploratore della rappresentazione del male nella sua attività saggistica (Il sacrificio di Bess), si fa qui artefice di un mondo mutevole e complesso fatto di piani di irrealtà compenetrati, di maschere e doppi, di citazioni e continue variazioni, di incubi tratti dalla storia, di falsificazioni e depistaggi.
Con intarsi di non-fiction e uno stile ora lirico ora invece prossimo alla sceneggiatura cinematografica, l’autore tenta l’arduo cammino lungo il filo d’Arianna, tempestato di cataclismi ed epifanie, che dal «desiderio di scomparire», dal «segreto bisogno di annientamento» di se stessi che tormenta il suo protagonista e lo porta alla discesa nell’abisso della natura umana (non era forse stato W. H. Auden a dire che Hitler era scomodamente vicino all’inconscio di ciascuno di noi?), conduce infine al risveglio in chi si è, in un corpo, una vita e una storia irripetibili, con tutta la responsabilità che ciò comporta. Perché «vivere è necessario e sorprendente, anche nello spavento, nel dolore, nell’incertezza».
(fasc. 43, 25 febbraio 2022)