Leggere i romanzi di Stéphanie Hochet significa addentrarsi in una fitta, complessa rete di allusioni, fantasmi, ossessioni. In ogni romanzo il dosaggio si ricombina, nuovi rimandi si aggiungono, si avvertono risonanze inedite. Questo reticolato sembra infittirsi ancora di più con L’animal et son biographe, storia di una scrittrice in tournée in un sud della Francia solo apparentemente bucolico che si rivela a poco a poco colmo di sorprese e pericoli.
Proverò a stilare allora una parziale scaletta di quelli che mi paiono i riferimenti più significativi, consapevole che ci vorrebbe un saggio a esaminarli con la dovuta compiutezza:
- Elementi pittorici. Se ne Les éphémérides il riferimento era esplicitamente Francis Bacon, qui, altrettanto esplicitamente, è Picasso, citato più di una volta: il Picasso delle incisioni, affascinato dalla corrida e dal minotauro, dal machismo mitologico delle figure metà bestie metà uomini. Nel più recente romanzo questi riferimenti si concentrano sulla figura perturbante del sindaco della cittadina, Charnot, la cui virilità indiscutibile diventa quasi caricaturale (il suo ritratto rievoca una silhouette fallica).
- Un altro riferimento appare esplicito a un punto avanzato del romanzo, ed è Ionesco, quello di Rhinocéros: la metamorfosi, tutta sussulti e grugniti, di Charnot che legge il manoscritto della protagonista e i grugniti di plauso della platea anch’essa colta in atto di liberare la propria bestialità ricordano da vicino l’allegoria ioneschiana. Certo, di altre corna si tratta, di una metafora che richiede altra chiave di lettura.
- Stéphanie Hochet, nella prima parte del romanzo, gioca sapientemente con l’autofiction come non ha mai fatto prima. Attenzione, il gioco è un trabocchetto: se non possiamo fare a meno di immaginare il personaggio dell’io che narra con le fattezze dell’autrice, anche per effetto di alcune mascherate allusioni a titoli che ricordano titoli veri della Hochet (Eloge du ragondin, per dire), o per le riflessioni sull’autosufficienza economica dello scrittore o sulla vita seminomade di chi per presentare i propri libri è in perenne movimento fra treni, taxi, alberghi, a un certo punto sentiamo che la Hochet approfitta della nostra condiscendenza per spingerci dove non ci saremmo aspettati di andare.
- A poco a poco, il romanzo mette in scena un tema vasto e inquietante, quello del fraintendimento. Tema cruciale, per qualunque autore, per qualunque artista. Qui la protagonista si trova invischiata in un colossale fraintendimento delle proprie intenzioni: il suo interesse per il mondo animale, il suo ritenere animali e uomini alla pari è diventato, nelle intenzioni di Charnot e dei suoi accoliti (cioè di un’intera comunità del Sud della Francia), l’impulso per un progetto di ricostruzione di un mondo in cui uomo e animale si sfidano, si combattono, si cacciano. Qui, in questa provincia isolata e fertile, l’uomo riscopre la propria vocazione venatoria, che aveva represso per ossequio a mode e convenzioni sociali recenti, e la esercita senza sensi di colpa: e la stessa protagonista si piega a questa nuova ritualità della caccia, a denti stretti ammette di provare una fascinazione. Il fraintendimento, si diceva: di fronte al quale il personaggio della scrittrice si rivela impotente, incapace di ribellarsi, e alla fine disposto anche a cedere, pur di aver salva la vita.
- La bestia di cui si parla è l’uro (bos taurus primigenius, in francese aurocks), il mastodontico bovino estinto che domina le pitture rupestri di Lascaux in forme di raffinata stilizzazione, lo stesso che in una celebre pagina di Cesare popola le foreste germaniche e che si tentò di resuscitare durante il nazismo attraverso incroci impossibili. Charnot, grazie alla genetica, riesce a selezionarlo per la ricreazione del proprio mondo dominato dai rapporti di forza e da impulsi primitivi. L’uro diventa un dio, nelle intenzioni dell’io narrante, che accetta di scrivere un libro che lo celebri e lo definisca.
- La scrittura. Ogni libro importante finisce per interrogarsi sulla scrittura. In questo romanzo la scrittura diventa modo per misurarsi con l’estraneo, con l’altro, il nuovo: è cimento, sfida, è – ecco il trait d’union – battuta di caccia. L’oggetto va inseguito, puntato, sfiancato, posseduto, vinto. Non c’è nulla di scontato o di prevedibile in questo: lo scrittore può soccombere, se le forze in gioco sono troppo grandi per lui. Anche qui riconosciamo, trasfigurato, il mondo poetico di Stéphanie Hochet, il suo misurarsi con soggetti di volta in volta diversi, la sua legittima e orgogliosa ambizione ad affrontare la vita altrui ricostruendola alla propria maniera (come una biografa, appunto).
- La reclusione. Il libro, sia pure ambientato negli spazi aperti e soleggiati del sud, racconta una prigionia. La protagonista non riesce a uscire dal microcosmo in cui è stata attirata. Quando tenta di farlo, i confini sembrano spostarsi all’infinito, la campagna alterarsi in un’anamorfosi. Come accade agli abitanti del villaggio dei Figli dell’invasione di John Windham, o agli annoiati prigionieri dell’Angelo sterminatore di Luis Buñuel, o nel più recente e confacente Village évanoui del belga Bernard Quiriny, qualcosa di fatale, un’inerzia vischiosa, un sommarsi di disagi e incidenti le impediscono di allontanarsi, di tornare alla civiltà (Parigi è sempre più lontana, il ricordo delle abitudini sociali della capitale sempre più sfumato). La sessione di scrittura, invece di essere un paradiso fecondo di idee e favorevole alla libera invenzione, diventa prigionia, in cui si scrive perché non si può fare altro, e si scrive ciò che vogliono gli altri (il sindaco Charnot, sempre lui).
- Di chi è ciò che si scrive? A chi appartiene l’opera? Ecco un altro tema che striscia sottopelle in tutto il romanzo, sin dalle prime scene in cui lettori e curiosi sembrano impadronirsi dell’opera dell’autrice fin troppo paziente per piegarla alla propria interpretazione, stravolgendone il senso, confondendo volontà dei personaggi e intenzioni dell’autore. Il romanzo di Stéphanie Hochet racconta, con una certa angoscia, la progressiva perdita di paternità (o di maternità) dell’autore sull’opera. L’opera è di chi l’ha voluta, lo scrittore è un semplice esecutore, mette le parole giuste nell’ordine giusto, ma chi gli ha imposto il tema è il vero autore. Pronta a rinunciare alla propria opera sull’uro pur di avere salva la vita, la protagonista non rinuncia, però, a vendicarsi. Ma qui mi fermo.
(fasc. 17, 25 ottobre 2017)