A Rocco La Cava va il merito di aver reperito il manoscritto dei Canti, conservato nell’Archivio di Casa La Cava, e ancora a Rocco La Cava va il ringraziamento di Marianna La Cava (sorella di Rocco, entrambi figli del noto scrittore Mario La Cava) per aver contribuito all’esegesi del testo e per altri suoi preziosi consigli.
Dalla chiara e utile introduzione di Marianna la Cava si coglie quella che è la poetica del canonico Francesco Procopio, «nato a Bovalino in provincia di Reggio Calabria nel 1779». Vi viene illustrata assai bene la temperie culturale nella quale visse e operò il canonico dai cui versi, ben annotati e commentati, balzano fuori echi di altri autori: Tasso, per esempio; poi «rimandi all’Arcadia con un epitalamio dell’abate Pietro Metastasio»; movenze e reminiscenze appartenenti ai drammi pastorali di Giovan Battista Marino e del Guarini; come sono ancora còlti aspetti impetuosi ma talvolta tristi, «patetici», di natura «sturmeriana».
È, in seguito, messa bene a fuoco la formazione dell’abate Francesco che, «avendo a disposizione la fornita biblioteca di famiglia, […..] amplia la sua formazione culturale oltre i parametri teologici del Seminario» (Introduzione, p. 5). Egli, difatti, possedeva una vasta cultura classica, umanistica, e lo si deduce facilmente allorquando cita miti greci e latini che sono ripresi e trattati in modo creativo nei suoi versi, che richiamano alla mente «i vaporosi colori del ‘Trionfo dell’’Aurora’ di Guido Reni» (ibidem).
Come giustamente osserva Marianna La Cava, questi versi del Canonico sono «eleganti e rimandano a mondi ideali popolati da personaggi mitologici e a luoghi realistici in cui si svolge la vita quotidiana»; sono «versi raffinati e straordinari» come: «Desto, l’aligero / popol sonoro / Saluta il Nume, / Delle girevoli / Sfere, ineffabile / Gloria e decoro / [….] Giulivo a tendere / Torna le reti / il Pescatore / Nelle volubili / Region’ incognite / di Glauco, e Teti / Non è possibile / Provar l’incanto / Del dì che nasce / Senza disciogliere / Ebro di giubilo / La voce al canto / In sì sensibili / Momenti o cara / Scordo le ambasce / Che il sen mi squarciano / E lieta a vivere / L’anima impara».
Altri suoi armoniosi e scorrevoli versi sono inni alla bellezza che la natura ci regala, con frutti, fiori, momenti, ore, stagioni: «Bello è veder le fertili / Viti su’ colli aprici / Tutte disposte in ordine / E l’alme lor cervici / D’aurei racem’ involte / A’ sguardo altrui mostrar / [….] Evvi di Persia il frutice / Che ad assaggiarlo invoglia / Che di oro, e di porpora / Vanta tener la spoglia / Evvi il susin che prono / attende un rapitor / Evvi il rugoso, e lacero / Fico di ambrosia asperso / La Pera, l’odorifero / Popone, che diverso / Sapor conserva / e il dolce Granato di rubin / Allor che l’alba candida / L’estinta face alluma / Un garruletto Zefiro / I vanni suoi profuma / Nella rugiada, molce / Del dì nascente il Crin». Questi canti rispettivamente attengono a Il Mattino, Il Mezzogiorno, La Primavera, L’està; L’autunno, L’inverno; poi si leggono un Sonetto e un’Epigrafe che recita: «A Francesco Procopio Che Nella Città Di Oppido Ebbe Canonicato Cattedra fama Alla Studiosa Gioventù Maestro E Filologo Strenuissimo Spezzò Finché Visse Il Pane Della Sapienza Mancò Alle lettere Greche E Latine Il di 30 Luglio 1841 Di Anni 62 Giovambattista Fratello Questa Immagine dolentissima Fece».
Leggendo l’Introduzione all’opera, si vengono a conoscere altri aspetti e lati della personalità di questo coltissimo abate, che «fu maestro di Grammatica presso il Seminario di Oppido, in Calabria, dove già suo padre era stato maestro di umanità superiore ed eloquenza».
Francesco Procopio appartenne a un’illustre casata e si distinse negli studi umanistici e in quelli teologici, scientifici e giuridici. I suoi versi scorrono facili e immediati, e comunicano i suoi sentimenti e gli atteggiamenti, le emozioni che prova davanti agli spettacoli che di volta in volta gli offre la natura, di cui coglie certi aspetti che influiscono sul suo spirito: «Della stellifuga / Alba le sporte / Gigli e viole / Inaura, e agli esseri / La sua vivifica / Luce comporta» (da Il Mattino); «Cinta di tenebre / D’astri trapunta / Su cocchio di ebano / La notte spunta / Dal fosco margine / Occidental» (da La Notte); ed ecco La Primavera e L’està: «E in mezzo all’erba rorida / In mille spire avvolte / L’aspro torpor rimuovono / In cui giacean sepolte»; «Saprai mio ben che il fuoco / Del Crin che in Ciel fiammeggia / In paragone è poco / A quel che in me serpeggia / Saprai che il dì primiero / Che a me ti offristi, tacquero / Mie doglie, e nel pensiero / Altri desj mi nacquero».
Il canonico ha una personalità spiccata e un proprio programma di vita; ha ben compreso che «Bellezza e Gioventù sono concetti effimeri, ha scoperto che la vera consolazione proviene dalla vita contemplativa nel chiostro di un convento. Per don Francesco questo luogo ideale viene rappresentato dalla Certosa di Padula, a dispetto dei fatti che l’avevano vista teatro di grandi turbolenze con l’arrivo dei francesi, i quali nel 1806 avevano completato l’opera di spoliazione iniziata secoli prima».
In questi Canti del Canonico si gusta una dolce e musicalissima e delicata poesia, che scaturisce dall’intimo di chi l’ha composta.
(fasc. 51, 15 marzo 2024, vol. II)