La canzone italiana all’estero: ripensare l’identità nazionale

Author di Paolo Prato

Dopo decenni di letargo, durante i quali le canzoni italiane hanno sonnecchiato entro i confini nazionali senza farsi notare più di tanto sui mercati internazionali, da qualche tempo sono palpabili i segnali di una controtendenza. Ripercorrendo a ritroso la cronaca, il più recente di questi segnali proviene dal Festival di Sanremo 2024, che ha sfornato ben sette delle canzoni entrate nei Top Ten della Global Debut Chart di Spotify, la classifica dei brani più ascoltati al mondo (Stati Uniti esclusi) nelle prime 72 ore dall’uscita. Non si tratta, peraltro, di una novità perché la piattaforma online di riferimento per gli ascolti globali ha già fatto registrare numeri ragguardevoli anche nelle due/tre passate edizioni del Festival, sulla scia del successo che alcuni artisti della nuova generazione hanno ottenuto all’Eurovision Song Contest, manifestazione assai seguita anche Oltreoceano. Proprio da quella competizione – edizione 2021 ‒ hanno preso il volo i Maneskin verso una carriera internazionale che li ha portati a occupare posizioni di punta nelle classifiche americane (un fatto inedito, o quasi, per un artista italiano), oltre a fare della band romana una presenza costante in show televisivi ed eventi come una loro gig improvvisata a Times Square che ha creato scalpore (e ingorghi) nel centro di Manhattan. E sempre nel cuore del Theatre District più famoso d’America campeggiava, nel giugno del 2023, una gigantografia di Raffaella Carrà che Spotify aveva scelto come Ambassador per promuovere l’uguaglianza nell’industria musicale. Pochi mesi più tardi, al Teatro Capitol di Madrid, andava in scena la prima mondiale di Bailo bailo, il musical sulla vita e la carriera dell’icona italiana, a sua volta adattato dal film Explota explota risalente al 2020. Sono solo alcuni esempi di come la nostra canzone stia recuperando una visibilità che le è stata riconosciuta più volte nella sua storia.

Allargando lo sguardo, il repertorio italiano risulta essere il quarto al mondo per diffusione dopo quello angloamericano, francese e brasiliano. In questa graduatoria svetta O’ sole mio che con 471 versioni si piazza alla posizione n. 204 in una classifica dominata dalle canzoni natalizie[1]. La canzone di Capurro e Di Capua precede E lucean le stelle, che negli anni Novanta conobbe un’improvvisa notorietà grazie a Placido Domingo, Andrea Bocelli e altri esponenti del bel canto ma non solo (es. Michael Bolton)[2]. A seguire, Ti guarderò nel cuore (More), Nel blu dipinto di blu, Odio l’estate, Io che non vivo senza te, Torna a Surriento, Quando quando quando, Soleado e Arrivederci Roma. Per numero di copie vendute il primato spetta a Nel blu dipinto di blu, che figura al 5° posto fra i singoli di sempre nel mondo, seguito da Con te partirò al 23°[3].

Scopo di questo lavoro è ripercorrere le fortune della canzone italiana all’estero dall’Ottocento a oggi e riflettere su quali repertori, quali tipologie di artisti e quali generi hanno varcato i confini nazionali arricchendo il canzoniere internazionale fino a risultare parte di una cultura condivisa non solo nel mondo occidentale. Perché quelli e non altri è la domanda cui cercherò di dare risposta, incrociando questioni che hanno a che fare con l’identità nazionale, i flussi mercantili, la circolazione dei gusti e quel soft power che addolcisce i rapporti di forza sottintesi alla geopolitica mondiale.

Dall’opera alla canzone napoletana

Generi strumentali a parte (il Rinascimento fiorentino, il Barocco veneziano, la scuola napoletana del Settecento), per secoli la musica italiana in grado di affermarsi all’estero e influenzare quella di altre nazioni fu il melodramma, a cui il Bel Paese ha dato un contributo fondamentale riconosciuto da critica e pubblico, non ultima la recente (novembre 2023) inclusione del “canto operistico italiano” (opera singing) nel Patrimonio Immateriale dell’Umanità (UNESCO). Se l’inclinazione musicale degli italiani era già stata oggetto di numerosi reportages durante l’epoca del Grand Tour, questa caratteristica generò uno stereotipo esteso al Nuovo Continente, assumendo una dimensione antropologica[4]. «Per la maggioranza degli americani la musica era l’arte più di tutte associata agli italiani», hanno scritto Jerre Mangione e Ben Morreale ricordando che «le prime esecuzioni pubbliche che molti avevano sentito erano quelle di musicisti italiani ambulanti, chitarristi, mandolinisti e specialmente suonatori di organetti meccanici che si spostavano di città in città»[5]. Sfruttando il mito dell’opera italiana nel mondo, migliaia di emigranti cercavano di sbarcare il lunario facendosi passare per musicisti, quando nella maggior parte dei casi altro non erano che modesti strimpellatori. Ai primi del Novecento una media di 400 mila connazionali all’anno giungeva nel nuovo continente e di loro l’uno per cento, circa 4 mila, erano musicisti[6]. I suonatori ambulanti erano in maggioranza italiani e la loro presenza così invadente da indurre non solo azioni repressive, ma emulazione: Irving Berlin, giovanissimo, scrisse diverse canzoni sugli italiani e sul loro legame con la musica, sapendo di cogliere nel segno[7]. Erede del bel canto, fu per prima la canzone napoletana a costruirsi una reputazione internazionale, potendo sfruttare la popolarità della romanza operistica di cui offriva una versione abbreviata, adatta al consumo domestico e alla pratica amatoriale. John Rosselli ha scritto che la canzone napoletana è ciò che mezzo mondo ritiene essere la musica italiana[8]. Questa sovrapposizione non è una distorsione della realtà, ma frutto di contingenze storiche quali l’emigrazione e l’avvento della fonografia. Gli emigranti portavano con sé un bagaglio sonoro fatto di arie d’opera e canzoni popolari che diffondevano con voci, chitarre, organetti da strada e fisarmoniche. Dischi e cilindri materializzarono quindi quelle pratiche esecutive, privilegiando i repertori che meglio si adattavano alla tecnologia disponibile nell’era della registrazione acustica e furono appannaggio delle voci impostate, ovvero tenori e soprani lirici i quali ‒ da Caruso a Lina Cavalieri, da Alexander Davydov a John Mc Cormack ‒ includevano regolarmente canzoni napoletane nelle loro incisioni, per la loro assonanza con le arie d’opera.

L’etologo Konrad Lorenz sosteneva che solo dal confronto con il “diverso” si costituisce o ricostituisce un’identità individuale[9]. Essa si definisce per differenza e si basa sulla svalutazione o negazione dell’identità dell’altro[10]. L’identità italiana deve molto al contributo di artisti, letterati e musicisti stranieri che, all’epoca dei Bildungsreise – e dunque molto prima che si potesse parlare di “unità nazionale” ‒ lasciarono ampie testimonianze a uso dei loro connazionali, nelle quali descrivevano il carattere di un popolo e ne decantavano le risorse storiche e artistiche. Anche l’identità napoletana passa attraverso questo processo di costruzione dove a un bagaglio di autorappresentazioni si sovrappone la visione dell’altro e da quel momento sarà sempre più difficile distinguere cosa è autentico e cosa è una risposta alle aspettative di chi osserva da fuori.

L’ingresso della canzone napoletana nel repertorio internazionale è preceduto dalla diffusione della tarantella, documentata fuori confine già a metà Settecento e cresciuta anche in forma canzone nei salotti europei e nordamericani durante il secolo successivo fino a divenire parte integrante di quel canzoniere “classico-leggero” da cui attingevano cantanti sia professionisti sia amatoriali[11]. Non solo importata, tuttavia, ma – aspetto decisivo nel decretarne lo statuto di forma transculturale – ricreata ex novo: sono numerose, difatti, le composizioni in forma di tarantella, sia vocali sia strumentali, che portano la firma di autori francesi, inglesi, ungheresi, russi, tedeschi col risultato di nobilitarla e assimilarla a formati globali come il valzer, la barcarola o la serenata. L’ondata migratoria che riguardò 13 milioni di connazionali fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale comportò anche la diffusione della canzone napoletana, prima e a lungo unica espressione della popular music italica: un repertorio nel quale le comunità migranti si riconoscevano a prescindere dalla loro provenienza geografica[12]. Se Io te voglio bene assaje fu un “tormentone” in grado di attecchire in tutta Europa poco dopo il suo lancio (1839), canzoni come Funiculì funiculà, Santa Lucia e ’O sole mio conobbero un successo internazionale la cui popolarità solo la grande stagione di Tin Pan Alley sarebbe riuscita a oscurare[13].

Il secondo apripista della canzone italiana all’estero fu la romanza, distillato dell’aria operistica e dunque accessibile al vasto mondo del dilettantismo, che nell’Ottocento era cresciuto a dismisura con la diffusione del pianoforte[14]. Le romanze italiane occupavano un posto di rilievo nel repertorio salottiero sul piano sia artistico sia commerciale: facendo leva sulla tradizione belcantistica, che assegnava al Bel Paese una sorta di primato nel cuore della musica “leggera” del tempo, una canzone italiana aveva più possibilità di affermarsi non solo grazie alla credibilità di un marchio “doc”, ma anche grazie a un sistema editoriale consolidato, in grado di promuovere autori, compositori e interpreti fuori confine. Compositori come Francesco Paolo Tosti, Luigi Denza e Ciro Pinsuti insegnarono canto in Inghilterra, godendo di alto prestigio e diffondendo un marchio italiano legato non più al melodramma ma al suo distillato popolare: «pagine la cui italianità suonava come couleur locale, tratto pittoresco ed esotico di cui andavano golosi salotti, caffè e music halls»[15].

Dal primo Novecento alla Seconda guerra mondiale

Il 1898 è stato un annus mirabilis per la canzone italiana: vengono infatti pubblicate ’O sole mio e Ciribiribin, destinati a diventare l’uno il best seller di sempre, l’altro il primo standard internazionale in lingua italiana. Sempre nello stesso anno viene registrato per la prima volta Il bacio, che dal 1861 – data della sua pubblicazione – aveva già raccolto successi in Europa e in America prima come brano strumentale, poi con l’aggiunta di un testo. Nei primi decenni del nuovo secolo queste tre canzoni diventano espressioni dell’italianità in musica, plasmata attraverso dischi, programmi di sala, film e cartoni animati[16]. O’ sole mio verrà incisa da Tony Martin col titolo There’s No Tomorrow, da Lou Monte come Don’t Say Forever e parodiata da Spike Jones (Charlestono mio). La prima registrazione a raggiungere le classifiche americane fu quella di Alan Turner (1914), che precedette persino quella, iconica, di Caruso. Il bacio, dopo aver inflazionato recital operistici per oltre mezzo secolo, fu omaggiato nel film Broadway Melody of 1940, in puro stile vaudeville, e parodiato nell’esilarante Mickey’s Amateurs (1937), la Silly Symphony disneyana in cui il valzer di Arditi viene storpiato da una goffa gallina che l’esegue a colpi di coccodè. Ciribiribin, infine, rinacque in piena Swing Era grazie all’arrangiamento di Harry James, che l’adottò come sigla della sua orchestra, affidandola alla voce di un esordiente Frank Sinatra; e poi tornò in patria rivestita degli stessi abiti, nella riproposizione del Trio Lescano. Lo stesso trattamento venne riservato a motivi popolari come La piccinina e Reginella campagnola, diventate rispettivamente The Ferry-Boat Serenade, un successo per numerosi interpreti, tra cui le Andrews Sisters (n. 1 per quattro settimane in classifica) e The Woodpecker Song, un clamoroso hit per l’orchestra di Glenn Miller (n. 1 nel 1940 per sette settimane). Il repertorio di Eldo Di Lazzaro offrì un altro spunto a Glenn Miller per un ballabile ispirato a Rosabella del Molise, che diventò The Humming Bird (1940).

La lista delle canzoni che fecero la traversata fra le due guerre è molto più lunga di quella che possono vantare tempi più recenti: Mamma (Mama), Evviva la Torre di Pisa (Oh What A Surprise for the Duce), Vivere (Romany) e Violino tzigano (Serenade in the Night), un successo anche in Francia dalla voce di Tino Rossi e quella di Mistinguette, che incise pure il Tango delle capinere (Le tango des fauvettes). Lo swing di Rabagliati fece presa su Rosemary Clooney, che trasformò Botch-A-Me (Baciami piccina) in un hit oltreoceano (n. 2 per tre settimane, 1952) mentre un classico come Funiculì funiculà entrò nel repertorio dei Mills Brothers (1938), variato da sei ottavi in quattro quarti e rivestito di sonorità gospel a cappella. Un altro successo a firma italiana è Just a Gigolo (Schöner Gigolo), pubblicato a Vienna nel 1929 da Nello Casucci e presto diventato uno standard internazionale con quattro versioni in contemporanea (1931) nelle classifiche americane (tra cui Bing Crosby) per poi essere omaggiato fra gli altri da Louis Armstrong e Louis Prima.

A queste canzoni fa da contraltare un discreto numero di titoli prodotti dalla diaspora, anzitutto nelle Americhe dove il tango cancìon deve molto alla canzone napoletana, come ha scritto Ana C. Cara parlando di creolizzazione[17]. Negli Stati Uniti Guido Deiro, che col fratello Pietro formava un popolare duo di fisarmonicisti, entrò nelle classifiche di vendita con una marcia intitolata Sharpshooters’ March, nel luglio del 1911. Pietro firmò due successi: un Broadway Medley (n. 7 nel 1914) e una versione del famoso valzer Sopra le onde (Over the Waves, n. 8 nel 1916). Un Neapolitan Trio incise una versione di Silent Night che raggiunse il 7° posto nel 1917 e un Venetian Trio scalò il 6° posto nel 1915 con Love’s Dream After the Ball. Al siculo-americano Paolo Citarella si deve un successo internazionale come Luna mezz’o mare (Moonlight at Sea), ripresa da Rudy Vallée e Nat Gonella e destinata a diventare un simbolo della comunità italoamericana da quando Francis Ford Coppola la inserì in una scena del Padrino. Fra le due guerre si affermano vari talenti del tutto sconosciuti in Italia, come Teresa Maria Stabile (in arte Dolly Dawn, inserita in varie big band fra gli anni Trenta e Quaranta), il Trio Caldiero, il Quartetto messinese, Teresa De Matienzo, Gina Santelia, Joe Masiello, John Gentile, Ria Rosa e Mimì Aguglia. Su tutti spicca la figura di Gilda Mignonette, già nota a Napoli prima di trasferirsi a New York nel 1924 ed essere acclamata come «la regina degli emigranti»[18].

Sanremo, Mr. Volare e gli anni d’oro

Negli anni Cinquanta la canzone italiana accelerò quel processo di sprovincializzazione già avviato nei tardi anni Trenta con l’adozione di ritmi sincopati che dall’America avevano attecchito un po’ ovunque in Europa[19]. Se la centralità di Sanremo ebbe un ruolo di conservazione della tradizione melodica erede del melodramma, la rivista e il cinema spostarono l’asse verso stili e arrangiamenti in linea con le tendenze internazionali. Le melodie accattivanti non avevano più bisogno di essere rivestite di abiti alla moda, per adattarsi ai gusti oltre confine: ne erano già provviste. Cha Cha Cha in the Rain, di Lelio Luttazzi, fu incisa dal trombettista Eddie Calvert (1959), che incluse nel suo repertorio strumentale anche Little Serenade (Piccolissima serenata, 1957) e La pansè di Carosone (Mandy, 1958). Italian Theme (Mambo caliente, 1956) di Angelo Giacomazzi vanta cover di Cyril Stapleton & His Orchestra e Dorothy Collins. Due successi di Tony Dallara – Come prima (1958) e Ti dirò (1959) – furono ripresi da Malcolm Vaughan ed Eve Boswell col titolo More than Ever e da Marlon Ryan, Kevin Scott e Malcolm Vaughan come Wait for Me, piazzandosi entrambi nelle classifiche britanniche. Non dimenticar (T’ho voluto bene) fu un hit per Nat King Cole e Connie Francis, mentre Souvenir d’Italie (1956) venne ripresa da Bob Sharples & His Orchestra. Tutte queste canzoni portano la firma di autori e parolieri napoletani, così come Blushing Moon (Luna rossa, 1952), incisa da Alan Dean e Tony Martin, Oh Marie (Oi Marì, incisa nel 1952 da Dean Martin), The Donkey Song (O’ciucciariello), rifatta da Jane Morgan e David Carey e Torero, ripresa dalle Andrews Sisters e da Julius La Rosa, che la portò nei Top 20 dopo la versione originale di Renato Carosone. Quest’ultimo fu tra i primi esponenti della canzone moderna ad affermarsi Oltreoceano, con quel cha cha cha che salì al n. 18 nel 1958 e stazionò in classifica per nove settimane, contemporaneamente all’ingresso di quello che ancora oggi è il maggiore successo discografico di sempre: Nel blu dipinto di blu (meglio conosciuta come Volare). La canzone di Modugno si affermò su tutti i principali mercati internazionali, rappresentando un caso unico nella storia del pop italico: l’incisione dell’autore toccò la vetta delle classifiche USA per sei settimane – fra aprile e maggio del 1958 – e rimase nei Top 40 per tredici, risultando prima canzone dell’anno. Ma con le cover la sua fama aumentò: il 21 luglio Billboard riportava sette registrazioni di Volare, dalla voce di Dean Martin (n. 12 in USA, n. 2 in UK), Nelson Riddle, Jesse Belvi, Alan Dale, Linda Ross più due italiani, Umberto Marcato e il suo autore (anche n. 10 in UK), che conquistò tre Grammy nell’anno in cui il premio fu istituito: Migliore Interpretazione Maschile, Canzone dell’anno e Disco dell’anno. Più tardi arrivarono altre cover ‒ Charlie Drake, Marino Marini, Bobby Rydell e Al Martino – tutte ben posizionate in classifica, e nei successivi decenni l’avrebbero incisa anche Paul McCartney, Ray Charles e i Gipsy King, per poi entrare nel repertorio di Ella Fitzgerald. Nel 1959 Modugno replicò la vittoria con Ciao ciao bambina (Piove), ripresa da Connie Francis e dai Four Aces. La sua irruzione nel panorama mondale suggellava un interesse per i prodotti italiani sbocciato già a partire dalla seconda edizione del Festival di Sanremo (1953), che aveva partorito la canzone più fortunata del decennio (prima del ciclone Modugno): Papaveri e papere. Una novelty song da 600 mila copie in tutta Europa grazie a versioni in tedesco, olandese, svedese, islandese e soprattutto inglese dalla voce di più artisti fra cui Diana Decker, che la portò al secondo posto delle classifiche britanniche col titolo Poppa Piccolino. Dall’edizione del 1955 uscì Ci ciu ci cantava un usignol che fu un hit per Alma Cogan, i Johnston Brothers, Dean Martin e Perry Como come Chee Chee-Oo-Chee e venne incisa in 36 lingue, tra cui il cinese. Il suo autore, Saverio Seracini, scrisse anche la musica dell’Edera che, come Constantly, entrò nel repertorio di Frank Sinatra, Yves Montand, Caterina Valente, Doris Day, Sarah Vaughan, Lys Assia e Cliff Richard.

La crescita della canzone italiana proseguì negli anni Sessanta e toccò il proprio apice a fine decennio, quando per cinque edizioni consecutive il festival di Sanremo vide decine di cantanti e gruppi gareggiare nell’idioma dantesco, accoppiati a colleghi di casa. Il nostro Paese attirava la crema del pop internazionale (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Austria, Cuba, Brasile, Messico e altro ancora) a livelli mai più sfiorati. Quella stagione sfornò hit internazionali come Quando quando quando (ripresa da Pat Boone e Joe Loss & His Orchestra e tornata in auge in chiave disco, una ventina d’anni più tardi); Le colline sono in fiore (The River), che Ken Dodd portò al n. 5 in Gran Bretagna; Non ho l’età, che dopo la vittoria all’Eurovision Song Contest fu ripresa come This Is My Prayer da Dana Valery e Vera Lynn; Quando m’innamoro, che con Engelbert Humperdinck raggiunse il 3° posto in Inghilterra come A Man Without Love.

Una star mondiale come Tom Jones attinse spesso dal canzoniere italiano, come dimostrano le cover di Gli occhi miei (Help Yourself) e Alla fine della strada (Love Me Tonight), nei Top 20 sia nel Regno Unito sia negli USA, dove a fine 1969 risultò la canzone n. 94. Ma la palma d’oro va a Io che non vivo di Pino Donaggio, lanciata nell’edizione 1965 e destinata a diventare uno standard tra i più frequentati, grazie alla versione inglese (You Don’t Have To Say You Love Me) incisa per prima da Dusty Springfield (n. 4 in UK; n. 5 negli USA), popolarizzata da Elvis Presley (n. 11 negli USA, 1970) e riproposta fra gli altri da Jerry Vale e dai Guys ’n’ Dolls nel 1976.

Ma Sanremo fu solo un capitolo e nemmeno il principale. Se molti paesi europei attingevano già da tempo al serbatoio italiano per rinnovare i propri canzonieri locali, fu l’Inghilterra a rivelare un interesse senza precedenti per i nostri prodotti. I Tremeloes incisero Non illuderti mai (n. 6, 1967) col titolo di My Little Lady e Uno tranquillo (n. 7, 1968) come Suddenly You Love Me, che ebbe molta più fortuna rispetto al mercato italiano. Cilla Black conobbe il più grande successo della sua carriera grazie a You’re My World (Il mio mondo, di Umberto Bindi), prima in classifica nel 1964. Stessa sorte per gli Amen Corner, che con Half As Nice (Il paradiso, di Lucio Battisti) ebbero il loro unico Numero Uno (1969), ritornato nei Top 40s nel 1976 grazie a una ristampa. Infine, gli Herman’s Hermits, che raggiunsero il n. 8 nel 1969 con Something’s Happening (Luglio) e il n. 16 nel 1970 con Lady Barbara, mentre Grande grande grande divenne un hit per Shirley Bassey (n. 19, 1973) col titolo Never Never Never e fu riesumata nei tardi anni Novanta da Celine Dion[20].

La canzone nazional-popolare e l’Italo disco, fra localismo e globalizzazione

Ai miei studenti americani sottopongo ogni anno una ventina di canzoni di successo spalmate sugli ultimi sessant’anni, che a loro sono totalmente sconosciute. Le preferenze vanno regolarmente a titoli come Tu vuo’ ffà l’americano, Felicità, L’italiano, Sarà perché ti amo e classici dell’Italo-disco. Le canzoni di De André, Dalla, Battiato e Battisti – considerate la “crema” del repertorio moderno ‒ non arrivano. Non solo perché richiedono più tempo per essere assimilate ‒ Adorno sosteneva che nella popular music piacere equivale a riconoscere ‒, ma perché non si capiscono le parole[21]. E in traduzione le canzoni d’autore non funzionano. Non è un caso che i pochi tentativi siano stati dei flop e che nel mondo i cantautori vantino solo pochi scelti estimatori (David Byrne e Wim Wenders adorano De André), mentre le canzoni italiane conosciute all’estero appartengono al repertorio nazional-popolare o alla stagione pre-cantautorale: i sempreverdi napoletani, gli anni Cinquanta di Marina, Nel blu dipinto di blu e Torero; i favolosi Sixties di Quando quando quando, More, Io che non vivo senza te e Il mio mondo, l’unico standard internazionale scritto da un cantautore prima di Caruso.

Il Made in Italy della canzone si identifica in figure come Al Bano, i Ricchi e Poveri, Pupo e Toto Cutugno, le cui tournée in Russia e nell’Est Europa hanno sempre registrato il tutto esaurito. Di questi artisti vengono apprezzati il talento vocale – che varia dal bel canto al registro confidenziale ‒, l’orecchiabilità di melodie e ritmi, la gestualità, il look semplice ma elegante che rimanda a una dimensione “autentica”, nel solco di una tradizione inequivocabilmente italiana, rinnovata e resa moderna nelle sonorità comunque lontane dal pop globale anonimo (quello promosso dall’Eurovision Song Contest, per intenderci).

Eguale popolarità ha goduto nei decenni la dance italiana, costola della più famosa Euro-disco (a sua volta innescata dall’altoatesino Giorgio Moroder in terra di Germania) e conosciuta nel mondo – tranne che in patria – come Italo disco. La sua diffusione fu notevole a livello internazionale, mentre minore fu l’impatto sul mercato domestico, nella logica della “dissimulazione dell’identità locale” che stava alla base dell’Italo disco, i cui artisti e progetti avevano pseudonimi inglesi, si servivano di vocalist per lo più afroamericani che registravano a New York dove mixavano il tutto[22]. Nomi come Gazebo, Gepy & Gepy, Kano, Den Harrow e D. D. Sound (i fratelli La Bionda), estranei al circuito delle multinazionali, vendettero milioni di copie in tutta Europa, Russia compresa. Paradise dei Change (1981) – sintesi di melodia italiana e black soul ‒ fu uno dei brani più suonati al Warehouse di Chicago insieme a Dirty Talk (1982) del team Klein and MBO, pubblicato negli USA dalla Atlantic e diventato un hit nella scena house di Chicago e della scena garage di New York. Anche l’emergente scena hip hop fu influenzata da un apripista dell’Italo disco: I’m Ready del progetto Kano, pubblicato a New York nel 1980 e salito al 21° posto delle classifiche di black music. Influenti su techno e house furono anche le prime incisioni di Alexander Robotnick come Problèmes d’Amour e le produzioni di Claudio Simonetti come Baby I Love You (1978) per gli Easy Going e per Vivien Vee come Give Me a Break, tutti hit internazionali.

Un altro filone più centrato sulla melodia fu promosso da interpreti vicini al mondo della canzone, come Spagna, Umberto Tozzi, Raf e Toni Esposito, la cui Kalimba de luna fu tra i dischi più “campionati” di quella stagione con decine di cover in tutto il mondo. Le classifiche di molti paesi europei ospitarono brani di disco music italiana lungo tutti gli anni Ottanta: Tarzan Boy (1985) dei Baltimora – anche negli Hot 100 negli USA; Vamos a la playa (1983) dei Righeira, Body to Body (1979) di Gepy & Gepy, I Like Chopin (1983) di Gazebo – un successo anche negli USA e in Giappone. A questi vanno aggiunti i cantanti scoperti da Claudio Cecchetto: le inglesi Tracy Spencer (Run To Me, 1986) e Taffy (I Love My Radio, 1985, entrò nei Top Ten americani), il croato Sandy Marton (People from Ibiza, 1984) e la genovese Sabrina (Boys, 1987), che vantò un grosso seguito in Spagna.

L’attrazione per la dance italiana proseguì anche con maggiore intensità negli anni Novanta e successivi. Ride on Time dei Black Box svettò per sei settimane nel Regno Unito (1989) annunciando ‒ nelle parole dell’influente critico Simon Reynolds ‒ «il trionfo della rave nation e il punto più alto della seconda Estate dell’Amore»[23]. Robert Miles (alias Roberto Concina) fu il primo italiano a ricevere un Brit Award come Best International New Comer, grazie al suo mega hit Children (1995). Team come gli Eiffel 65 e i Medusa (di stanza in Inghilterra) hanno raggiunto la vetta delle classifiche dance europee con dischi in lingua inglese.

Intermezzo: Bella ciao

Bella ciao rappresenta un’anomalia a livello internazionale: nessuna canzone appartenente al repertorio tradizionale ha avuto, in tempi recenti, una circolazione paragonabile ad essa. Solo Greensleeves fra i brani del folklore – privi, cioè, di un autore unico e riconoscibile sia per la musica sia per il testo – e un pugno di melodie natalizie (es. God Rest You Merry Gentlemen, Deck the Halls, The First Nowell) possono vantare una visibilità altrettanto rilevante a livello mondiale[24].

Il canto di origine popolare, diffuso a partire dal secondo dopoguerra come canzone partigiana (ma presente anche nel repertorio delle mondariso), ha varcato subito i confini nazionali pur restando all’interno del circuito della sinistra fino a quando, verso inizio Millennio, ha iniziato la sua ascesa nei movimenti di protesta sorti in varie zone calde del mondo. Dai No Global alle piazze palestinesi e siriane, da Taiwan alle donne iraniane, dalle marce per la pace ai soldati ucraini, Bella ciao è stata cantata tanto in italiano quanto nelle lingue locali per manifestare dissenso, imponendosi come inno della libertà in grado di contagiare anche parti importanti dello show business, dalla serie televisiva La casa di carta (largamente responsabile del suo nuovo “rilancio” a livello globale) a star come Madonna, immortalata mentre la canta attorno a una tavola imbandita, in un contesto vacanziero[25]. Se ’O sole mio conserva il primato di canzone italiana più incisa al mondo, i segnali avvertiti da tempo – moltiplicatisi durante la pandemia, quando circolarono molti video amatoriali realizzati oltre confine in omaggio agli italiani, i primi a essere colpiti dal virus ‒ mi inducono a ritenere Bella Ciao la canzone italiana più conosciuta e cantata nel mondo.

Il grande schermo e le colonne sonore

Un’importante fucina di prodotti certificati proviene dal cinema, che ha riservato a molti italiani un posto d’onore anche a Hollywood, dove sono quattro i compositori che hanno ricevuto l’Oscar per la migliore colonna sonora, a partire da Nino Rota con Il Padrino parte II (1975), mentre il tema conduttore del Padrino (1972) – Parla più piano – era già stato un successo in forma di canzone col titolo Love Theme from the Godfather, ripreso in un centinaio di cover a ogni latitudine (Ucraina, Slovacchia, Giappone, Francia) e in stili diversi, dal rap all’hard-rock. L’Oscar arrise anche a Luis Bacalov con Il postino (1995), a Nicola Piovani con La vita è bella (1998) – il cui tema, trasformato in canzone (Life is Beautiful), divenne un successo personale per l’israelita Noah ‒ e a Ennio Morricone con The Hateful Eight (2016). La reputazione di quest’ultimo, in ambiti che vanno dal jazz al rock progressivo (non si contano gli arrangiamenti di suoi temi) ha fatto sì che anche alcune delle sue canzoni raggiungessero una platea internazionale, come nel caso di Here’s To You (1971), dal film Sacco e Vanzetti, interpretata da Joan Baez, autrice anche del testo.

Le canzoni prodotte per il grande schermo conobbero la loro stagione d’oro a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, quando Cinecittà venne ribattezzata la Hollywood sul Tevere per l’alto potere di attrarre produzioni internazionali, dando così risalto ad artisti e maestranze italiane. In quegli anni figure come Piero Umiliani, Piero Piccioni e Armando Trovajoli, lavorando spesso per pellicole di genere (dal poliziesco alla commedia all’italiana), misero a punto un format in grado di far presa all’estero dove le loro colonne sonore sarebbero diventate un cult[26]. Su tutte spicca More (1963), uno degli standard italiani più apprezzati, dal film Mondo cane. Il tema strumentale di Oliviero e Ortolani ricevette una nomination per l’Oscar e venne inciso (sia come instrumental che in versione cantata) da decine di artisti tra cui Andy Williams, Kai Winding, Frank Sinatra con l’orchestra di Count Basie, Lena Horne e Perry Como, che lo portò nei primi posti delle classifiche britanniche e americane. Grazie al cinema il canzoniere internazionale accolse Guaglione (The Man Who Plays the Mandolin), cantata da Dean Martin in 10.000 camere da letto (1956), arrangiata come mambo strumentale da Perez Prado (oggetto di un curioso rèpechage in Inghilterra, dove tornò in classifica, al 2° posto, nel 1995) e ripresa anni dopo in Francia da Dalida (Bambino). La strada di Fellini rese famosa Stars Shine in Your Eyes, incisa sia da Ronnie Hilton che da Eddie Barclay & His Orchestra (1955); Arrivederci Darling (Arrivederci Roma, 1956) vanta una lunga lista di cover fra cui quelle di Nat ‘King’ Cole, Abbe Lane & Xavier Cugat e Mario Lanza, che la canta nei Sette colli di Roma. Infine, Anna, dalla pellicola omonima, che nel 1953 sbaragliò le classifiche d’America con tre versioni in contemporanea: l’originale di Silvana Mangano (n. 5), seguita da Jane Morgan, Ray Bloch (n. 22) e Perez Prado (n. 29).

Il pop globale e il ritorno del bel canto

Solo poche canzoni hanno superato i confini nazionali negli ultimi decenni. Tra queste Aria (1976) di Baldan Bembo, che suggerì ad Acker Bilk una versione strumentale e un paio di hit strumentali: Mah Na Mah Na (1977) di Piero Umiliani, in classifica in Gran Bretagna dopo che fu inclusa nella colonna sonora dei Muppets e When a Child Is Born (Soleado, 1974), che vendette 5 milioni di copie nel mondo con il Daniel Sentacruz Ensemble in Italia e Johnny Mathis (n. 5 negli USA). L’ultimo rilevante caso risale al 1984, quando Laura Branigan incise Self Control di Raf, portandola ai primi posti delle classifiche inglesi, americane e di mezza Europa, dopo aver riscosso analogo successo due anni prima con Gloria di Umberto Tozzi.

Più ci si avvicina al presente e più la canzone acquisisce caratteristiche globali, rendendo superflua la necessità di adattarla a gusti, oltreché lingue, diverse mediante la pratica della cover. Dopo il picco raggiunto negli anni Sessanta, la canzone italiana ha visto decrescere il proprio appeal sul mercato internazionale e quel che di unico ha continuato a offrire al mondo lo ha fatto restando fedele a sé stessa, senza cioè ricorrere ad adattamenti altrui. In aggiunta ai già menzionati esponenti del filone “nazional-popolare”, artisti come Mina, Zucchero, Laura Pausini e Andrea Bocelli hanno ottenuto grande visibilità oltre confine senza dover affidare le loro canzoni a cover altrui, ma interpretandole in italiano o incidendole in inglese, spagnolo o francese. Se Mina vanta fin dagli esordi una discografia internazionale smisurata, estesa a lingue come il tedesco, il turco e il catalano, Zucchero è l’artista italiano più cosmopolita, il solo a poter vantare collaborazioni eccellenti con i grandi del rock, del soul e della world music, e il solo in grado di portare le sue canzoni in giro per i cinque continenti[27]. Un’audience allargata possono vantare Eros Ramazzotti, Angelo Branduardi e Tiziano Ferro mentre Laura Pausini, insignita di due Grammy Award nel 2006 e nel 2007 per le sue canzoni in lingua spagnola, è la seconda italiana dopo Modugno a potersi fregiare del più prestigioso premio della discografia mondiale. Il mercato latino è uno degli sbocchi più immediati per i cantanti italiani, come testimonia la popolarità raggiunta da Raffaella Carrà e le numerose collaborazioni fra artisti dei due paesi che ne suggellano la vicinanza.

La voce più popolare, infine, è quella di Andrea Bocelli, salito alla ribalta mondiale grazie alla versione inglese di Con te partirò (Time to Say Goodbye), eseguita con il soprano Sarah Brightman, che svettò nelle classifiche di molti paesi europei ed è il 23° singolo più venduto di sempre al mondo. Nel 2018 il suo album Si ha raggiunto il primo posto delle classifiche britanniche e americane ‒ prima volta per un italiano –, quando altri otto avevano già raggiunto i Top Ten. Con Bocelli, e Pavarotti prima di lui, la canzone italiana radicata nel “bel canto” è tornata a occupare un posto di primo piano nel panorama mondiale, dando un contributo fondamentale alla nascita del cosiddetto “pop operistico”, che annovera fra i suoi esponenti Il Volo, il cui album d’esordio (Il Volo, 2009), pubblicato dalla Geffen, ebbe l’onore dei Top Ten americani[28].

Conclusioni

Questa panoramica della canzone italiana all’estero, ancorché lungi dall’essere esaustiva, ci pone di fronte a una realtà che pare inoppugnabile oltre che intuitiva se non ovvia: le canzoni che si sono affermate presso pubblici altri rispetto alle comunità italiane residenti devono la loro popolarità alla musica e non alle parole. Alla melodia, al ritmo, ad arrangiamenti efficaci, all’armonia delle voci e al loro timbro: caratteristiche che rimandano a un canone riconosciuto internazionalmente, nel quale questa vasta produzione si riconosce, pur segnalando la propria unicità. Ma non vi rientrano, se non in casi sporadici, quelle canzoni che in Italia – e solo in Italia ‒ devono la loro popolarità anche ai testi. Parlo anzitutto della canzone d’autore, quel grande corpus nel quale più generazioni hanno individuato il fiore all’occhiello di un prodotto pur sempre di massa, ma contraddistinto da una superiore qualità poetica e letteraria. La critica e il mondo accademico – oltre che il pubblico ‒ sono concordi nell’assegnare alle canzoni di Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Franco Battiato e dell’accoppiata Mogol-Battisti – e potrei andare avanti – la palma d’oro dell’eccellenza anzitutto per come i testi sono integrati a musiche non banali. Eppure, nessuno di questi autori è conosciuto all’estero. I rarissimi tentativi di incidere in inglese le loro canzoni non hanno dato risultati apprezzabili, con la rilevante eccezione di Paolo Conte, considerato un artista di culto anche dal pubblico di lingua inglese e francese[29]. La sua musica, intrisa di swing, evoca atmosfere vintage, la sua voce rimanda ad altre voci “ineducate” e i suoi testi includono vocaboli che fanno parte della cultura globale, arrivando anche senza bisogno di traduzione[30]. D’altronde, fu un altro illustre critico d’America, Greil Marcus, ad affermare che i dischi sono sound prima che parole e che nell’immediatezza preverbale sta il potere di certe canzoni. Lo prova il successo dei Maneskin, primo gruppo rock italiano a entrare nel circuito internazionale pur conservando, sebbene in parte, la lingua nativa. E lo prova il crescente gradimento di altri esponenti della nuova generazione – Mahmood, Ghali, Amir Issaa –, la cui lingua è sempre più infarcita di termini internazionali, presi a loro volta dall’universo dei social media mentre la loro musica rimanda a generi (rap, trap) ampiamente condivisi da un pubblico per il quale le frontiere non rappresentano più un problema insuperabile.

  1. Fonte: www.secondhandsongs.com; ultimo accesso: 16 marzo 2024.
  2. L’aria pucciniana conobbe una nuova vita da quando fu eseguita dal tenore spagnolo durante il debutto dei Tre Tenori alle Terme di Caracalla nel 1990, il concerto che sancì il ritorno della lirica nel mercato pop.
  3. Cfr. Wikipedia, List of Best-Selling Singles: ultimo accesso: 23 febbraio 2024.
  4. Cf. P. Prato, Stereotipi musicali e identità etnica: esempi dalla canzone napoletana, in «Musica/Realtà» 104, 2014.
  5. J. Mangione, B. Morreale, La Storia: Five Centuries of the Italian American Experience, New York, Harper Collins Publishers, 1992, p. 24. La loro visione è largamente condivisa da altri studiosi dell’immigrazione. Cfr., ad es., Lawrence Pisani, secondo il quale la musica è «un campo in cui gli italiani hanno lasciato il segno nella società e nella mentalità degli americani» (L. F. Pisani, The Italian in America. A Social Study and History, New York, Exposition Press, 1957, p. 232).
  6. J. E. Zucchi, The Little Slaves of the Harp. Italian Child Street Musicians in Nineteenth-Century Paris, London and New York, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 1992.
  7. Fra i titoli composti fra il 1907 e il 1916 – ben prima che Berlin diventasse il padre riconosciuto della canzone americana – spiccano Sweet Italian Love, When You Kiss an Italian Girl, That Opera Rag, Pick Pick on the Mandolin, Antonio e My Sweet Italian Man.
  8. J. Rosselli, Sull’ali dorate. Il mondo musicale italiano dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 131.
  9. Traggo questo spunto da V. Lanternari, Folklore e dinamica culturale, Napoli, Liguori, 1976.
  10. G. Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983.
  11. Nel 1753 l’inglese «The Gentleman’s Magazine» cita una The Tarantella tune dopo due articoli dedicati al morso della tarantola e a come i contadini si curavano. Nel 1789 la danza è menzionata nella «Gazette of the United States» (17 June) e descritta nel quadrimestrale «Der teutsche Merkur».
  12. Cfr. M. Sorce Keller, Continuing Opera with Other Means: Opera, Neapolitan Song, and Popular Music among Italian Immigrants Overseas, in «Forum Italicum», 2, 2015; P. Prato, Exporting Naples: Geopolitics and Transculturality from ‘Io te voglio bene assaje’ and Caruso, in «Chigiana Journal» III Serie, 4, 2022.
  13. M. L. Stazio, I motivi di un progetto, in La canzone napoletana tra memoria e innovazione, a cura di A. Pesce, M. L. Stazio, Napoli, Istituto di Studi sulle Civiltà del Mediterraneo, 2013. Io te voglio bene assaje fu oggetto di parodia nella canzone francese Nina La Marinière (1843) (cfr. R. Di Mauro, Improvvisazione popolare e urbana a Napoli nel primo ’800: dai canti del molo a “Io te voglio bene assaie”, in R. Rasch (ed.), Beyond Notes: Improvisation in Western Music in the Eighteenth and Nineteenth Centuries, Brepols, Turnhout, 2011) e conobbe varie edizioni in Germania e Inghilterra a partire dal 1844, ogni volta con un titolo diverso. Sulla sua popolarità cfr. anche M. Sorce Keller, Io te voglio bene assaje: A famous Neapolitan Song Traditionally Attributed to Gaetano Donizetti. An Occasion for a Few Remarks About Oral and Literate Musical Tradition, in «The Music Review», 45/3-4, 1984. Funiculì funiculà rappresenta un caso limite di crossover in grado di penetrare persino il mondo classico, citata da Rimsky Korsakov, Richard Strauss e Schoenberg. In tempi più recenti Wynton Marsalis ne ha fatto un arrangiamento per tromba solista e orchestra jazz.
  14. Sul dilettantismo in musica cfr. R. Leppert, Music and Image: Domesticity, Ideology and Socio-Cultural Formation in Eighteenth-Century England, Cambridge, Cambridge University Press, 1988.
  15. Da «La Tribuna», 12 gennaio 1888, citato in R. Tedeschi, D’Annunzio e la musica, Firenze, La Nuova Italia, 19° 88, p. 188.
  16. Su ’O sole mio cfr. P. Del Bosco, ’O sole mio. Storia della canzone più famosa del mondo, Roma, Donzelli, 2006. Sugli altri due titoli rimando a P. Prato, Musica da esportazione: due successi dell’Ottocento, in Note tricolori. La storia dell’Italia contemporanea nella popular music, a cura di P. Carusi e M. Merluzzi, Pisa, Pacini, 2021.
  17. A. C. Cara, Napoli in Buenos Aires: From Canzonetta to Tango Canción, in G. Plastino, J. Sciorra (eds), Neapolitan Postcards: the Canzone napoletana as transnational subject, Lanham-Boulder-New York, Rowman & Littlefield, 2016.
  18. Su Mignonette e altre voci della diaspora cfr. S. Frasca, Birds of Passage. Musicisti napoletani a New York, Lucca, LIM, 2010; F. Adinolfi, P. Prato, Italian Diaspora, in D. Horn, J. Shpeherd (eds.) Encyclopedia of Popular Music of the World – Vol.V, Locations: Europe, vol. 5, London-New York, Continuum, 2005.
  19. Sulla penetrazione dei ritmi jazz nella canzone cfr. C. Poesio, Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana, Firenze, Le Monnier, 2018; S. Frasca, The American Big Invasion: ritmi americani a Napoli (1900-1935), in «Musica/Realtà» n. 80, 2006; G. Bonsaver, America in Italian Culture. The Rise of A New Model of Modernity: 1861-1943, Oxford, Oxford University Press, 2023, e in particolare il capitolo Dancing to Jazz on Fascist Airwaves.
  20. Sulla storia delle canzoni italiane rifatte all’estero rimando a P. Prato, Selling Italy by the Sound: Cross-Cultural Interchanges through Cover Records (1920s-to date), in «Popular Music», vol. 26/3, 2007.
  21. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi, 1971.
  22. P. Magaudda, Disco, House and Techno: rethinking the local and the global in Italian Electronic Music, in Practising Popular Music, Montreal, 12th Biennal IASPM International Conference, 2003, p. 239.
  23. S. Reynolds, Generation Ectasy. Into the World of Techno and Rave Culture, London, Routledge, 1999, p. 78.
  24. Cf. L. Cerchiari, S. Pellizzari, Greensleeves: una vicenda transatlantica. Da William Shakespeare a John Coltrane, Torino, Libreria Stampatori, 2007. Sulle canzoni di Natale rimando a P. Prato, I canti di Natale. Da Jingle Bells a Lady Gaga, Roma, Donzelli, 2013.
  25. Su Bella Ciao cfr. C. Pestelli, Bella Ciao. La canzone della libertà, Torino, Add, 2016; R. Giacomini, Bella Ciao. La storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo, Roma, Castelvecchi, 2021; C. Bermani, Bella Ciao: storia e fortuna di una canzone. Dalla Resistenza italiana all’universalità delle resistenze, Novara, Interlinea, 2020.
  26. Cfr. F. Adinolfi, Mondo exotica. Suoni, visioni e manie della Generazione Cocktail, Torino, Einaudi, 2002.
  27. Sulla dimensione internazionale di Mina cfr. R. Haworth, Mina as Transnational Popular Music Star in the 1960s, in «Modern Languages Open», 1/25, 2018; P. Prato, Mina, la canzone pan-europea e gli “interpreti generalisti”, in «Archiv für Textmusikforschung», vol. 6, no. 1, 2021. Quanto a Zucchero, il tour del 2024 (Overdose d’amore World Wild Tour) è partito dalla Royal Albert Hall di Londra, dove nel 1990 l’artista italiano aveva aperto il concerto di Eric Clapton.
  28. Cf. C. Newell, G. Newell, Opera Singers as Pop Stars: Opera Within the Popular Music Industry, in P. Fryer (ed.) Opera in the Media Age. Essays on Art, Technology and Popular Culture, Jefferson, North Carolina, McFarland & Company, 2014; P. Prato, Operatic pop, in D. Horn, J. Shepherd (eds.), Encyclopedia of Popular Music of the world – Vol. XIII, Genres: International, Bloomsbury, London-New York, in uscita nel 2025.
  29. Il suo Best of (1998) venne incluso nella lista dei cento album dell’anno da Bob Christgau, il critico più influente d’America, e i suoi tour del 2001 negli Usa e in Canada fecero registrare il tutto esaurito.
  30. Tony Mitchell ha accostato lo stile vocale di Paolo Conte a quelli di Tom Waits e Randy Newman (T. Mitchell, Paolo Conte, Italian ‘Arthouse Exotic’, in «Popular Music», vol. 26/3, 2007.

(fasc. 52, 25 maggio 2024, vol. II)