Recensione di Marcello Borgese, “L’uroboro e l’incantatore di Serpenti”

Author di Carmine Chiodo

Il romanzo è ben riuscito, e per quanto riguarda lo stile e per il contenuto. Si lascia leggere con piacere, in quanto racconta una storia o delle storie che si svolgono in una Calabria ancora per molti aspetti feudale e poi dominata (siamo nel Settecento) dai francesi, i quali commettevano diversi soprusi e abusi nei confronti della popolazione e ovviamente gli uomini calabresi, forti, valorosi e coraggiosi, uccisero diversi «monsù», come venivano chiamati i soldati francesi.

In Calabria viene organizzata una sommossa contro i francesi, alla quale prende parte pure il protagonista di questa nuova opera di Borgese, Atenogene, che vive una vita intensa e caratterizzata da varie esperienze, tra successi e insuccessi. Nel corso dell’opera si leggono vari riferimenti storici che ci riportano alla Calabria dei tempi di Gioacchino Murat.

Intorno al personaggio principale si snodano varie vicende e nel corso della sua vita egli fa diversi incontri. Una vita avventurosa, quella di Atenogene, di cui lo scrittore fissa bene il carattere e l’evoluzione interiore, e lo fa con un linguaggio sempre scorrevole, che tiene avvinta l’attenzione del lettore. Da ragazzo lavora presso «il cantiere della chiesa» assieme al padre e «portava l’acqua da bere ai lavoranti». Il padre è menomato, mentre un tempo era un abile ed esperto muratore; viene deriso da un altro lavoratore del cantiere e Atenogene, che non sopporta la situazione, dà una mattonata in testa a colui che offende e ingiuria il padre e, credendo di averlo ucciso, scappa via e si rifugia in montagna. Da questo momento in poi inizia la sua vita avventurosa, fatta di alti e bassi.

Marcello Borgese costruisce e struttura molto bene lo spazio narrativo, fatto di vari ambienti, paesaggi e situazioni che di volta in volta sono espressi con un linguaggio sempre chiaro, essenziale, che mette bene a fuoco una vicenda o un aspetto del personaggio, ed ecco allora Atenogene che «la notte prima della fuga dorme poco e di un sonno leggero. Suo padre, tornato ubriaco, aveva detto parole incomprensibili e si era buttato sul letto con i vestiti addosso» (p. 17); «Guardate!, arriva il monco! Guardate come barcolla, è ancora ubriaco». Il ragazzo, come accennato, non tollera ciò e, preso dall’ira, raccoglie un mezzo mattone e lo lancia dall’alto in testa «all’idiota che cadde a terra tramortito» (p. 18). Poi, ecco Atenogene scappare verso la montagna, ove s’imbatte in un vecchio pastore, Ciselio, che «era seduto su un sasso e controllava le capre che brucavano un pascolo magro tra le pietre e la renella del greto» (p. 19). Da Ciselio egli apprende molte cose.
Quest’opera di Marcello Borgese è affollata di avvenimenti, descrizioni di personaggi, di ambienti: un’opera in cui si leggono pure riferimenti a certi usi e costumi, a fatti storici della Calabria, in cui ancora vigevano prepotenza e vessazioni operate dal potere. Atenogene non solo conosce Ciselio, ma pure il fratello del pastore, Caloteto, e proprio questi lo porterà all’interno del Basilace, che altro non è che un bosco folto e paludoso abitato dal «basilisco», un terribile rettile che porta morte, e lì Caloteto svelerà al ragazzo la sua vera natura di ceravolo, vale a dire di «incantatore di serpenti». È un dono speciale che ha Atenogene e, grazie a esso, intraprenderà un lungo e variegato viaggio esistenziale di conoscenza che lo porterà pure all’estero. Scoprirà a mano a mano il proprio destino di uomo uroboro: ed eccolo dapprima capraio, poi ceravolo, poi addirittura marchese e poi conoscerà l’amore. Dopo varie vicende tornerà nel bosco, nella sua terra splendida e anche orgogliosa.

L’opera racconta la storia di un uomo che è «quasi un’epopea e che, cominciando in tanto all’infinito, è alla costante ricerca del fine ultimo dell’umana esistenza»: «Atenogene, l’uomo uroboro, concludeva i giorni intorno alla pianura del Basilace e il sole spuntava e si spegneva ogni giorno, indifferente ai destini degli uomini»; «Ritto sul sasso lesse le pagine del vento, vide gli uomini seduti sui piedi del caso che non fa mai la stessa strada e lega in circolo persone e cose; scrisse che non c’era uno scopo, non c’era una fine, ma effimera ebbrezza nell’infilzare i giorni che volteggiavano intorno alle zone tonde». È la conclusione di questa significativa opera di Borgese, che ha pure una dimensione storica che s’intreccia con l’umanità, la personalità del protagonista principale, nella cui vicenda esistenziale s’incontrano altri uomini. Ecco, per esempio, Padre Filoteo, un religioso basiliano di rito bizantino del monastero Esarchio di Grottaredusa, che ha deciso di «lasciare l’abbazia per ritirarsi in un luogo solitario e allontanarsi quindi dalle cose materiali, dedicandosi così alla preghiera, al lavoro per il proprio sostentamento e alla confraternita» (pp. 127-128). Ecco ancora Donna Albertina, quasi «quarantenne, in seguito all’entrata in Napoli del cardinale Ruffo e della sua orda, se ne tornò al paese dove possedeva alcune proprietà che le assicuravano una modesta rendita». E poi una «fanciulla che saltava al suono della propria voce», figlia di una «cugina della signora»: viene dalle Fiandre; figlia di un nobile, si chiama Henriette, e subito entra in amicizia con Atenogene o, come lo chiama, «Atenò»: «Non vi stavo spiando è che Libecci mi ha detto…  di non rivolgervi a voi se non interrogato e allora… non» «Ho capito, non preoccuparti, nella mia famiglia non si usa, potrai rivolgerti a me quando vuoi e senza darmi del voi, visto che forse saremo quasi coetanei. Io ho tredici anni e tu?» «Quattordici» «Bene, allora puoi chiamarmi Henriette» (p. 83).

Leggendo con attenzione quest’armonica opera narrativa di Borgese ci s’imbatte in descrizioni molto belle e penetranti che attengono a cose, persone o aspetti del variegato paesaggio calabrese: «La luna piena le rischiarava il volto e gli occhi di pietra preziosa emanavano fulgori che infondevano al giovane un ardire sconsiderato, così si avvicinò e le baciò la bocca granata. Lei non si scansò, anzi gli alitò sul viso in soffio caldo di resa. Si guardò intorno per accertarsi che nessuno lo avesse visto e lei lo salutò con la mano e con un sussurro. “Il mio nome è Jasmine”» (p. 175; è uno dei tanti incontri amorosi di Atenogene); «Nella sua testa girava l’uroboro del libro di Caloteto  per ricordargli la circolarità delle cose: aveva già rifatto il capraio, tornava a fare il manovale, sarebbe ridiventato un galantuomo» (p. 305). Ed ecco ancora Atenogene che «Pensava alle Fiandre e immaginava Henriette muoversi nelle terre buie del Nord. Il serpente dell’uroboro aveva compiuto altri giorni. Era l’ora del ritorno della creatura che, per la prima volta, gli aveva fatto tremare il cuore?» (p. 211); e poi, per finire con le citazioni, un riferimento storico: «Era giugno inoltrato quando giunse la notizia della stipulazione del trattato di Casalanza con il quale venne sancita la definitiva caduta di Murat e il ritorno dei Borbonici sul trono di Napoli. I francesi ritornano senza rinunciare però a fare le ultime carognate».   Suggestive e precise sono certe descrizioni del paesaggio o momenti del giorno o dell’alba: «All’alba i raggi del sole, come frecce scagliate dall’alto, trafissero il cubicolo di Caloteto»; «Sorgeva l’aurora e al chiarore si levava una figura minuta, si affacciava al balcone che sovrastava il portale e restava per ore a guardare il largo che si animava». Questa figura è Donna Albertina (citata anche alla p. 72 del romanzo). Non manca la fiumara, con la sua cascatella gelida ove si lava Atenogene, che poi si strofina con un «batuffolo di fiori di lavanda per togliersi il sudiciume e per sentire meno freddo» (p. 77).

Invecchiato, il protagonista va alla ricerca di ciò che è stato prima e ritorna, così, al punto d’inizio della propria vita, al suo essere pastore e, «quando il sole risplende a levante sulle montagne», eccolo condurre le capre per il greto, e con la roncola tagliare rami di robinia; durante i suoi momenti di riposo, si lascia andare a riflessioni che attengono alla vita umana. L’opera di Borgese scava nei destini e nelle azioni umane e, quindi, ha un valore fortemente esistenziale e, allo stesso tempo, storico.

(fasc. 22, 25 agosto 2018)

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