L’ultimo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus ‒ finalista al Premio Campiello 2024 ‒, mi riporta al titolo di un famoso e ormai datato saggio di Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale. Chiunque abbia letto Mari sa che le metafore ossessive sono talmente numerose nei suoi scritti che viene addirittura difficile enumerarle. Quanto alla costruzione del “mito personale”, non c’è dubbio: l’autore di Leggenda privata di quello parla in ogni suo testo e lo fa con una, almeno apparente, grande generosità nei confronti del lettore, che si accresce libro dopo libro. A ben vedere, però, il testo di Mauron funziona, applicato a Mari, soltanto per il titolo: la psicocritica di Mauron vuole cogliere ricorrenze e dimostrare «la presenza accertabile, in parecchi testi dello stesso autore, di reti fisse di associazioni, che non si possono dire volute». Invece le ricorrenze, nei testi di Mari, sono volute, studiate, ben mirate come freccette che debbono colpire il bersaglio nel centro, altro che involontarie. Così come sono dichiarate le ascendenze letterarie e non che, in opere scritte da un autore molto colto, si infiltrano dovunque, non sempre esplicite ma sempre riconoscibili da chi abbia un orecchio sufficientemente allenato. Faccio un esempio che non ha nulla a che fare con Mari: sento parlare di “alba chiara”. A seconda dei miei riferimenti, penserò a Vasco Rossi o al “Don Giovanni” di Mozart e Da Ponte («Ma, essendo l’alba chiara, non sarebbe/ Qualche nuova conquista?») o a entrambi. Anche in Michele Mari ogni parola porta con sé un retaggio di riferimenti e nasce il sospetto che anche congiunzioni e generici connettivi siano reperti letterari complessi.
Prendiamo l’incipit di Locus desperatus:
Quattro tavole originali del Necron di Magnus, due del Dick Tracy di Chester Gould, due del Li’l Abner di All Capp, un Cocco Bill dedicatomi da Jacovitti; una calcografia di Piranesi, altrettanto originale; una madonna lignea del Cinquecento, con tracce dell’antica doratura; l’Oca di Enzo Mari; la lampada Toio di Achille Castiglioni; la prima edizione dell’Ortis foscoliano, quella dei Canti orfici di Dino Campana, quella del Voyage au bout de la nuit autografata dall’autore… Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi…
Dunque, i fumetti: di quelle tavole originali abbiamo già fatto almeno parziale conoscenza alle pagine 86 e 87 di Asterhusher; molto aggraziato il disegno di Jacovitti a pagina 87 (lo dico malgré moi: in genere non amo Jacovitti), con la seguente dedica “A Michele Mari, con simpatia! Jacovitti 97. A pagina 86, se non vedo male, compare la tavola di Magnus, con la terribile dottoressa Frieda Boher, la scienziata pazza e necrofila che, novella Frankestein, mette insieme parti di cadaveri e realizza Necron, una creatura fortissima, infantile ma dotata di grandi appetiti sessuali. Sarà un caso il fatto che questo fumetto erotico-grottesco compaia come il primo oggetto-feticcio di Locus desperatus?
Lascio aperta la domanda, e affermo che possiamo sapere tutto sulla copia dei Canti orfici che possiede il protagonista del romanzo (e Mari) a pagina 91 sempre di Asterhusher; a pagina 70 vedo, tra altri libri, una copia del Voyage au bout de la nuit; per l’Ortis non cerco traccia del volume in Asterhusher; mi basta il ritratto del diletto poeta (lo definisce così Mari: mi associo) a pagina 99. La calcografia di Piranesi la vedo a pagina 80 e l’Oca di Mari-padre, che non compare nel libro fotografico, è sostituita dai “sedici animali” sempre di Enzo Mari. Mi resta un dubbio, e cioè se la conclusione dell’elenco che funge da incipit («Quel certo oggettino, in cui si rapprendeva una tenerezza lontana, quei testimoni fraterni ormai radioattivi») debba coincidere con l’oggettino che compare in Verderame:
Era uno di quei santini laici formato da una base in similoro che reggeva, come fosse il quadrante di un orologio, un tondo metallico coperto da un quadrante leggermente bombato: sotto il vetro, stampato su un cartoncino, un montaggio fotografico rappresentante coloro che all’inizio degli anni Sessanta erano considerati i tre benefattori dell’umanità e i custodi della pace mondiale: John Fitzgerald Kennedy a sinistra, papa Giovanni XXIII al centro, e Nikita Kruscev a destra.
Nessun dubbio, invece, sull’attribuzione dei “tre puntini”: appartengono a Céline e ci seguono con insistenza sin dai tempi di Rondini sul filo, per poi ricomparire trionfalmente in Tutto il ferro della torre Eiffel:
Gli stava porgendo uno scatolino di latta (un nano misterioso a Walter Benjamin, ndr), di quelli che gli entomologi adoperano per trasportare gli insetti. ‒ Guardate, su. Non abbiate paura del prezzo, ci metteremo d’accordo. Aprì lo scatolino. Dentro, adagiate sopra un letto di bambagia, c’erano tre minuscole sfere nere, ognuna non più grande di un pallino da caccia. Interrogò il nano con lo sguardo.
– Non li riconoscete? […]
– Non ditemi che…
– Ma certo che sono loro! I tre puntini! La più grande invenzione del secolo! Per quel che riguarda la letteratura, s’intende, ci si vuole mica allargare! (P. 12)
Dovrei ancora insistere su parecchi passaggi, se volessi non dico esaurire ma almeno illustrare a sufficienza quanto ogni oggetto evocato nell’incipit di Locus desperatus comporti una mise en abyme da capogiro. Tiro dritto e torno indietro, al titolo.
Michele Mari è un filologo e forse non sarà casuale che intorno alla pagina 60 del romanzo anche il lettore incolto venga informato che la crux desperationis era il segno grafico con cui i copisti medioevali indicavano un passaggio testuale irrimediabilmente corrotto. E se quella croce fatta con il gesso, comparsa sulla porta del protagonista, non fosse quello che sembra quasi subito al protagonista – e cioè il segno di un “subentro”, di qualcuno che deve impadronirsi della sua casa e, soprattutto, delle sue cose, ma piuttosto la croce con cui i copisti antichi indicavano l’impossibilità di emendare o integrare un testo? Prima che l’angosciato protagonista metta a fuoco questa possibilità, ci vorrà parecchio tempo e il lettore farà conoscenza con una serie di personaggi inquietanti e bizzarri, emissari di non si sa quale potere, sfragisti che sembrano usciti da un racconto di Hoffmann, insomma quelli che fanno le croci sulla porta.
Presa consapevolezza che nel “subentro” diventerà un altro e che tutte le sue cose, non più sue, «sapendosi pensate», rimarranno «tranquille ed eguali a se stesse», il protagonista non si arrende. Tornato a casa, scopre però che certe targhette ovali numerate, un cimelio prezioso che già conoscevamo per averlo visto tal quale in Asterhusher, si stanno autonomizzando: vede, infatti, una striscia, quasi una cicatrice, che si muove su un muro, sotto l’intonaco. Scrosta l’intonaco, nella parte finale della misteriosa striscia, e vi scopre la targhetta numero 19:
“O targhetta mia bella”, feci, “ove ten vai così di soppiatto?”
“Men vo”, rispose quella, “dietro alle compagne mie fuggitive”.
“Ma dove, perché?”
Dopo questo inizio, in cui sentiamo echi di Petrarca, Da Ponte, Leopardi, la targhetta bella spiega che si stanno nascondendo perché non vogliono essere portate via («E ci porteranno via a te, per sempre, per sempre!»); e il lettore, ormai un po’ stordito, sebbene ci si trovi soltanto a pagina 14, rammenta l’invito sinistro delle due gemelline-fantasma di Shining: «Vieni a giocare con noi per sempre». E, se non è a quello che pensava l’autore, pazienza: anche il lettore ha il diritto di divertirsi e di divertire.
Annuncia, la targhetta fedele, inquietudine tra le targhette: si è diffusa la voce che il nuovo inquilino le porterà nel bosco del Siam, «presunto paradiso delle cose espropriate». Ben presto l’anonimo protagonista avrà a vedersela con le targhette traditrici, che, invece, tentano la fuga.
“Ma perché, sciagurate?! Perché?” urlai stringendo la 22 come un plettro. Perché, fu il responso, all’uggia e all’umiliazione di rimanere sepolte vive chissà per quanto, forse per sempre, avevano preferito l’alea di un nuovo proprietario, me lo disse così, senza vergogna, la troia. E forse, aggiunse, questo nuovo proprietario le avrebbe portate nel bosco del Siam.
Sulle fedifraghe si abbatte, tremenda, la vendetta: vengono ridotte in briciole a suon di martellate, tanto per dare un esempio a libri, francobolli e qualsivoglia collezione contenuta nella Casa.
Le targhette le conoscevamo di già; le avevamo viste in una fotografia di Asterhusher, dove erano accompagnate da una didascalia:
una serie di numeri è irresistibile come un’ipnotica litania: il ferro bombato e smaltato è purissimo eros: sublime forma è l’ovale: una collezione di targhette ovali in ferro smaltato si fa quindi pregiare come tesoro, cui degno contenitore è la scatola in latta di esotiche sigarette. Se poi questi numeri corrispondono ad attaccapanni di minatori in un’antica e dismessa miniera di ferro a duemila metri di altezza ove penetrai clandestinamente nel 1972, che dire, ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente molto bello. (P. 104)
Nell’ultimo romanzo il “tesoro”, come abbiamo visto, si rende autonomo e cerca di trovare riparo, anche a costo di abbandonare il collezionista che lo ama ogni giorno d’amor più forte. Quanto siano importanti, povere belle targhette miste a targhette opportuniste, ce lo confida la scelta di metterne l’immagine in copertina, tutte insieme nella scatola di Turmac che le racchiude.
A un certo punto il consiglio sulla strategia da seguire per salvare sé stesso e le proprie cose, arriva, per il protagonista, da un libro di Alfred Kubin, L’altra parte: «Urgere un altrove. Individuatolo, trasferirvi parte delle cose etc.». L’altra parte il fedele lettore di Mari lo aveva incontrato anni fa in Tutto il ferro della torre Eiffel, laddove Walter Benjamin lo riceve in dono da Scholem, ne resta assai impressionato e ne parla poi con Bloch. Nel libro ci sono «fantocci agitati, illusioni… prestanome del male», e anche un inquietante Altrove, proprio come nei romanzi di Mari.
Non c’è dubbio: Michele Mari è un adepto del pensiero magico e questo suo ultimo romanzo ne dà ulteriore prova. Mi rifiuto di far eco ai tanti recensori che vedono in Mari ascendenze gaddiane, segni chiari dell’influenza di Landolfi, Gombrowicz, Céline etc. Ci sono, e si rischia sempre di dimenticare qualcuno, ad esempio Mervyn Peake, scrittore grande e misconosciuto, ma molto amato da Mari. Chiunque, dopo aver letto due pagine di Michele Mari, capisce che ci si trova di fronte a uno scrittore che è un lettore vorace ma non onnivoro; la citazione è l’abito di Mari, lessico e sintassi hanno sempre risonanze precise. Anche questo fa parte del gioco tra chi scrive e chi legge – la sintonia, pur non necessaria, rende il gioco più divertente e la voce di chi scrive si arricchisce, per il lettore che sa, di armonici. A volte basta una parola il cui peso specifico determina la narrazione. Per esempio, il racconto di Fantasmagonia che ha come protagonista Machiavelli diventa horror puro quando il lettore comprende qual sia il cibo che, solum, serve al segretario fiorentino (dalla lettera a Francesco Vettori: «mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui»). Terrificante, quel solum.
In Locus desperatus il protagonista – altro esempio – è ridotto a “personaggetto”: è meglio avere nell’orecchio la voce del presidente della regione Campania De Luca (e la geniale imitazione di Crozza) che declassa continuamente a “personaggetti” gli altri politici per dare il giusto peso a questa citazione non colta. Insomma, la capacità di Mari di variare la densità semantica delle parole, di ridurle a elementi chimici che interagiscono tra di loro generando un caleidoscopio, è talmente evidente che insistere oltre mi pare banale.
Al pari delle parole, le cose diventano altro da sé in tutti gli scritti di Mari. Era già così ai tempi di Tutto il ferro della torre Eiffel: già allora le “cose” avevano un potere, anche se tutto il ferro della torre Eiffel non sarebbe bastato ad arginare la barbarie hitleriana («per quello ci vuole l’atomo», suggerisce nel romanzo un misterioso cinese). In Locus desperatus le cose si fanno protagoniste, alleate o traditrici che siano.
Chi è il protagonista umano di Locus desperatus? Mettiamo tra parentesi il fatto che Mari, come Flaubert, potrebbe esclamare rispetto al suo protagonista “C’est moi!”. Atteniamoci ai fatti e alle parole scritte; a rigore, del protagonista sappiamo che è un uomo, che ha una certa età (i compagni di liceo, che hanno una parte nella narrazione, li ha persi di vista da tempo), che soffre di quello che si dice disturbo ossessivo-compulsivo (e chi non ne soffre?), che vive in una Casa in cui ha raccolto innumerevoli oggetti e un numero enorme di libri. Ciò che ha raccolto ha contribuito a formare ciò che è e le cose sono diventate un indispensabile esoscheletro: «Potevo negare, io trepido personaggetto, di aver riposto la mia identità in quelle cose, investendole, fidandomi di loro e a loro?».
Perciò quella che viene narrata in Locus desperatus è una “crisi della presenza”, come la definirebbe Ernesto de Martino: «L’esserci è una realtà condenda, esposta al rischio della labilità, a cimenti terribili che possono mettere a dura prova la resistenza del ci sono, al pericolo estremamente concreto di perdere l’anima e di perdere il mondo, sicché nel “franamento di ogni limite, tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza”»[1].
Perdere l’anima: il “trepido personaggetto” scopre con sgomento di non aver memoria di parecchi dei libri a lui più cari. Il processo, Lo straniero, Cuore di tenebra, Cronache marziane – tutto dissolto dall’oblio. Ancora una volta un libro gli viene in aiuto, lanciandogli un segnale tenue e fosforescente: sono le poesie di Guido Gozzano e il volume si apre, sua sponte, su Totò Merumeni. Il testo è corrotto, irriconoscibile; eppure gli vuole comunicare qualcosa: «dev avertite ke de notte naltro wwiene / che cci prende e legce viaa ltua legtura».
Un doppio, quindi, si insinua di notte e, leggendo, sottrae al misero protagonista la memoria dei libri letti e amati. In Locus desperatus i doppi si sprecano: altri doppi si generano dai primi doppi, in varianti plurime e vertiginose. Chi subentrerà nella Casa al protagonista se non un “doppio”? Egli è assalito dal dubbio iperbolico: e se la questione del “subentro” non fosse iniziata ora ma avesse accompagnato tutta la sua vita, dall’inizio? Se insomma nella sua intera esistenza si fosse celebrata «l’orgia del doppio»? In fondo, ha appena sognato la sua mamma che, dopo avergli preparato il pancotto, arretra guardandolo e gli sibila: «Schifoso ultracorpo ti ammazzo!».
Perdita della memoria e trionfo del doppio sono due temi privilegiati di Mari. Per la memoria, il riferimento obbligato è a Verderame, in cui il co-protagonista, il Felice, perde progressivamente l’uso delle parole. Non sono soltanto le cose che ci costituiscono, ma anche e soprattutto la memoria, che ci tiene agganciati alla realtà e che ci fa considerare reale quel che possiamo condividere con altri. Quando ciò che si è costruito esplode, chi ha edificato sente la propria condanna. Finiamo, in un attimo, nel clima perturbante dell’Invasione degli ultracorpi o veniamo risucchiati nell’indecidibile follia dell’ultima inquadratura di Shining, in quella foto, scattata al ballo dell’Overlook Hotel il 4 luglio del 1921: al centro c’è Jack Torrance, il protagonista morto assiderato molto tempo dopo. Chi è Jack Torrance? Un alcolista con tendenze criminali, un uomo posseduto dai demoni, la reincarnazione di quell’uomo identico a lui che partecipava al ballo del 1921?
Non ho parlato della casa di campagna del protagonista (vedi Euridice aveva un cane, Verderame etc. e, per la documentazione fotografica, di Asterhusher). In essa, è aiutato da un simpatico aiutante magico di nome Sileno, una sorta di saggio «aborto incatramato» che sembra uscito da un fumetto, discendente dalla famiglia delle resine purissime e adesso uomo-morchia che si presenta foscolianamente: «Non son quel che fui: perì di me gran parte». Sileno avanza una teoria decisiva: il subentro è soltanto una messinscena e le croci sulla porta rappresentano soltanto (soltanto!) una maledizione scagliata dall’invidia: insomma, un caso di malocchio (ah, de Martino!). Contro il malocchio ci vogliono oggetti scaramantici. Nel finale, perciò, il protagonista allestisce il proprio esercito dotato di forti poteri apotropaici: è formato da oggetti che in buona parte conosciamo e comprende anche il Bibendum Michelin (Michelino?) che ci segue dai tempi di Tutto il ferro della torre Eiffel e la già citata tavola di Magnus.
Al collezionista non manca la capacità di mettere ordine tra le cose, al filologo non manca la capacità di mettere ordine tra le parole. Un filologo-collezionista: ecco chi è il protagonista di Locus desperatus. Non è difficile rintracciare il punto preciso in cui avevamo incontrato un’analoga ibrida creatura: abita nel racconto La serietà della serie, che già dal titolo fa rimbalzare ad Asterhusher («una serie di numeri è irresistibile come un’ipnotica litania»). Nel racconto parla, in prima persona, un ladro, finito fortuitamente nella casa del Mostro di L***, sive Il Collezionista (tra gli oggetti della collezione, un vasetto di lingue umane sotto spirito). Il ladro chiede al Collezionista perché uccida le proprie vittime:
«Vedete, “nella vita” io facevo il filologo. Avete un’idea di cosa significa? Significa incontrare un testo grasso, flaccido, pieno di macchie e di impurità, e dirgli: testo, io ti riporterò alla tua verità […] dovete scegliere gli strumenti più affilati: le alme della paleografia, la grattugia della recensio, lo squartamento della tradizione nelle nudità dello stemma […] e poi sezionare, eviscerare, potare […] insomma, quando avete pulito e asciugato dappertutto siete voi due soli, voi e il testo, perfetto nella sua semplicità originaria, nudo, scheletrico, puro! Avete capito?»
«Sì»
«No, non potete. Non avete mai fatto un’edizione critica».
Scopriamo poi che il Collezionista è anche un’enigmista, un cabalista che si compiace dell’esser pensato, dell’essere interpretato. Se il ladro, in un quarto d’ora, gli regalerà “una nuova nozione” in cui rispecchiarsi, lo lascerà libero. Altrimenti: «Chi non saprà significare, incontrerà il Segno. Chi non interpreterà, conoscerà la Lettera nella sua immediatezza. Chi non sarà sacerdote, parteciperà all’esegesi secondo i suoi mezzi, e sarà vittima». Insomma, in questa imponente “variazione sul tema” che è l’opera narrativa di Mari il lettore potrà ritrovarsi e ritrovare lo scrittore. Alla fine, il cambiamento è inevitabile, ma possiamo forse creare una barriera che ci difenda dal perenne trasmutare delle cose. A dire il vero, avremmo bisogno di uno sciamano che ci aiuti a difenderci dalle congiunture avverse e inopinate che turbano la vita quotidiana e che argini anche le fatture e il malocchio.
Secondo de Martino il mondo magico nasce quando la labilità diventa un problema,
quando è appresa come rischio nell’angoscia, e quando sollecita il riscatto di un ordine culturale definito che valga come sistema di guarentigie per l’esserci minacciato. Ora cultura significa iniziativa geniale che si consolida in una tradizione, tradizione che condiziona e alimenta l’iniziativa geniale, secondo una circolarità che la effettiva considerazione storica vieta di spezzare[2].
Siamo mai usciti dal mondo magico? La scienza, la tecnica, quella che definiamo civiltà ci hanno protetti a sufficienza dall’irruzione dell’orrore, del mistero, dell’irrazionale nelle nostre esistenze? Non sentiamo ogni giorno la carenza di oggetti apotropaici e di formule propiziatorie che ci difendano dall’incertezza? Il sonno e il sogno non ci portano a pensare a un Altrove in cui scivoliamo ogni notte, senza la certezza di uscirne indenni?
Se siamo di quelli che si tirano la porta di casa alle spalle e se ne vanno felici nel mondo, senza curarsi della propria ombra, forse Locus desperatus non è lettura adatta. Ma, se anche il chiudere la porta di casa obbedisce a una ritualità ed è strettamente codificato, se la non emendabilità dell’esistenza è un problema ricorrente; se poi siamo convinti che la serialità dell’azione sia anche garanzia di serietà della stessa ma, tutto sommato, non vogliamo rinunciare alla piacevole mutevolezza dello stadio estetico; se troviamo insopportabile l’ingiuria che il tempo fa alla nostra memoria e al nostro corpo; se abbiamo gettato l’ancora nel fondale fertile e confuso della giovinezza (o, meglio ancora, dei tredici anni) e non ci siamo mai decisi ad approdare alle più sicure secche della maturità, ebbene, Michele Mari ha scritto soprattutto per noi.
Un’ultima informazione: non ho affrontato la storia di S***, antica compagna di scuola, che attraversa il testo. La lascio al lettore, intatta e priva di commento.
- C. Cases, Introduzione a E. de Martino, Il mondo magico, Torino, Boringhieri, 1973, p. XIX. ↑
- Ivi, pp. 120-21. ↑
(fasc. 53, 25 agosto 2024, vol. II)