Politica e cultura: la funzione intellettuale secondo Piero Gobetti

Author di Marco Donati

L’azione diventa dunque una necessità di armonia: noi abbiamo una sola sicurezza: la responsabilità, e un solo fanatismo: la coerenza[1. P. Gobetti, Per una società degli Apoti II. Difendere la Rivoluzione, in «La Rivoluzione Liberale», I, 31, 25 ottobre 1922, p. 115; ora in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1960, pp. 411-15, p. 412: l’articolo è scritto in reazione all’intervento di G. Prezzolini Per una società degli Apoti (in «La Rivoluzione Liberale», I, 28, 28 settembre 1922, p. 103), in cui si teorizza un intellettuale “storico del presente”, isolato e distaccato dall’azione politica diretta, latrice di contaminazione e compromissione. Questo contributo è un estratto della tesi di Laurea Magistrale in “Editoria e scrittura” dal titolo Fare cultura sotto il fascismo: le forme dell’opposizione nelle esperienze editoriali di Gobetti, Laterza e Formiggini, discussa presso la “Sapienza Università di Roma” nell’anno accademico 2014/2015: relatrice la prof.ssa Maria Panetta e correlatore il prof. Carlo Serafini.].

Parabola esemplare, nell’intensa brevità, quella di Piero Gobetti a Torino; parabola destinata a lasciare un segno indelebile, a rimanere un punto di riferimento imprescindibile per un’intera generazione, stella polare nell’indistinta nebulosa culturale dei primi anni del fascismo e ancor più fondamentale poi, nel periodo di chiusura repressiva e ferreo consolidamento del regime. Un’esperienza che influirà in profondità nella temperie culturale torinese, ancora e soprattutto nel buio degli anni Trenta, quando una posizione schietta e attiva come quella di Gobetti sarà realisticamente impossibile, ma altre modalità di opposizione lavoreranno all’apertura di una strada nuova, da percorrere in tempi di là da venire.

Dall’esordio pubblicistico con il primo numero di «Energie Nove», nel novembre del 1918 – a soli diciassette anni – fino alla chiusura forzata della cruciale esperienza della «Rivoluzione Liberale» e dell’attività editoriale, sette anni più tardi, e ai primi numeri del «Baretti», che proseguirà le pubblicazioni anche dopo la prematura scomparsa del fondatore, avvenuta a Parigi il 15 febbraio 1926: lungo tutto il proprio percorso Gobetti ha delineato in prima persona un preciso modello di intellettuale militante, forte dell’intransigenza morale, del rigore critico e della vena polemica che sempre l’hanno contraddistinto.

Un rilievo fondamentale nel concetto di militanza intellettuale propugnato da Gobetti è dato dal rapporto tra cultura e politica, inteso sulla base fondante di una necessaria e inderogabile reciproca interferenza, al fine di rendere l’azione socialmente efficace e finalizzata a un esito determinato: in ultima istanza, la formazione di una nuova classe dirigente, l’individuazione di un’élite liberale in grado di portare la nazione al livello avanzato della democrazia moderna; una spinta che deve venire dal basso, ma che allo stesso tempo può trarre linfa vitale e accrescimento potenziale nell’impostazione propositiva, in senso proprio “illuminista”, dell’intellettuale che si fa al contempo pedagogo e mediatore fondamentale delle contraddizioni sociali.

La spinta propulsiva di «Energie Nove» (due serie, per un totale di ventuno fascicoli, dal febbraio 1918 al novembre 1920) proviene da una già esibita e caparbia voglia di fare, di agire concretamente; se l’impostazione ideale non è ancora chiara e lineare – risentendo delle influenze dei suoi maestri, che a poco a poco saranno superate e nuovamente inglobate in una catena discorsiva più ampia –, è però vero che vi si misura per la prima volta, e con risultati già significativi, una grande capacità di organizzazione culturale: da una parte con l’assemblaggio di un corpus di collaboratori dallo spessore intellettuale e istituzionale molto elevato, dall’altro con la volontà dichiarata di raccogliere la tradizione delle riviste militanti del primo decennio e di costruire un sistema di propagazione di cultura focalizzato attorno a un nucleo ben distinto – in questa fase ancora in via di formazione ed ecletticamente ricettivo nei confronti di istanze diverse –, anche mediante l’azione organica e incisiva di una casa editrice: «Dalle riviste vive sono sempre nate case editrici vive. In Italia basta citare “La Critica” e “La Voce”»[2. Rasrusat (pseudonimo di Piero Gobetti), La cultura e gli editori. I, in «Energie Nove», II, 1, 5 maggio 1919, p. 15.].

C’è un altro aspetto fondamentale che emerge in questa prima esperienza pubblicistica, identificabile in un modello etico già tendenzialmente formato, seppure ancora privo di una direzione ben tracciata: una volontà d’incidere effettivamente sul tessuto socio-politico, di radicare la discussione intellettuale su un terreno fecondo in prospettiva politica. Come nota D’Orsi, sin da questa fase «negli articoli si usa la prima persona plurale: Gobetti si sente davvero già parte di un “movimento d’idee”, a cui vuol dare sbocco politico»[3. A. D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino, Einaudi, 2002, p. 56.], e in definitiva l’ambizione è ancora più estesa, «chiaramente politica, anzi partitica»[4. Ibidem.].

L’influenza del concretismo salveminiano è sicuramente la più rilevante, al punto che «Energie Nove» si fa propriamente nella seconda serie organo della Lega democratica costituita dallo stesso Salvemini: tra i temi di dibattito proposti, quelli sviscerati con i propositi maggiormente battaglieri sono relativi alla scuola, alla questione meridionale, al suffragio universale, tutti cavalli di battaglia nella contestazione antiburocratica e antiparlamentare. Il “problemismo” di Salvemini, la cui profonda e meticolosa attività di ricerca fornisce una dimensione concreta alla lotta contro la classe dirigente, rappresenta una sorta di trampolino di lancio. Una volta effettuato il tuffo, però, bisogna nuotare: e sotto questo aspetto – la pars construens, che da subito assume per Gobetti importanza di primo grado – l’esperienza salveminiana finisce per rivelare presto i propri limiti, essendo conseguentemente superata: «Salvemini resta fermo a un’opera di denuncia morale; indica disfunzioni, arretratezze, ma il rifiuto di ogni elaborazione ideologica finisce per diventare il rifiuto di una progettazione politica complessiva»[5. F. Brioschi, L’azione politico-culturale di Piero Gobetti, Milano, Principato, 1974, p. 3.].

Quando Gobetti decide in piena coscienza d’interrompere l’esperimento di «Energie Nove» per terminare gli studi universitari e al contempo per approfondire e chiarificare le linee-guida del proprio pensiero, è già in fermento una volontà di rinnovare la funzione intellettuale, di spostarla su un nuovo piano, nel quale allo spirito critico e polemico si accompagni un’effettiva proposta alternativa. Tutte le influenze dei maestri – Salvemini in primis, ma anche Prezzolini, Croce, Einaudi – vengono assorbite e rielaborate in questa nuova impostazione, che risente fortemente di alcuni passaggi formativi di impatto decisivo sulla sua futura concezione liberale. L’occupazione delle fabbriche, in primo luogo, suscita in Gobetti una profonda ammirazione:

Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo. Non sento in me, per ragioni speciali che tu sai, la forza di seguirli nell’opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio[6. P. Gobetti, Lettera ad Ada Prospero del 7 settembre 1920, ora in P. e A. Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 1991, p. 377.].

Ammirazione mediata dalla frequentazione dei giovani collaboratori dell’«Ordine Nuovo», in particolare Gramsci[7. Sul rapporto tra Gramsci e Gobetti, e per un tratteggio ben definito delle affinità e delle differenze che connotano i loro caratteri e le loro impostazioni ideologiche e militanti, cfr. P. Spriano, Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, 1977.], con i quali Gobetti collabora attivamente in qualità di critico teatrale e recensore letterario tra il 1920 e il 1921. Proprio in questo periodo, inoltre, approfondisce lo studio della Rivoluzione d’ottobre – imparando velocemente la lingua russa per poter comprendere più a fondo quegli avvenimenti, che gli appaiono di straordinario interesse – e del Risorgimento italiano, prefigurando il concetto di “rivoluzione mancata”, imposta dall’alto, non compresa né voluta dal popolo, e di conseguenza incapace di fornire le condizioni per la creazione di uno spirito nazionale e tantomeno per la più elementare forma di liberalismo.

La concezione politica liberale che rapidamente viene formandosi in Gobetti è del resto assolutamente peculiare, mediazione di fonti apparentemente inconciliabili e perciò paradossale sotto alcuni aspetti: in primo luogo, il connubio di un principio elitario nella selezione di un’adeguata classe dirigente e di una necessaria spinta dal basso per l’effettiva partecipazione del popolo alla gestione del potere, fino alla teorizzazione di una sorta di aristocrazia del proletariato – vista come unica forza propositiva in quella precisa fase storica –, a cui si dovrebbe, in seguito, accostare una selezione più estesa nelle altre classi, in primis quella della borghesia capitalistica. Il paradosso è ben esibito, anzi propugnato, nella stessa definizione di «Rivoluzione Liberale», così esplicata da Bobbio:

Una formula che comprende tre idee fondamentali: l’idea che una rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma inevitabilmente nel suo contrario; l’idea che la trasformazione dello stato italiano non potrà avvenire se non attraverso un processo rivoluzionario, un processo che altri paesi hanno avuto con la riforma o con la rivoluzione mentre l’Italia ha avuto la controriforma invece della riforma, e il Risorgimento che invece di una rivoluzione è stato una conquista militare compiuta dall’alto; l’idea che nell’età dell’avvento del quarto stato, la rivoluzione non potrà essere fatta se non dal movimento operaio, non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha dimostrato di aver esaurito il suo compito storico[8. N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1986, p. 157.].

Nel liberalismo rivoluzionario di Gobetti confluiscono elementi eterogenei, amalgamati e teoricamente incasellati in un sistema che in prospettiva di storia politica non avrà modo di lasciare tracce profonde, per via di una carica utopica difficilmente gestibile e soprattutto a causa della priorità oppositiva verso la quale dovrà forzatamente tendere la propria azione culturale.

La cultura politica su cui si forma il giovane torinese risente in prima istanza delle teorie socio-economiche di Gaetano Mosca e soprattutto di Vilfredo Pareto, dominanti nell’ambito liberale: secondo la teoria delle élites di Pareto, in particolare, il potere è sempre esercitato da una minoranza con il consenso della massa. Nel caso in cui la classe dirigente – nella fattispecie, la borghesia – finisca per rivelarsi inadeguata al ruolo, è possibile un mutamento dirigenziale senza che questo comporti uno sconvolgimento strutturale: l’osservazione approfondita dell’occupazione delle fabbriche spinge Gobetti a individuare nella classe proletaria l’unico residuo vitalistico della società italiana devastata dal trasformismo giolittiano, a propria volta conseguenza di un’arretratezza storica sul piano della consapevolezza popolare: «L’incapacità dell’Italia a costituirsi in organismo unitario è essenzialmente incapacità nei cittadini di formarsi una coscienza dello Stato e di recare alla realtà vivente dell’organizzazione sociale la loro pratica adesione»[9. P. Gobetti, Manifesto, in «La Rivoluzione Liberale», I, 1, 12 febbraio 1922, p. 1; ora in Id., Scritti politici, cit., p. 229.]. Su questo punto – da un lato debitore nei confronti del sindacalismo rivoluzionario di Sorel, con la sua polemica anti-parlamentare e il rifiuto dell’ideologia in favore di un’azione più diretta, dall’altro lato prodotto di una serie di studi sul Risorgimento italiano, inteso come unificazione forzata e non frutto di una viva coscienza nazionale – convergono l’impostazione esclusiva ed elitaria nella selezione della classe dirigente e la necessità dichiarata di una sollevazione dal basso, di una coscienza politica che deve essere acquisita in primo luogo dal popolo nella sua costituzione massificata: infatti, un corpo elettorale incompetente e impreparato favorisce la corruzione della classe dirigente, il clientelismo, la demagogia.

Senza abbandonare lo schematismo classista, Gobetti ne teorizza una maggiore elasticità: alla sollevazione del proletariato dovrà in linea teorica affiancarsi, strada facendo, una nuova borghesia imprenditoriale caparbia, moderna e spregiudicata. Rifiutando recisamente la teoria economica di Marx, egli ne apprezza, però, lo spirito combattivo, la capacità di suscitare energica attività, di fornire linfa vitale alla costituzione di una coscienza di classe[10. Cfr. P. Gobetti, L’ora di Marx, in «La Rivoluzione Liberale», III, 16, 15 aprile 1924; ora in Id., Scritti politici, cit., p. 640: «In Marx mi seduce lo storico (gli studi sulle lotte di classe in Francia), e l’apostolo del movimento operaio. L’economista è morto, con il plus-valore, con il sogno dell’abolizione delle classi, con la profezia del collettivismo».]: «Il suo valore propulsivo, l’acquisto di consapevolezza che ne discende, fanno sì che da un’autentica esperienza marxista scaturisca in realtà, al di là delle intenzioni, un significato liberale: secondo il principio per cui ogni forza deve affermare con intransigenza la propria individualità autonoma»[11. F. Brioschi, L’azione politico-culturale di Piero Gobetti, cit., p. 14.].

Questa apertura al marxismo – di carattere in senso lato etico, non certo da un punto di vista strettamente socio-economico – è il principale elemento di distacco da Luigi Einaudi, suo professore di economia all’Università di Torino; da Einaudi, tuttavia, Gobetti riprende un elemento cardine della propria teoria in costruzione, ovvero l’indicazione della società civile come luogo reale dell’azione politica. Seguendo le linee di propagazione del principio ottocentesco del laissez faire, lo stato dovrebbe esimersi quanto più possibile dall’intervento, lasciando che a determinare la struttura socio-economica sia la libera organizzazione dal basso, secondo un generalizzato principio di concorrenza: nella sostanza, «ci troviamo di fronte a un trasferimento del concetto di libera concorrenza dai rapporti economici ai rapporti tra i gruppi sociali»[12. Ivi, p. 11.], e il processo storico in cui tali rapporti vengono liberamente a determinarsi «non è concepito come la condizione in cui si esercita o si matura l’egemonia di un blocco sociale (diretto dalla borghesia o dal proletariato), come nel pensiero marxista; bensì come una condizione permanente (…), nel cui seno si formano e si selezionano le élites dirigenti, chiamate cioè a tradurre sul terreno politico dello stato la dinamica e l’intreccio della vita sociale»[13. Ibidem.].

«La Rivoluzione Liberale» viene pubblicata dal 12 febbraio 1922 all’8 novembre 1925, quando un decreto prefettizio ne ordina la sospensione immediata[14. Sul numero della «Rivoluzione Liberale» del primo di novembre viene pubblicata la lettera di diffida del prefetto torinese D’Adamo; il successivo 11 novembre una comunicazione del questore intima a Gobetti di cessare ogni attività editoriale e pubblicistica «in considerazione dell’azione nettamente antinazionale dal medesimo esplicata».]. È in questo contesto che viene a delinearsi la linea di condotta del giovane torinese, il cui liberalismo rivoluzionario, però, deve presto lasciare il passo all’antifascismo etico: la proposta di riforma morale e intellettuale dell’Italia unita non ha modo di esplicarsi nelle sfumature, rimanendo a uno stato aleatorio, a causa del progressivo instaurarsi del regime dittatoriale che polarizza ogni tendenza critica. Questa situazione contribuisce, di fatto, a tratteggiare un preciso campo d’azione nel quale tradurre in prassi la concezione battagliera dell’attività editoriale e pubblicistica, ma allo stesso tempo inibisce ˗ o, quanto meno, pone in secondo piano – l’avanzamento di una reale proposta politica liberale. L’interlocuzione del fascismo impedisce ogni verifica delle teorie di Gobetti e «finisce necessariamente per ridurre i problemi o alla tattica spicciola del confronto, e dello scontro, o a dimensioni che esaltano del singolo la dignità e la forza morale»[15. E. Sbardella, Introduzione a P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Roma, Newton & Compton, 1998, p. 23.].

L’emergenza di questa priorità oppositiva – e la centralità referenziale assoluta assunta in questo senso da Gobetti – è evidenziata anche nella testimonianza di Lelio Basso (che, con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo, è stato collaboratore importante della «Rivoluzione Liberale»):

In realtà, mentre egli ebbe chiaro il senso dei valori soggettivi dell’azione politica, della libertà come liberazione e quindi della lotta contro qualcuno o qualche cosa, cioè dell’opposizione, non si occupò mai seriamente di quello che un partito avrebbe poi dovuto fare, di quello che avrebbero dovuto essere gli obiettivi dell’azione politica, a parte il valore “liberale” della lotta combattuta […]. Per questo suo astrattismo, egli rimane un po’ al di fuori della lotta politica reale, e la sua concezione dei partiti (il partito operaio e il partito contadino) appare schematica. Ma quando il problema centrale della politica italiana diventerà un problema di opposizione, di antifascismo, quando gli obiettivi di edificazione pratica del domani passeranno in seconda linea di fronte al problema della lunga lotta necessaria per abbattere il fascismo, egli, quasi solo e praticamente senza strumenti d’azione, giganteggerà nella politica italiana, molto al di sopra di quasi tutti i primi attori della scena politica[16. L. Basso, Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. LXI-LXII.].

Il superamento di Salvemini e di Prezzolini rimane, quindi, a uno stato intenzionale, proclamato eppure mai tradotto in prassi: non è dato sapere se in una differente temperie culturale avrebbe effettivamente potuto aver luogo, dato che la storia non è fatta dai periodi ipotetici; ma ciò che appare evidente è che ogni possibilità di traduzione concreta dell’ideale gobettiano è disinnescata in partenza da una restrizione aggressiva degli spazi d’azione, cosicché in definitiva «né insurrezionismo armato né compagnia della morte possono esplicitare le “antitesi integrali” di Gobetti e dei suoi amici, che rimangono esponenti di quell’intellettualità che essi bollano con lettere di fuoco»[17. A. D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, cit., p. 71.].

Rimanere forzatamente nell’ambito intellettuale – anche considerando la scarsa efficacia pratica dei Gruppi di Rivoluzione Liberale[18. Annunciati con un articolo dal titolo Gruppi di Rivoluzione Liberale su «La Rivoluzione Liberale» (III, 28, 8 luglio 1924, p. 110); ora in P. Gobetti, Scritti politici, cit., pp. 758-760. Cfr. A. D’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, cit., pp. 68-69: a proposito dei Gruppi di Rivoluzione Liberale, D’Orsi riporta tra l’altro la citazione di una lettera riservata del prefetto Dezza alla Direzione di Pubblica Sicurezza, datata 23 novembre 1924, in cui si evidenzia un’«irreducibile repugnanza al fascismo e al mussolinismo», ma allo stesso tempo si riconosce che «il movimento si restringe a manifestazioni di propaganda culturale», non costituendo perciò un pericolo di portata rilevante.], costituiti nel luglio del 1924 – non vuol dire, però, essere privi di mordente, né d’altro canto equivale a un principio di rassegnata impotenza o di disincantata elusività. Ciò emerge chiaramente nella polemica tra Gobetti e Prezzolini attorno alla “società degli Apoti”, svoltasi sulle pagine della «Rivoluzione Liberale» negli ultimi mesi del 1922. Al riconosciuto amico e maestro che propone una figura di intellettuale come «storico del presente»[19. G. Prezzolini, Per una Società degli Apoti, cit.; cfr. un altro articolo di Prezzolini, Lo storicismo di un mistico, pubblicato su «La Rivoluzione Liberale» (I, 35, 7 dicembre 1922, p. 135): «il fascismo esiste e vince: vuol dire, per noi storici, che ha ragioni sufficienti per ciò (…). Ciò che è, è razionale; e se vogliamo capire la razionalità è necessario non portarcene fuori col desiderio, col sogno, con l’imprecazione». Al di là di questa polemica e più in generale del dissidio riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’avanzata fascista, Gobetti e Prezzolini mantengono saldi rapporti di amicizia e di collaborazione editoriale; per avere un inquadramento globale del rapporto intercorso tra i due nel corso degli anni, si rimanda a Gobetti e la Voce, a cura di G. Prezzolini, Firenze, Sansoni, 1971.], il quale deve mantenere una capacità di giudizio imparziale e distaccata a costo di isolarsi dagli eventi contingenti, Gobetti contrappone la necessità di uno scontro frontale netto sul campo della politica in atto: «La sua adesione alla storia non era come per Prezzolini semplicemente contemplativa e staccata, ma altresì creativa»[20. N. Valeri, Prefazione, in Antologia della Rivoluzione Liberale, a cura di N. Valeri, Torino, De Silva, 1948, p. XX.]. La marcia su Roma comporta una rapida radicalizzazione del pensiero gobettiano, e proprio per questa via egli matura il distacco progressivo dall’esperienza vociana, fino a quel momento riferimento imprescindibile:

Noi amiamo troppo la “Voce” vera, per non saperci distinguere e per non saper rinnegare i sogni genuini della “Voce”, che furono belli e fecondi, non per sé, ma come illusioni suscitatrici di risultati, e che oggi sono inutili, e segno di un’inquietudine malsana. Non già che si sia diventati saggi e composti, o che abbiamo rinunciato a fabbricare nuovi mondi, ma sappiamo di doverli costruire con disperata rassegnazione, con un entusiasmo piuttosto cinico che espansivo, quasi con freddezza perché ci giudichiamo inesorabilmente lavorando, e conosciamo benissimo i nostri errori prima di compierli e li facciamo deliberatamente, di proposito, sapendone la fatale necessità[21. P. Gobetti, Per una Società degli Apoti II. Difendere la rivoluzione, cit., p. 115; a conferma dell’importanza che tale intransigenza culturale riveste nell’approccio intellettuale di Gobetti, questi riproporrà le stesse parole, lievemente rielaborate, nell’introduzione al suo più noto saggio politico, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, pubblicato a Bologna da Cappelli nel 1924.].

La storia non lascia tregua: Gobetti sembra aver chiara l’idea che «capire, qui, equivale a giustificare (e la parabola successiva di Prezzolini confermerà inequivocabilmente tale intuizione). Dietro l’ipocrisia formale si nasconde l’adesione complice. L’intellettuale è, comunque, coinvolto, deve schierarsi, prendere parte»[22. F. Brioschi, L’azione politico-culturale di Piero Gobetti, cit., p. 19.]. Contro la repressione fascista che chiude ogni spazio dialettico è tempo di formare «non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte»[23. P. Gobetti, Per una Società degli Apoti II. Difendere la rivoluzione, cit., p. 115.]; preso atto «delle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci»[24. Ibidem.], si fa necessaria un’azione chiarificatrice che distingua il nuovo intellettuale, paladino della libertà, «da questi parassiti anche a costo di ricorrere a una tattica anarchica di insurrezionismo armato»[25. Ibidem.]. La vena eroicista che connota queste parole di Gobetti – di stampo neoalfieriano[26. P. Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, Torino, Piero Gobetti Editore, 1923; ora in Id., Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano (con due note di Lionello Venturi e Vittorio Strada), Torino, Einaudi, 1969, pp. 85-144. Il volume riproduce la tesi di laurea discussa dallo stesso Gobetti all’Università di Torino, relatore Gioele Solari: in questa lettura politica il pensiero di Alfieri viene posto alla base del liberalismo ottocentesco, e in chiave attualizzante eretto a paladino della “religione della libertà” contro l’avanzata della tirannide.] – fa seguito alla volontà di instaurare da subito una nuova retorica maggiormente incisiva nella propria assoluta intransigenza: «Noi siamo più elaboratori di idee che condottieri di uomini, più alimentatori della lotta politica che realizzatori: e tuttavia già la nostra cultura, come tale, è azione, è un elemento della vita politica»[27. P. Gobetti, Per una società degli Apoti. I (nota all’articolo di G. Prezzolini), in «La Rivoluzione Liberale», I, 31, 28 settembre 1922, p. 114; ora in Id., Scritti politici, cit., p. 412.].

(fasc. 8, 25 aprile 2016)