La morte di Dio e la fine della democrazia

Author di Francesco Postorino

Gli antichi

È opinione comune cogliere nell’«età di Pericle», quella che va dal 460 al 429 a.C., il punto focale dei primi esperimenti democratici. L’atmosfera ateniese, prima di cedere ad altre volontà di potenza, enuncia l’eguale possibilità di tutti i cittadini di esercitare i diritti politici, un principio di maggioranza che si applica tramite alzata di mano, un’assemblea popolare che possa ospitare il regolare svolgimento dell’attività politica e altri requisiti che consentano di preservare la democrazia.

Già Solone realizza un primo abbozzo di eguaglianza istituzionale, recepito con novità significative dai successori Clistene e Efialte, nonché perfezionato dallo stesso Pericle. Lo scopo è di garantire la pace e la convivenza fra classi e singoli aggrappati ad una concezione «politica» e non ancora strettamente «filosofica» incentrata sulla proposta dell’isonomia (eguaglianza davanti alla legge) e dell’isegoria o della futura parrhesia (eguale libertà di espressione in assemblea). «Non troppi ricchi e non troppi poveri» è il leitmotiv di un’opera di conciliazione interrotta bruscamente e ripresa con altre vedute solo duemila anni più tardi in «limitatissimi spazi del pianeta»[1. Lorenza Carlassare è dell’avviso che la democrazia «non solo è intermittente, ma unisce ai limiti di ordine temporale imponenti limiti territoriali. La sua estensione oltre l’Europa e il Nord America è lenta, faticosa, improbabile e carica di sangue come ben dimostrano i drammatici e insinceri tentativi recenti di “esportarla” con la violenza delle armi. Limitata nel tempo, limitata nello spazio e forse destinata nuovamente a sparire», L. Carlassare, Democrazia: alterazioni di un concetto, in Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky, a cura di A. Giorgis, E. Grosso e J. Luther, Torino, Einaudi, 2016, p. 128.].

La democrazia è il «potere del popolo». Ma chi è il popolo per i greci? I «tutti» (plethos), i «molti» (hoi polloi), i «più» (hoi pleiones) o addirittura la «folla» (ochlos)[2. Cfr. G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, a cura di L. Foschini, Milano, Mondadori, 2008, pp. 5-6.]? Il punto ineccepibile, almeno per Giovanni Sartori, è che «la prima discussione pubblica istituzionalizzata come deliberazione fondante della città politica avviene nell’Atene del quinto-terzo secolo a. C.»[3. Ivi, p. 73.].

La democrazia, seguendo questa tesi, è il prodotto della scuola europea, dove il modello paradigmatico di Atene, scrive di recente Luciano Pellicani, inaugura la stagione della «società aperta», lottando contro la «società chiusa» simboleggiata dalla rivale Sparta[4. L. Pellicani, L’Occidente e i suoi nemici, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, p. 8.].

Amartya Sen fa, tuttavia, notare che l’ideale democratico non andrebbe confinato nell’esperienza occidentale. La discussione pubblica e la pratica delle elezioni avrebbero alle spalle una lunga e variegata storia[5. A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2009, p. 336.]. Il Consiglio ateniese dei 500, il cui compito è soprattutto quello di redigere progetti e affidarli all’assemblea popolare, non divergerebbe sul piano sostanziale dalle iniziative «democratiche» realizzate dall’Impero indiano del III secolo a. C., grazie a «concili buddisti» che includono forti controversie religiose, e dal Giappone del VII secolo d. C., con un testo normativo – la «Costituzione dei diciassette articoli» − fondato su un serio convincimento democratico[6. Ivi, p. 337.]. L’ideale della democrazia, se diamo ascolto a questa interpretazione, non si fossilizza in un’unica tradizione e, per dirla con il politologo Robert Dahl, si identifica nel suo gesto inconfondibile con la «logica dell’uguaglianza»[7. R. Dahl, Sulla democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 12.].

Per Luciano Canfora, invece, non vi sarebbe traccia della promessa democratica né in tempi antichi né in età più recente:

Quel Pericle infatti adopera con molto disagio la parola democrazia e punta tutto sul valore della libertà (…) Ha vinto la libertà – nel mondo ricco – con tutte le terribili conseguenze che ciò comporta e comporterà per gli altri. La democrazia è rinviata ad altre epoche[8. L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 367.]

Protagora, forse collaboratore di Pericle, risulterebbe il primo teorico ad aver esposto le linee guida del pensiero democratico:

il diritto di tutti alla partecipazione politica in base al presupposto che questa viene legittimata ed esaltata dalla capacità anche dell’uomo comune educato di esserne un fondamento insieme necessario e positivo[9. M. Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Roma, Donzelli Ed., 2015, pp. 26-27.].

Il sofista, raccontato da Platone, premia filosoficamente la «doxa» e la politicizza. La sua concezione democratica parte cioè dal presupposto che la virtù è di tutti. Fuori dalle competenze di ognuno per quel che riguarda le arti e le scienze, nello spazio pubblico il chiunque deve poter esprimere la sua decisione ed essere rispettato, giacché la verità non è appannaggio, per l’appunto, di pochi eletti.

Pericle, dichiara Tucidide, è fra gli ateniesi «il più capace nel parlare e nell’agire»[10. Tucidide, Le storie, a cura di G. Donini, Torino, Utet, 2005, p. 271.]; ma nel sentiero sofista un discorso vale l’altro. L’opinione («doxa») e la retorica signoreggiano sul senso socratico e sull’inquietudine della ricerca. La democrazia, per la propaganda sofista, è il campo naturale entro cui seminare capriole dialettiche spogliate di pathos. La giustizia, per Trasimaco, è infatti l’«utile di chi è superiore»[11. Platone, La Repubblica, Milano, Rizzoli, 2004, p. 49.]. Nell’universo dei relativismi la democrazia diviene il luogo ideale che livella ogni cosa. Muoiono i riferimenti e predominano le passioni.

Platone, con più enfasi rispetto al «Vecchio Oligarca» (Pseudo Senofonte), manda in soffitta ogni ipotesi democratica. L’atto di emancipazione dalla «caverna» degli ignoranti e la purezza del filosofo, per l’allievo di Socrate, permettono di fronteggiare l’ideologia democratica e difendere una società pianificata dalle Idee. Aristotele, molto più cauto, offre un’apertura di credito al difficile incontro tra la libertà meritocratica e l’eguaglianza, tra il rispetto dell’abito individuale e il bisogno di inclusione. Il padre della logica chiama politia la conquista democratica dello spazio collettivo che tiene conto degli interessi di tutti e non soltanto della «massa», quei poveri che sono «molti di numero»[12. Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 85.].

Nonostante le miopie e i tanti difetti che caratterizzano questi ultimi approcci − in particolar modo quello tendenzialmente totalitario in Platone −, vi è un proficuo segnale di sfiducia verso il lato oscuro della democrazia: l’esasperazione di un mito che il più delle volte sfocia nella volgarità, nella «tirannia della maggioranza», dirà con eloquenza il grande studioso della democrazia in America Alexis de Tocqueville.

Il Medioevo, fra monarchie divine, teocrazie e ancien régime, la ripudia. Bisogna attendere Jean-Jacques Rousseau per un rilancio della proposta democratica dialetticamente contrapposta a quella difesa dal «grand architecte humaniste de la démocratie libérale» Benjamin Constant[13. P. Nemo, Benjamin Constant, le grand architecte humaniste de la démocratie libérale, in Histoire du libéralisme en Europe, a cura di P. Nemo e J. Petito), Parigi, Puf, 2006, pp. 419-28.]. Le originali teorie del primo, fondate sul disegno consapevolmente utopico della «volontà generale», anticipano di qualche decennio gli effetti della Rivoluzione francese, i cui progetti costituzionali del 1793 – uno giacobino e l’altro girondino – intendono dare sfogo proprio al suo Contratto sociale. La visione del secondo, invece,

réfute avec une clarté exemplaire les leçon liberticides de Rousseau et des Jacobins et (…) il définit clairement ce qu’est le «régime représentatif», et ce que doit être une representation fidèle des collectivités locales et nationales. Il discute des avantages respectifs des divers modes de scrutiny, du suffrage censitaire[14. Ivi, p. 420.].

Rousseau, «lo scopritore del problema della libertà egualitaria»[15. G. Della Volpe, Rousseau e Marx, pref. di N. Merker, Roma, Ed. Riuniti, p. 54.], combatte la trasmissione rappresentativa del potere che caratterizza il costituzionalismo anglosassone con l’intento di

trovare una forma di associazione che con tutta la forza comune difenda e protegga le persone e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e resti non meno libero di prima[16. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, in Id., Scritti politici a cura di P. Alatri, Torino, Utet, 1979, p. 730-31.].

Constant, sensibile ai diritti individuali, al liberalismo «negativo» e al momento pluralistico delle società moderne, teorizza al contrario una democrazia indiretta che possa garantire la dimensione qualitativa del singolo. Entrambi gli autori sono comunque distanti dal modello ateniese.

I greci vivono per la polis. La loro idea si basa sulla stretta reciprocità tra i singoli e la città, tra il cittadino e l’idem sentire. I trentacinquemila abitanti di Atene sono «liberi» in un senso e con sfumature differenti rispetto al cittadino moderno e contemporaneo delle grandi metropoli. Il voto degli antichi incarna lo spirito comunitario, la logica di un insieme algebrico che ignora l’apparato statale − elaborato per la prima volta nel Principe di Machiavelli − e conferma la natura di un pensiero non interrogato fino in fondo, figlio della contingenza e puntualmente notificato dal linguaggio assembleare. La democrazia degli antichi, che manda a morte l’autenticità di Socrate[17. Cfr. R. Guardini, La morte di Socrate, Brescia, Morcelliana, 1998; cfr. G. Figal, Socrate, Bologna, Il Mulino, 2000.], scivola in un sicuro dispotismo. Non sembra, dunque, condivisibile la celebre tesi di Gustave Glotz, secondo cui la libertà individuale si rivela «assoluta» all’epoca di Pericle, dato il perfetto equilibrio tra i diritti individuali e la «pubblica potestà»[18. G. Glotz, La città greca, Torino, Einaudi, 1948, p. 157.].

Lo spazio dell’indifferenziato viene monopolizzato dall’indirizzo politico «di chi è superiore», di colui che in buona o in cattiva fede esteriorizza gli usi e i costumi della polis. Questa democrazia difetta dell’intrinseco e appare più come una stanza buia che ospita la medesima sceneggiatura. L’uomo può anche entrarci, ma soffre di anonimato. Da un lato entra in politica, dall’altro subisce il frastuono della tradizione e della retorica sofistica. Le consultazioni periodiche ripropongono l’impersonale, il vuoto, la quantità e la «cattiva qualità»[19. G. de Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, pref. di R. Romeo, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 398.]. I greci hanno il grande merito di inventare l’arte della politica che, tuttavia, rifiutando con tragica coerenza il messaggio socratico, non conosce «l’idea di valore espressa dal rispetto dell’individuo-persona»[20. G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 166.]. Il privato viene interpretato «all’insegna della mancanza e non della realizzazione di sé»[21. Manuale di storia del pensiero politico, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 22.]. La democrazia parla ai greci e non viceversa.

I moderni

Gli Stati Uniti, sul finire del diciottesimo secolo, offrono un primo e chiaro esempio di democrazia moderna; qui, secondo Tocqueville, viene applicato il principio della sovranità popolare e alcuni caratteri fondamentali dell’ordine politico garantiscono il nuovo modello repubblicano e democratico. Lo storico francese, distante dai liberali «puri» dell’epoca della Restaurazione e della Monarchia di Luglio, nonché dai sostenitori, come François Guizot, di un suffragio universale ristretto a base censitaria[22. Cfr. A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, introd. e cura di G. Candeloro, Milano, Rizzoli, 2004, p. 10.], aggiunge nel suo capolavoro La Democrazia in America che la trama egalitaria «avanza a piccoli passi verso il potere anche in Europa»[23. A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Milano, Rizzoli, 2007, p. 19.], dove si può scorgere una democrazia anglosassone e una di tipo continentale.

La prima è per lo più il frutto di una lunga esperienza consuetudinaria, osannata dal teorico conservatore Edmund Burke e sempre attenta ad ammorbidire le pulsioni totalitarie che possono emergere da uno sbilanciamento dei poteri. Agli inglesi, d’altra parte, manca il concetto della libertà e i loro diritti individuali rischiano di trasformarsi in privilegi. Il liberalismo democratico anglosassone pare troppo a suo agio nel terreno della storia, cioè della sua storia, e diffida dell’universalità.

La democrazia francese, di ascendenza cartesiana, madre dei nobili principi dell’89, non è esente dall’incubo giacobino. Tocqueville ricorda che la rivoluzione scoppia in Francia perché in questo Paese le condizioni sociali e politiche si rivelano più progredite che altrove e gli uomini si rivelano «più simili tra di loro»[24. A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, op. cit., pp. 18-19.].

La costruzione moderna della democrazia non nasce d’un tratto. Lo sviluppo del cristianesimo, dell’umanesimo, della riforma, dello Stato moderno e del liberalismo seicentesco ha trasformato la mentalità dell’uomo occidentale. La democrazia moderna sarà chiamata

a fungere da garanzia e da presidio di una libertà dell’individuo-persona che non intende per nulla risolversi, come diceva Constant, nella «soggezione dell’individuo al potere dell’insieme»[25. G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., p. 170.].

La libertà degli antichi cede il primato ai moderni. Secoli di storia sono serviti a distogliere lo sguardo acritico dalla polis e a concentrarsi sull’«io». Un «io» mondano, empirico, trascendentale, idealista, persino socialista ma pur sempre un «io».

Se «io» esisto, subentra un nuovo anelito di libertà. Ho bisogno di trovare filosoficamente me stesso, perciò l’orizzonte giuridico deve occuparsi anzitutto della mia nuova soggettività. Il liberalismo è, in primo luogo, la religiosa consapevolezza che il «se stesso» si situa nel mondo con la propria voce. Dalla democrazia di tutti e di nessuno si passa a un primo e ancora farraginoso tentativo liberaldemocratico.

Senza dubbio – come illustra Guido de Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo − intorno alla metà del diciannovesimo secolo la democrazia riacquisterà la sua naturale inclinazione collettiva, sorretta originalmente dalla rivoluzione industriale, dall’organicismo sociale, dagli indirizzi positivistici[26. G. de Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, cit., p. 394.], e in seguito progredirà col potenziamento del suffragio grazie alle novità introdotte dalla Nuova Zelanda − primo paese a riconoscere, nel 1893, il diritto di voto alle donne – fino ai giorni nostri. Ma questa crescita esponenziale della democrazia, la rivisitazione del suo rito collettivo, con i suoi tratti vividi e oscuri, non andrebbe intrinsecamente riallacciata al tessuto democratico manovrato dai seguaci di Pericle. Non è un semplicistico eterno ritorno della democrazia, in altre parole, ciò che fuoriesce dalle moderne conquiste del voto, del sociale, del «tutti condiviso».

La «volontà generale», teorizzata dallo scrittore ginevrino, s’iscrive generalmente nel contesto borghese e moderno. Se, come aggiunge Dahl, «in ogni tempo e in ogni luogo, la logica dell’eguaglianza va a scontrarsi con la brutale realtà della disuguaglianza»[27. R. Dahl, Sulla democrazia, cit., p. 25.], occorre precisare che la suddetta logica, nei tempi moderni, scaturisce da un impulso individualistico mai radicalmente eccepito, per quanto spesso sbeffeggiato dai vecchi e nuovi cultori dell’«olismo»[28. Cfr. K. Popper, Miseria dello storicismo, introd. di S. Veca, Milano, Feltrinelli, 2008.].

L’«io» dei moderni inizialmente si isola, chiede protezione a un Leviatano e stipula un contratto di minima garanzia al fine di ottenere il più possibile entro le condizioni storicamente date (condizioni che a tutt’oggi sorridono ai beneficiari del capitale).

La democrazia dei moderni apre in ogni caso le porte al «tu» e al «noi» attraverso la suggestiva ed emblematica lezione volterriana della tolleranza, secondo cui «bisogna considerare tutti gli uomini come nostri fratelli»[29. Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Milano, Rizzoli, 2002, p. 101.]; oppure, come si è visto, mediante le precarie conquiste sociali e i suffragi universali sbocciati nel corso del Novecento. Un liberalismo dai toni muscolari si mette formalmente da parte e una concezione molto più inclusiva della democrazia, governata da una nuova Weltanschauung, comincia a prender piede.

Il «noi» è, tuttavia, ristretto: la democratica sociale fa paura. Si pensi alla fallimentare Comune di Parigi del 1848 che fa «tremare» Tocqueville, l’aristocratico Nietzsche e, come osserva lo storico Jacob Burckhardt, mette in scena l’esplosione della «grande questione sociale»[30. D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, vol. 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 13.].

In sintesi, lo spazio greco è guidato dall’impersonale (natura, physis) e dalla «pienezza del pubblico»[31. Manuale di storia del pensiero politico, a cura di C. Galli, op. cit., p. 22.] («non-io»). Il linguaggio dei moderni, al contrario, prova ad introdurre una stagione democratica dal respiro individualistico («io in fieri»), accompagnata dall’occhio vigile del soggetto storicamente vittorioso: il borghese.

I contemporanei e il ruolo di Nietzsche

Il Novecento è il «secolo più sanguinoso della Storia»[32. M. Pallante, Destra e sinistra addio. Per una declinazione dell’uguaglianza, Torino, Lindau, 2016, p. 11.]. Il voto popolare serve a giustificare le prepotenze del princeps e si affacciano teorie giuridiche e filosofiche che rispondono al paradigma della volontà di potenza. Su tutte quella di Carl Schmitt, le cui opere sono da annoverare tra le più significative del XX secolo, anche se Il Führer protegge il diritto, pubblicato nel ’34, la dice lunga sul suo approccio non democratico, dove peraltro si pretende di «giustificare su un piano giuridico l’eliminazione fisica dei capi delle SA avvenuta durante la Notte dei lunghi coltelli»[33. J. F. Kervégan, Che fare di Carl Schmitt, a cura di F. Mancuso, Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. X-XII.].

Le architetture istituzionali del secondo dopoguerra contengono i principi a tutela della dignità individuale. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e le nuove carte costituzionali si uniscono alle politiche economiche di stampo keynesiano, alla fine ufficiale del colonialismo, ai motivi di pace e in un certo senso alle lotte studentesche degli anni Sessanta. Solo che la tecnica, anche quella giuridica, prende il sopravvento. La kelseniana dottrina pura del diritto e la democrazia nel suo tratto minimale – considerata da Norberto Bobbio, nel suo Il futuro della democrazia, «un insieme di regole (primarie o fondamentali) che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure»[34. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1995, p. 4.] – intendono mettere «tutti d’accordo»[35. A. Mastropaolo, La trappola democratica, in «Il Ponte», 19 aprile 2016.], ma rendono insipida «la logica dell’uguaglianza».

La filosofia del diritto si inginocchia alla faziosità esegetica del giurista e i nuovi attori del positivismo giuridico, con i loro precetti e regolamenti, archiviano la domanda sul «prima» degli ordinamenti[36. Ci permettiamo di rinviare a F. Postorino, Zagrebelsky, verso un diritto senza fazioni, in «Il Manifesto», anno XLVI, n. 114, 2016, p. 11.]. La scienza dai mille volti contribuisce, così, a raffreddare il sentimento di giustizia.

La democrazia, soffocata dagli «ingegneri» delle istituzioni e ricattata dai sacerdoti del profitto, si rivela, pertanto, lettera morta e le sue urne, sempre più disabitate, non rappresentano la sede naturale della libertà interiore. Gli effetti della globalizzazione finanziaria si alleano in modo confuso, direbbe Ralf Dahrendorf, con il fenomeno della «glocalizzazione»: un «romanticismo regionalista»[37. A. Polito, Dahrendorf. Dopo la democrazia. Intervista a cura di Antonio Polito, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 27.] che intende replicare ai flussi migratori con pericolose forme di omogeneità culturale. La beatificazione della «volontà generale» continua a premiare il ladro Barabba e offende l’integrità di Gesù. Il suffragio universale non diviene l’approdo coerente della democraticità, quanto un meccanismo «innocente» che ignora i fini, la pazienza, l’ascolto, la domanda. Le demagogie al potere insultano lo spirito repubblicano formalmente presente e così la democrazia dei moderni, con tutte le sue imperfezioni, consegna il trono alla democrazia dei post-moderni. Non a caso si parla di «post-democrazia». Colin Crouch descrive in questi termini la triste stagione del demos contemporaneo:

L’idea di postdemocrazia ci aiuta a descrivere situazioni in cui una condizione di noia, frustrazione e disillusione fa seguito a una fase democratica; quando gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élite politiche hanno appreso a manipolare e guidare i bisogni della gente; quando gli elettori devono essere convinti ad andare a votare da campagne pubblicitarie gestite dall’alto. Non è una situazione di non-democrazia ma la descrizione di una fase in cui ci siamo ritrovati, per così dire, sulla parabola discendente della democrazia. Molti sintomi segnalano che questo sta accadendo nelle società contemporanee avanzate, dimostrando che ci stiamo dunque allontanando dall’ideale più elevato di democrazia per andare verso un modello postdemocratico[38. C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 25-26.].

Secondo Crouch non dovremmo abbassare l’alto valore democratico al vissuto e al «buon senso», ma tenere ben saldo il punto di riferimento e nel contempo provare a migliorare i nostri comportamenti. L’ideale, ad esempio, non può essere imprigionato nei sistemi rappresentativi della democrazia liberale, i quali si identificano con una forma storica contingente, non con «un concetto normativo stabilito una volta per tutte»[39. Ivi, p. 5.]. I marxisti Gilles Dauvé e Karl Nesic si spingono oltre e, nel loro volume Oltre la democrazia, condannano l’ipocrisia dei gesti istituzionali, le cerimonie e i riti della cultura borghese, proponendo di travalicare la cornice democratica al fine di approdare a un vero orizzonte di libertà. Il «contratto democratico» è divenuto, dal loro punto di vista, «una giustizia innegabilmente capitalista»[40. G. Dauvé, K. nesic, Oltre la democrazia, Napoli, Immanenza Ed., 2016, p. 74.].

La dignità dell’uomo è la lezione in fieri della modernità. La storia che si colloca al confine tra il Medioevo e l’epoca che «si spinge al di là del bene e del male»[41. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Cuneo, Rusconi, 2004, p. 11.] lancia un segnale indelebile in quanto rinnova, con afflato immanentistico, la domanda socratica «messa a morte» dai greci stessi e derisa dai contemporanei post-moderni. La domanda dell’uomo e sull’uomo. La domanda di Kant, delle prime azioni liberali e del conseguente fremito socialista. La domanda che Nietzsche evita di formulare sprofondando in un «azzurro oblio»[42. Cfr. K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, a cura di L. Rustichelli, Milano, Mursia, 1996, p. 118.]. Si tratta dell’interrogativo laico che non fugge dal nesso di reciprocità che lega l’«io» e il «tu» e qualifica «la gratuità dello spirito, luogo del riconoscimento dei diritti incondizionati dell’io di tutte le donne e di tutti gli uomini»[43. B. Romano, Dono del senso e commercio dell’utile. Diritti dell’io e leggi dei mercanti, Torino, Giappichelli, 2011, p. 150.].

Oggi, invece, con la scomparsa di Dio, viene meno il «tu». L’assenza del «tu» annuncia uno stadio angoscioso che divora il significato valoriale delle conquiste storiche maturate negli ultimi secoli. Senza il «tu», le lotte in favore dell’umanità alimentano la «menzogna» e il gioco impazzito delle «maschere». L’uguaglianza di tutti gli uomini (nessuno escluso), lungi dal costituire il senso della democraticità, si rivela, nell’epoca buia del nichilismo assoluto, una frase stanca da aggiungere ai «paragrafi» della fede rimproverati da Voltaire. Il processo inarrestabile della democrazia si traduce, così, in un contraddittorio movimento che oscura il brivido dell’empatia e si abbandona ai ritmi del numero, della quantificazione, del risaputo. La replica agli schiamazzi populisti non spetta più al fine in sé, colui che distrugge per definizione l’ombra del privilegio e sente il peso della responsabilità morale di fronte al chiunque, ma al nuovo uomo etico, quello che, parafrasando Carl Schmitt, decide nello stato d’eccezione.

Nietzsche, che si scaglia contro le virtù della pietà e dell’umiltà, interpretandole come una «glorificazione della debolezza»[44. M. Luther King, «I have a dream». L’Autobiografia del profeta dell’uguaglianza, a cura di C. Carson, Milano, Mondadori, 2010, p. 25.], è consapevole di chiudere culturalmente un millennio e aprirne un altro. La crescita vertiginosa della democrazia è, a suo parere, il sogno socialista di livellare l’universo della mediocrità. Le forme, l’ufficializzazione del vero contro il falso, il dialogo dipinto da Socrate e dalla sua «corruzione», l’insegnamento cristiano contro la forza muscolare, per Nietzsche contribuiscono al festival della «menzogna».

Il suo obiettivo consiste nel togliere di mezzo una volta per tutte «non solo i valori tradizionali, quindi la visione morale del mondo e lo stesso valore di verità, ma anche il luogo soprasensibile che tali valori occupavano»[45. F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 59-60.]. Il suo nichilismo estremo vuole la distruzione della «cosa in sé»; poiché la democrazia, nel suo tratto nevralgico come respiro di uguaglianza, è una forma che andrebbe riempita di un sincero contenuto, l’invenzione greca, per Nietzsche, è una «maschera» fra le tante che non dice nulla sul senso della vita. Il senso dell’uomo è il suo perenne superamento e costui deve guardare all’Übermensch. È finito il tempo dell’uomo socratico o cristiano, ovvero di quel «cavo teso tra la bestia e il superuomo»[46. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano, Adelphi, 2005, p. 8.].

Zarathustra non vuole seguaci, ama l’eccezione, la diversità colta nelle sue radici. Solo una nuova spiegazione che denunci la lunga tradizione platonico-cristiana può inverare la potenza della vita e coltivare con rispetto le sue sfumature.

Il superuomo di Nietzsche è diverso dall’uomo di Socrate: il primo ha la verità e la spende con infantile «innocenza» nelle regioni del nulla; il secondo la insegue nell’incontro infaticabile con il «tu». Il superuomo radicalizza la sua vocazione esistenzialistica perché vuole fuggire da ogni trappola metafisica, anche e soprattutto dalla presunta minaccia dell’altruità. Il «tu» può persuadere e ingentilire un’atmosfera che l’Übermensch, votato al post-umanesimo, intende governare a oltranza. L’uomo di Socrate rientra consapevolmente tra la bestia e la divinità. È una tensione che non può sopportare l’istinto dell’esserci né auspicare l’avvento di un’altra specie umana. Socrate non istituzionalizza la mediocrità, ma quel particolare elemento di intrinseca moderazione che tiene in vita il dialogo e, perciò, il senso democratico. Il dialogo accende il desiderio di parità. Socrate si tuffa nella profondità altrui, avvalorando l’impulso egalitario nella certezza di non sapere, e il «tu» lo salva da un’inguaribile solitudine. Nietzsche, per converso, soffre il disagio di chi non può essere capito e non rischia fino in fondo la relazione dialogica. Abbandona o è abbandonato dai suoi amici quali Erwin Rohde e il tanto ammirato Richard Wagner. In una lettera fa notare alla sorella Elisabeth che non incontrerà nessuno della sua stessa natura e teme che «la differenza di rango pregiudichi ogni possibilità di comunicazione»[47. K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., pp. 92-93.].

Egli, inoltre, condanna ogni morale «non già per togliere agli uomini le loro catene, ma per costringerli a salire, con un carico più pesante, ad un rango più elevato»[48. Ivi, p. 136.]. Tolta di mezzo l’immagine del «tu», permane un «io» elevato all’ennesima potenza che tradisce il viaggio in fieri del pensiero moderno e riattiva i monologhi unidirezionali. L’altro, nella direzione nichilistica, diviene un potenziale superuomo che compete con me in un circuito «eternamente uguale» dove il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, l’amore e l’odio sono superflui punti di vista, costruzioni arbitrarie prive di senso, prive di vita. La vita polemizza contro tutte le maschere e, dunque, contro la democrazia. Sia nel suo istituto sia nel suo principio, quest’ultima è un ostacolo al movimento fluido della volontà di potenza. Socrate, che vuole correggere l’esistenza[49. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 2007, p. 91.], è per Nietzsche un pericoloso nemico della vita.

Gli uomini tramontano e subentrano superuomini che si affrontano nell’arena delle solitudini. Anche se, come scrive de Ruggiero, «non è dato all’uomo di porsi al di sopra dell’umanità, senza correre il rischio di scendere al di sotto di essa» e così «il sovrumano diventava inumano»[50. G. de Ruggiero, Il ritorno alla ragione, Bari, Laterza, 1946, pp. 87-88.]. Tra le zone brute e il Dio dei valori si colloca la tensione laica dell’uomo. Se l’individuo ferisce Dio, rinforza parimenti l’apparato disumano che intende rimuovere.

L’autenticità ricercata da Nietzsche, che gioca al confine tra l’io superiore e l’«io minimo» ripudiato da Christopher Lasch, richiama a modello «l’esperienza remota e irrecuperabile della tragedia greca»[51. G. Colli, Scritti su Nietzsche, Milano, Adelphi, 2008, p. 81.], anche se non andrebbe confusa con il racconto sofista introdotto da quel Gorgia «esperto di molte discussioni»[52. Platone, Gorgia, in Id., Opere Complete, Bari, Laterza, 1975, p. 164.]. L’ambiguità nietzscheana del vero, infatti, «non ha nulla a che vedere con la slealtà che nasconde o intenzionalmente mantiene un’ambiguità, avvertita come tale»[53. K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., p. 39.].

In ogni modo, la sepoltura del fine in sé, nel suo riscontro sovrasensibile, stringe in un unico rapporto gregge e superuomo e nega la dimensione individuale ambientata nel tessuto dialogico. La morte di Dio, profetizzata da Nietzsche e confermata dall’«innocente» virtualità dell’uomo contemporaneo, spegne l’ideale democratico, ma non ancora le sue strutture, e apre le porte al vangelo di Zarathustra.

(fasc. 8, 25 giugno 2016)