Il divertimento, nell’intervistare Antoine Volodine, è che ti fa entrare nel suo sistema, nel suo gioco serio, letterario e meta-letterario, nel suo disegno messianico, nel suo strambo modo di concepire i suoi molti pseudonimi, nella moltitudine di voci (cioè i suoi personaggi, che definisce «emarginati, pazzi, morti che parlano in una solitudine totale») che formano i suoi libri, libri che ad un certo punto si sono arricchiti anche di altri seguaci, che non sai mai se sono suoi doppi o persone reali (lui stesso cita altri «scrittori», come «Lutz Bassmann e Manuela Draeger», che però sono suoi noti pseudonimi): tutti uniti a produrre quarantanove trame di romanzi («non di più, Terminus radieux che verrà edito da 66thand2nd, è il quarantunesimo»), sempre frazionati nella narrazione, polifonici, dialogici. «Storicamente, voglio dire nella storia del post-esotismo – sostiene Volodine – c’è sempre stato il desiderio di far intervenire in ogni volume molte voci e molte storie che si univano per dare vita ad una grande narrazione. Molte voci, ma in realtà non molti punti di vista, né propriamente diverse visioni del mondo: le voci non si contraddicono, la narrazione persegue una coerenza che non è compromessa dalla frammentazione del racconto. Come all’interno di un pezzo di musica barocca, è possibile sentire il suono di un basso continuo che garantisce il ritmo e la coesione di tutti gli sviluppi melodici».
Interagire con lui è un po’ come quando si gioca con un bambino: se ci si vuole inserire nel suo mondo, sappiamo che bisogna accettare le sue fantasie, le sue regole, il suo modus operandi, fingendo che sia tutto incredibilmente vero: indossiamo il cappello e la cintura da cowboy, dunque, con lui, il che diverte in ogni caso, solo che, appena si risale in macchina, bisogna ricordarsi di togliersi tutto.
Sul concetto di post-esotismo si tornerà poi; il fatto è che Volodine dà per scontato che abbia veramente fondato una nuova corrente letteraria, che sia ormai riconosciuta a livello mondiale e che rappresenti per tutti una svolta nella storia della letteratura (poi, che Wikipedia gli abbia dedicato una pagina importa relativamente): all’interno del post-esotismo, egli sostiene che ci siano alcuni scrittori che lo imitano, ed è come se certificasse l’avvenuta costituzione di un gruppo, di un’accolita di autori, per cui hai l’impressione, almeno all’inizio, che sia un po’ un mitomane; è come se immaginassimo Verga che ci dice, a un certo punto: «Ecco: questi che vedi siamo noi, i veristi».
Il rapporto tra finzione e realtà che assumiamo come ovvio ogni volta che ci alziamo la mattina dal letto, con lui sembra un po’ saltare: c’è un elemento spiritico in questo volersi accreditare come un inventore di un genere a cui assegna anche una morte, una fine appunto col numero di quarantanove oggetti; ne vuole essere in fondo il creatore e insieme colui che spegne l’interruttore. Per costruire che cosa? Forse un universo parallelo dove s’inscrive il dolore del mondo, e in cui i personaggi che raccontano e si raccontano vivono in una condizione di necessità, di prigionia, dichiarandosi a volte scrittori, pur non scrivendo libri (e, volendo proseguire nel gioco del valore esoterico dei numeri, il 49 potrebbe guardare al corrispettivo comandamento jodorewskiano, “sviluppa la tua immaginazione”; oppure potrebbe contenere un riferimento trascendentale, inteso come quadrato perfetto del 7, che per taluni è il simbolo del Paradiso stesso; ma, ovviamente, si può spaziare oltre con la numerologia e la simbologia, anche in una chiave di spassoso intrattenimento).
È forse in questo sogno iniziatico che risulta poco credibile Volodine, il quale insiste ogni volta a passare dall’io al noi all’interno della stessa risposta, in successione, poi, quasi pensandosi in quanto moltitudine: il concetto a cui rimanda è quello degli eteronimi, ma, non cambiando mai lo stile dei romanzi, in effetti pare sempre che non siano tanti che scrivono ma uno solo. L’idea stessa delle quarantanove trame, a cui altri starebbero contribuendo, come sostiene lui, più o meno inconsapevolmente, senza un disegno se non prestabilito da elementi occulti, ci dice che Volodine, disincantato e postmoderno, sta costruendo sui suoi libri un’ulteriore costruzione, una forma di meta-letteratura o di pubblicistica meta-letteraria sulla letteratura. E una delle riserve principali che impedisce di seguirlo in questo suo disegno messianico riguarda proprio lo stile, perché, abituati all’eteronimia e alla moltitudine di Pessoa, è chiaro che facciamo fatica a immaginare qui una moltitudine: ciò che fa da sottofondo, l’impostazione generale dei romanzi, è infatti sempre la stessa. Con Pessoa, invece, non solo le biografie degli «altri» autori sono una differente dall’altra, ma con lui veramente diventiamo schizofrenici perché abbiamo sempre la certezza, sensibile e carnale, di vedere squadernate davanti a noi menti diverse, poeti diversi, stili diversi, e in tal senso fa veramente impressione Pessoa, che a ben ragione poteva usare questo “noi”.
Come sia, i libri di Volodine raffigurano perfettamente una certa atmosfera a cui i suoi lettori sono assai affezionati, e su questo ci sono pochi dubbi, su questo si basa la sua “forza”: «Per sentire, per comprendere questo basso continuo – prosegue Volodine ˗ bisogna dire qualche parola sul cuore del post-esotismo, sul luogo immaginario da dove si propagano le voci, sull’origine delle voci e delle storie raccontate nei miei libri, nei nostri libri (quelli di Antoine Volodine, di Manuela Draeger, di Lutz Bassmann e di altri). Bisogna immaginare una letteratura collettiva, prodotta da uomini e donne che sono incarcerati, prodotta da ex guerriglieri politici che non portano più armi, che non si sono pentiti e che, da cellula a cellula, si scambiano racconti di sogni, poesie, denunce, allucinazioni, storie e frammenti di storie». Questo coro di voci che racconta nel deserto dell’esistenza le proprie desolazioni è figlio, com’è stato giustamente notato, delle tragedie del XX secolo, delle guerre e dei genocidi del Secolo breve e soprattutto condivide uno stesso impasto ideologico postmarxista, una stessa cultura politica che, però, ha vissuto solo di riflesso le grandi istanze dei movimenti di massa e che del comunismo ha raccolto solamente i lacerti lasciati tra le rovine: «Le voci prendono vita dentro i muri delle loro prigioni, sotto forma di libri, di romanzi che portano spesso l’impronta delle condizioni in cui sono stati creati e foggiati: ritroveremo nei lavori post-esotici sia la diversità delle voci sia una certa brevità dei racconti, ed un impasto ideologico comune – questa ideologia è diventata poesia, ma resta quella di un rifiuto del mondo, di un disgusto per la vita reale, e certamente, l’odio per il mondo capitalista e una profonda tristezza di fronte alle sconfitte della rivoluzione e dell’umanesimo da un secolo a questa parte. Eccolo qui, il basso continuo».
Il sogno, forse un po’ ingenuo e un po’ provinciale, è quello di fare una letteratura che abbia una risonanza mitica e misterica; allo stesso tempo, mi sembra si diverta – anche con i giornalisti, anche con se stesso o con il mondo intero delle Lettere – a giocare con questa visione, tanto che ad un certo punto la sensazione è che voglia immettere anche questa intervista all’interno dei suoi libri. In realtà, non esce fuori mai dall’impersonare un suo stesso personaggio: non fa la parte dello scrittore, ma al contrario, sorprendentemente, si bea di incarnare quella dei protagonisti della sua letteratura post-esotica, che sarebbe, dunque, la messa in scena di una specie di mondo parallelo, una sorta di religione a cui conta i giorni e predice la fine, dove tutti sono in profetica attesa di un’ulteriore Armageddon. Letta in questi termini, l’operazione del post-esotismo somiglia a quella di alcuni pittori minori del passato che s’inventavano delle nuove correnti artistiche: «Il mio progetto, il nostro progetto, è quello di costruire un’opera a parte, un oggetto di arte in prosa, collettivo, polifonico, che è chiuso su se stesso (con quarantanove titoli, non di più, e Terminus radieux è il quarantunesimo). Mi piace l’idea dell’oggetto d’arte che sostituisce quella della pura costruzione letteraria, perché questo aggiunge una dimensione fisica, architettonica e musicale, e ovviamente pittorica, dal momento che il principio fondamentale dei nostri libri è di trasmettere immagini più che testo». La sfiducia sul concetto di autorialità (che sia extradiegetico l’autore o intradiegetico) è totale, per cui la figura per così dire obbligata dell’«autore», all’interno di questo contesto, tende a cedere il passo, o a cancellarsi, di fronte a un’«affermazione collettiva che è all’inizio rivoluzionaria, violenta e carceraria, contrassegnata dalle false identità, dai “nomi di guerra” e dai comportamenti della clandestinità. E non mi sento poi personalmente – aggiunge Volodine – a mio agio nei panni dell’autore onnisciente, che vuole avere delle opinioni su tutti i temi dell’attualità e adora microfoni e telecamere. Preferisco stare più vicino ai miei personaggi, ai nostri personaggi anonimi e spaventati dal mondo che li circonda».
Apprendiamo da un dettagliato post di Andrea Inglese su «Nazione indiana»1, a cui rimandiamo per chi volesse approfondire il suo iter biografico o per un confronto tra analisi critiche, che questo scrittore francese è nato nel 1950 a Chalon-sur-Saône, nella regione della Borgogna, e che è cresciuto a Lione; anche il dittico “Antoine Volodine” è in realtà uno pseudonimo, scelto per amore della lingua russa, da lui insegnata e tradotta per lungo tempo. Dopo aver scritto alcuni romanzi senza trovare un editore, nel 1985 Denoël pubblica Biographie comparée de Jorian Murgrave2 in una collana di fantascienza: e, proprio per non essere etichettato all’interno di un genere, dà vita nel 1991 al termine “post-esotismo”, pensando in questo modo di colmare un vuoto nel panorama della prassi letteraria, attraverso l’invenzione di un mondo di finzione costituito, appunto, da una pluralità di voci e di testi che originano da una comunità di scrittori incarcerati. Volodine ha poi scritto un libro, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze3, per spiegare i fondamenti e le ragioni della sua poetica, i cui punti cardine sono per l’appunto l’inverarsi di un universo senza speranza, ormai in rovina e straniato, parlato, detto, da una rete di voci, costituita da monologhi, interrogatori, memorie, che creano un’opera collettiva, militante, perché sono imprigionate dietro le sbarre e condividono sogni, storie, esperienze, speranze. Questa teoria letteraria ha le stigmate della finzione romanzesca, come ha sottolineato giustamente Antoine Mate, e la definizione «da nessuna parte, verso il nulla», per quanto nebulosa, ne delimita bene l’orizzonte, un orizzonte in cui dovrebbero convergere filosofie e impostazioni assai diverse fra loro, come «sciamanesimo, bolscevismo, realismo magico, e oniricismo». Al netto di ogni considerazione su questo pot-pourri, la battaglia politica la si attua, secondo Volodine, mediante uno sdegnoso rifiuto del linguaggio e dei meccanismi del potere, immaginando costantemente oniriche evasioni, perché ogni rivoluzione è ormai inutile e preclusa. Lo status di questo suo collettivismo antagonista è quello di sopravvissuti, di oppositori in gabbie (carcerarie o quelle più ampie di città alla deriva), che sognano una società più giusta, più onesta, ma sono ripagati con l’insussistenza, il disfacimento, la dimenticanza.
Se all’origine, dunque, ci sono degli autori imprigionati che rivelano storie e sogni, per cui la narrazione ha sempre un carattere orale e collettivo, alcuni personaggi-scrittori (ma non sono tutti scrittori) all’interno di ciascun romanzo compongono ulteriori romanzi, secondo una struttura meta-narrativa, dove appunto all’atto dello scrivere è demandata una funzione salvifica, memoriale, di fuga dal reale così come viene rappresentato dal potere e insieme, però, foriera di un’istanza politica, in quanto queste prose possono essere lette come messaggi affidati ad altri compagni di lotta, ad altri militanti, partigiani della dignità, dell’uguaglianza, delle libertà perdute e da riconquistare: «Dietro i personaggi ci sono dei narratori, dietro i narratori ci sono i “sopranarratori” incarcerati, che intervengono talvolta in modo molto netto, mentre altre volte si intravedono appena, ma sono lì. Si ha in questo modo naturalmente una struttura ad incastro, non del tutto formalista, completamente normale e leggibile. Le voci si sovrappongono e non ostacolano la lettura, né sono in contrasto con una lettura molto semplice. Inoltre, la figura dello scrittore, nei romanzi post-esotici, non ha nulla a che fare con la figura dello scrittore come viene rappresentata oggi dai media. Tra i nostri scrittori post-esotici ci sono degli emarginati, dei pazzi, degli agonizzanti, dei morti, dei detenuti nei campi di lavoro; parlano in una solitudine totale, senza un pubblico e spesso senza alcun collegamento con la letteratura: nel romanzo Scrittori4, alcuni creano il proprio mondo poetico, schizofrenico, ma non scrivono libri».
Proprio a causa dell’ambientazione post-nucleare, post-distruzione dell’umanità, dove per antonomasia tutto può accadere ed ogni assurdità è possibile, il meccanismo narrativo dei romanzi di Volodine appare reiterativo, automatico, e dopo un po’, come tutte le ambientazioni di questa fattura, prevedibile: lo scrittore ha l’agio di creare situazioni allucinate, o piccole e grandi stranezze, che funzionano anche come metafora della nostra stessa esistenza. Come al solito, la fantascienza è una proiezione dell’oggi.
Il libro che possiamo considerare fondativo di questo sistema, Angeli minori5, è costituito da quarantanove brevi prose, che l’autore chiama narrat, ed è ambientato sul limitare di uno scenario post-apocalittico: come spiega in una nota introduttiva Volodine, i narrat sono «testi post-esotici al cento per cento», «istantanee romanzesche che fissano una situazione, delle emozioni, un conflitto vibrante fra memoria e realtà, fra immaginario e ricordo. È una sequenza poetica a partire dalla quale ogni fantasticheria è possibile, per gli interpreti dell’azione come per i lettori. (…) Chiamo qui narrat quarantanove immagini su cui si fermano, nella loro erranza, i miei mendicanti e i miei animali preferiti, nonché qualche vecchia immortale. Almeno una di loro è stata mia nonna». Ci sono, è ovvio, il vantaggio e il piacere della prosa breve, del racconto, dell’aneddoto, secondo uno dei tanti fili che riconducono a Kafka. Ogni micro-racconto è accattivante e avvincente perché costruito attorno a un’agnizione finale; spesso si svelano nelle ultime due righe: c’è, ad esempio, la grassa accudita dai figli che sta perennemente affacciata all’ultimo piano del suo appartamento, sempre più obesa, che con molta tranquillità alla fine rivela di essere messa all’ingrasso perché la devono mangiare, mentre in nessuna delle descrizioni precedenti si lasciava intendere qualcosa di simile; o ci sono i due uomini che si incontrano in uno scenario quasi desertico e si fanno in ultimo dei regali, come fossero rappresentanti di due tribù sconosciute.
Dal punto di vista dell’efficacia narrativa, Volodine è molto bravo a sorprendere il lettore attraverso un’organizzata, sistematica concretizzazione di strategie narrative di spostamento, isolamento, de-realizzazione dei personaggi: ci troviamo di fronte, allora, a prose di un paio di pagine, ciascuna detta come in un sogno o letta come in un proclama da tanti personaggi diversi (narratori-sciamani, sono stati definiti), che seguono le proprie storie, alcune legate altre staccate dalle altre, dove ogni pezzo, ogni frammento serve a darci un’idea di cosa sia diventato il nostro pianeta, dove il confine tra sogno e realtà viene spazzato via. Tutta la vicenda inizia dopo una catastrofe (si fa riferimento, ad esempio, a dei «vapori radioattivi» che impestano l’aria), e i sopravvissuti – viaggiatori, sciamani, musicisti, vagabondi, condannati – sono tornati alla magia, al baratto, talvolta al cannibalismo. Il protagonista principale, se così si può dire, è una sorta di automa vivente, di golem di pezza creato dalle amorevoli mani di alcune nonne con lo scopo di salvare la società e di farla finita col capitalismo, che però viene incatenato e accusato di tradimento. Will ha voluto reintrodurre il capitalismo, che pure ha ridotto in brandelli il mondo, e per questo viene condannato a morte: come un Prometeo all’incontrario, legato e incatenato racconta, sotto forma di narrat, la sua storia e il perché ha dato all’umanità solo avidità di denaro e corruzione, mentre avrebbe dovuto ripristinare una sorta di egualitarismo: ma il mondo continuerà ad esistere in questa realtà di privazione, di perdita e mancanza ancora per centinaia di anni.
Tutti i personaggi di Volodine sembrano vivere come schiacciati dalla catastrofe, ormai sconfitti, e nonostante ciò non smettono di pianificare il loro futuro o di avere speranza, di riflettere o di raccontare a qualcun altro che cosa è accaduto loro nel passato. La meditazione sulla sconfitta non impedisce di mettere in scena personaggi che guardano avanti, sostiene Volodine, come se l’andare avanti costituisse per lui la condizione necessaria e sufficiente affinché possa nascere una storia interessante. In Angeli minori incontriamo, ad esempio, delle vecchie molto indebolite fisicamente e mentalmente, o solitari abitanti di rovine o ex detenuti dei campi di lavoro, o esseri folli o malati, che non possono uscire dal loro incubo. In Scrittori, tutti coloro che entrano in scena sono invece spesso già morti: «I miei personaggi, i nostri personaggi, tuttavia, non sono eroi ed eroine che appartengono a una tradizione fatta di ottimismo. Per la maggior parte – spiega – amano definirsi come “sub-umani” (letteralmente “Untermenschen”, etichetta con la quale i nazisti designavano ebrei, zingari e slavi), e spesso essi stessi non sanno veramente se sono ancora vivi. Su questa base, si costruiscono dei personaggi che sono caratterizzati dall’ottica della sopravvivenza e da un particolare umorismo messo in pratica da tutti gli autori post-esotici: l’umorismo del disastro. Così, anche nelle situazioni di oppressione, disfatta o agonia, i nostri personaggi guardano l’orribile mondo che li circonda con una certa tenerezza ed un certo distacco. Non credono all’assenza del dolore o al loro futuro, ma “giocano a fare finta di credere”. Sono completamente isolati e sanno che nessuno li ascolta, ma si fingono degli oratori che tengono un discorso davanti ad un largo pubblico. Ciò che dicono può quindi essere considerato come una lezione sul passato, sul destino, sull’avvenire dell’umanità. L’umorismo può scaturire in differenti maniere, ma quasi sempre si comincia precisando come la situazione in sé sia umoristica. Un oratore senza pubblico parla del futuro dell’umanità, mentre, è il caso di Angeli minori, l’umanità si è già quasi totalmente estinta». Oscillanti tra realtà e distopica iperrealtà, questi narrat ci appaiono fortemente legati tra loro: un personaggio evocato in uno diventa protagonista o io narrante nel successivo, e questo espediente fa sì che possiamo leggerli separatamente e allo stesso tempo guardare alla fine il puzzle di voci e storie che si ricompone davanti ai nostri occhi.
Costruire i racconti con la veridicità dei sogni è un altro meccanismo tipicamente kafkiano di cui si avvale Volodine: l’escamotage letterario sta nel descrivere cose e avvenimenti con la precisione della realtà quando, invece, sono irreali; dunque, non si deve usare il linguaggio fantastico né è necessario affermare che è successo un evento straordinario, ma appunto è sufficiente scrivere – stiamo facendo un esempio – di aver visto, uscendo la mattina, un iguana darmi il buongiorno e chiedermi come va. Un Kafka per lettori che si vogliono divertire, senza allegoria, senza quell’irrequietezza dell’allegoria di cui abbiamo perso le chiavi, insomma che è tipica del fare narrativo di Kafka; al contrario, qui le chiavi ci sono tutte, per cui non sopravviene l’angoscia, e ciò che intravediamo è in realtà fortemente rassicurante. Le storie di Volodine sono un gioco della fantasia, ed è questo che attrae il lettore, mentre in Kafka le allegorie sono sempre un gioco dell’anima, un gioco serissimo.
Lo scopo più probabile di questo sistema, inconscio o meno, è di far incontrare ex lettori di fumetti fantascientifici o di manga giapponesi con la letteratura che viene reputata alta; da un lato vengono riprodotti degli stilemi caratteristici di una certa filmografia o l’immaginario di certe strisce illustrate postatomiche e dall’altro si recuperano le tecniche del racconto fantastico. Tutto questo riporta il lettore indietro nel tempo, a quand’era un lettore adolescente, secondo un diagramma auto-produttivo, secondo una visione consolatoria che legittimamente, facilmente, crea entusiasmi. La realtà postatomica raffigurata appare volutamente manierata, e da questo punto di vista Volodine si allinea alla tradizione del post-atomico, lo affronta voglio dire allo stesso modo in cui altri hanno fatto prima di lui, ad esempio presentando un’umanità ridotta in brandelli, allucinata, costituita da sopravvissuti, abitanti di un pianeta a-tecnologico, che è diventato una distesa desertica, o che si sta letteralmente spegnendo, dove le città, ridotte a discariche a cielo aperto, sono state via via abbandonate: questa fine dell’umanità è in Angeli minori una fine in bellezza, tuttavia, non in miseria.
Segue Volodine il canone delle narrazioni brevi, dell’apologo, del paradosso, per cui appunto ciascuna prosa deve sempre sortire un effetto sorpresa, dove la condizione di inferiorità che vivono i protagonisti li rende anche immuni per un certo verso, immuni per disperazione, fa sì che possano usare l’arma dell’ironia e dell’irriverenza nei confronti dello status quo, consente loro di essere un po’ beffardi con coloro che li schiacciano. In più, com’è d’altronde consuetudine di questo genere, per rendere verosimile il futuro Volodine lo fa diventare passato, cioè tradizione: non spiega mai cosa è accaduto alla Terra, dà per scontato che il lettore accetti la realtà evocata nel romanzo come dato di fatto; e, rendendo lo scenario catastrofico come qualcosa di accaduto realmente, ce lo fa sentire come una cosa necessaria, il che è un cliché che permette una grande narratività. Se immaginiamo una storia banale e la immettiamo in uno scenario apocalittico, a livello narrativo è come avere un romanzo di cappa e spada; ha subito un elemento di fascinazione narrativa, e l’elemento postatomico gli garantisce una scenografia sempre efficace, un po’ come Walter Scott con le sue scintigrafie dell’epoca medioevale, che riescono sempre, sono subito accattivanti – se si è bravi scrittori, certo. Per il lettore è allora piacevole rintracciare gli elementi consolidati di Kafka, rintracciare gli scenari dello Stato delle cose di Wim Wenders, l’atmosfera di caotica decadenza e sconfitta di Blade Runner, o anche una certa umanità di Celine, però ancora una volta ridotta a cliché hollywoodiano, rintracciare anche una serie di produzioni splatter o di genere popolare o di una tradizione detta impropriamente di “serie b”, tanto che possiamo immaginare questi brevi brani come se fossero davvero accompagnati da illustrazioni a fumetto, ché d’altronde ben si presterebbero ad una veste tipografica illustrata e fumettistica. L’autore stesso ha chiamato questo suo tipo di produzione «letteratura da cassonetto», una letteratura da bassifondi con una precisa declinazione politica anarchico-antagonista ed una certa nostalgia, da orfano, dell’Oulipo; il luogo dell’emarginazione, della spazzatura dell’umanità, da cui proviene questo coro di voci, questo gruppo insurrezionale, gli consente di dare vita ad una posizione minoritaria e insieme di fantasticare una soluzione alternativa. L’irrecuperabile condizione post-apocalittica dell’umanità diviene una grande metafora della perdita di noi stessi, del nostro stesso smarrimento, sembra dirci Volodine, forse anche un emblema – o meglio un’analisi, un’indagine attraverso il pop – del fatto che ci siamo trasformati in mostri, che abbiamo qualcosa di ferino nei comportamenti, negli apparati tecnologici, nei nostri rapporti con amici o famigliari o quando comunichiamo con sconosciuti, e siamo diventati di nuovo degli animali stregati. Nel gran bazar della globalizzazione, anche la letteratura ha trovato una sua strada epistemologica, nel senso che, essendo globalizzati il cinema, il teatro, Youtube e i fumetti, si scrivono romanzi andando a comprare tanti diversi ingredienti che a quei mondi sono afferenti o che da quei contesti provengono. Non c’è nessun giudizio morale in questa constatazione: l’antologia o i classici a cui attingere a piene mani rappresentano solo una delle tante opzioni possibili: è come se lo scrittore ogni volta si recasse in un grande supermercato dove ci sono le superofferte e i Kinder e i surgelati e il cibo bio ecc. La letteratura postmoderna si costruisce anche così, senza fare troppo gli schizzinosi, e quindi pure qui, come detto, abbiamo un po’ di Kafka, un po’ di Celine, un po’ di Wim Wenders del primo periodo, i manga giapponesi e ovviamente la tradizione delle metamorfosi e dell’assurdo onirico surrealista. Per cucinare la propria torta, lo scrittore si avvale di tutti gli ingredienti comprati al supermercato, non butta via niente, impiega a piene mani i nostri cliché, e anche questo desiderio sa molto di avanguardia, che già voleva scrivere grande poesia usando i fumetti, facendo convergere o deragliare le forme, unendo sulla stessa tavola il vino costosissimo e la bevanda gasata: in Angeli minori c’è quasi un’applicazione empirica di questo principio, il mondo descritto è un mondo fatto di rifiuti, di avanzi, di relitti, dove tutto si tiene insieme, dalla busta di nylon al frammento del poema cinese. Dietro l’invenzione del post-esotico c’è insita già la necessità di creare una nuova zona franca dove poter immettere tutto questo materiale da supermercato, così eterogeneo.
Angeli minori è uscito nel 1999 e nel sistema «post-esotico anarco-fantastico» ciò che è cambiato, afferma Volodine, è da un lato la risposta del pubblico, dall’altro la realizzazione, la costituzione di un presunta comunità: «Da allora, la cosa più notevole è che le voci di autori immaginari, all’origine delle narrazioni post-esotiche, abbiano preso corpo veramente. Accanto a Volodine altri autori hanno portato avanti il post-esotismo e non sono solamente degli esseri fittizi. Lutz Bassmann (di cui il pubblico italiano potrà presto leggere Les aigles puent), Manuela Draeger (è stato già pubblicato in italiano Undici sogni neri) hanno concretizzato la loro esistenza e hanno in Francia un loro editore (che non è quello di Volodine), il loro universo letterario, le loro ossessioni, la loro lingua. Se prendiamo questi due autori, hanno pubblicato, in due, una ventina di titoli». C’è in Volodine un piacere molto postmoderno, che è quello di fare alta letteratura dalle zone di confine, di toccare il sublime, di andarlo a cercare in luoghi marginali, periferici della letteratura, di porsi fuori dal tempio, così come lo sono i suoi personaggi. Al tempo stesso, la sua schizofrenia autoriale è irrefrenabile e ogni sforzo è teso per sostenerla ad oltranza: «Quello che era un progetto letterario è diventato una realtà – continua. Esiste una comunità di scrittori, esiste concretamente una letteratura collettiva; stiamo costruendo un edificio romanzesco a più voci, insieme aperto sul mondo e chiuso in se stesso; facciamo esistere in francese e in traduzione “una letteratura straniera scritta in francese” (questa formula è una delle migliori definizioni del post-esotismo)».
Bravo e attento portavoce dei propri pseudonimi, Volodine è anche il loro primo grande fan, un sorta di appassionato lettore di se stesso: come il costruttore che osserva i propri operai soddisfatto perché sta per concludersi il progetto iniziato molto tempo prima e vede avvicinarsi il momento del profitto, così è Volodine demiurgo dei propri avatar: «Ciò che è cambiato è che sempre più lettori e lettrici leggono i nostri libri. Sono passati quindici anni, ma soprattutto sono sorti più di venti libri. Ciò che è anche cambiato è che vediamo avvicinarsi il momento in cui verrà finito l’edificio post-esotico, che sarà costituito da 49 titoli. Quando Angeli minori è apparso in Francia, eravamo ancora molto lontani». Per tutto questo, dunque, ha ideato il nome di letteratura post-esotica, che, forse in un modo un po’ ingenuo e provinciale, o forse solo spinto dall’allegra presa in giro dei suoi interlocutori, immagina possa essere un movimento, una letteratura in grado di possedere una risonanza mitica. Bisogna trovare lo scarto giusto, però, per capire questa dimensione anche perché le risposte di Volodine sono piene di spie linguistiche: a lui piace immaginare che quelli che sono degli affezionati – gli pseudonimi e anche i suoi lettori – siano anche degli iniziati, un po’ come accade agli appassionati di Guerre stellari o di Tolkien che poi entrano in una mitologia e si ritrovano da qualche parte, ad un raduno, ad un festival, tutti vestiti come i protagonisti delle saghe. Il suo desiderio mi sembra sia quello di dare vita anche lui ad una mitologia letteraria in cui i personaggi, le situazioni, i luoghi formino una sorta di complicità tra seguaci, in cui gli stessi fan entrino nel suo labirinto, in questo suo mondo parallelo, che lo percorrano in compagnia di queste voci, di questi suoni di prigionieri, secondo un input di tipo sacerdotale o quasi para-religioso. Stiamo al gioco, appunto, in linea di principio, ma, appena risaliamo, usciamo dalla stanza e ci togliamo tutto, anche se ci siamo divertiti.
- A. Inglese, Da “Degli angeli minori” (2), on line, disponibile su: www.nazioneindiana.com/2006/11/16/da-%E2%80%9Cdegli-angeli-minori%E2%80%9D-2/. ↵
- A. Volodine, Biographie comparée de Jorian Murgrave, Paris, Denoël, 1985 («Présence du Futur»). ↵
- A. Volodine, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze, Paris, Gallimard, 1998. ↵
- A. Volodine, Scrittori, trad. di D. Contadini e F. di Lella, Firenze, Edizioni Clichy, 2013. ↵
- A. Volodine, Angeli minori, trad. di A. Crovetto, Roma, L’Orma editore, 2016 ↵
(fasc. 8, 25 giugno 2016)