Recensione di Claudio Morandini, “Neve, cane, piede”

Author di Guido Conterio

Col breve romanzo Neve, cane, piede (Exòrma, 2015) Claudio Morandini ancora una volta sorprende con felice esito gli affezionati estimatori che sin qui lo hanno via via seguito attraverso stazioni narrative immancabilmente e talora radicalmente rinnovate per soggetto, strumenti espressivi e intenti: dal trattenuto registro goticheggiante di Nora e le ombre (Palomar, 2006), a quello ormai apertamente provocatorio e grottesco di Le larve (Pendragon, 2008), dalla meditata e colta partitura fanta-storico-musicologica di Rapsodia su un solo tema (Manni, 2010) al bruciante apologo sociopolitico di Il sangue del tiranno (Agenzia X, 2011), fino alla “zingarata” spassosa del più recente A gran giornate (La Linea, 2012).

Già, infatti, a partire dall’azzeccato titolo asindetico il lettore è avvertito che verrà condotto in un nuovo clima espressivo, improntato a essenzialità e preventiva messa al bando di bollori: tanto più che la vicenda raccontata e i suoi personaggi (un montanaro scorbutico in odore di demenza senile, un cane parlante, o immaginato tale, con un po’ – ma solo un po’ – dell’entrante saccenteria ideologica del corvo di Uccellacci e uccellini; e altri corvi veri e propri, e un morto stecchito, tutti parimenti inclini a dire la propria) esigono l’intera sorvegliata alchimia di colori e proporzioni che si addice a una fiaba morale senza esplicita morale, per giunta da assoggettare ai vincoli di un aspro scenario alpino. Un delicato cimento, che avrebbe potuto indurre l’Autore a due passi falsi di segno opposto: ornare lo svolgimento di ammicchi di facile effetto e sortilegi immaginativi, tipici semmai di una narrazione fantasy per la gioventù; oppure, al contrario, secondando senza misura le caratteristiche della location, prosciugarlo fino al dolente algore, metaforico e letterale, di un paradigma della desolazione distopica quale il lungometraggio Quintet di Robert Altman.

Morandini, invece, indovina un ideale equilibrio fra tali poli, non senza ricorrere all’abituale understatement, costantemente innervato di precisione costruttiva e freschezza di ritmi, nel quale da tempo egli è provetto, col risultato di offrire un testo che già alla prima lettura ci presenta le credenziali di un attendibile candidato alla dignità di nuovo classico, e sicuramente i lucori di un piccolo gioiello che farà strada. E di certo molto lo aiuta l’istintiva capacità di calibrare dialoghi mai banali né ridondanti, sempre a loro volta equidistanti sia da insistenze umoristiche da sit-com, che condurrebbero fuori dal mood nobilmente sobrio che il progetto narrativo pretende, sia da spigoli concettosi e mutismi, cui indulgerebbe un’imitazione sommaria di effetti bergmaniani.

Il risultato è una lettura scorrevole come quella di Pinocchio (cui il romanzo, fra mille scontate differenze, rimanda in virtù di quella fortunata economia compositiva, propria appunto di certi stati di grazia, che è difficile da definire se non con una locuzione latina: multum in parvo) ma gravata intrigantemente di tutte le risonanze e i coinvolgenti sottotesti di un prodotto letterario a noi contemporaneo.

Conclude il libro un’apparente postfazione, intitolata Storia di questa storia, che deve essere intesa quale capitolo della narrazione a pieno titolo, coerente col tracciato pregresso e necessario, nonché denso di suggestioni anche toccanti, che ci conducono ben al di là di un mero ambito di ragguagli consuntivi.

 

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A corredo della recensione di Guido Conterio pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Exòrma, un brano tratto dal capitolo 7 del romanzo Neve, cane, piede:

 

La gente immagina che la montagna sotto la neve sia il regno del silenzio. Ma neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde. Tutto scricchiola, sotto il peso della neve, e sono scricchiolii che tolgono il respiro, perché sembrano preludere allo schianto di un crollo. Gli assestamenti delle masse di neve e di ghiaccio rimbombano a lungo, attraversando la terra sotto i piedi e trasmettendosi all’aria. Le grandi valanghe parlano con boati spaventosi, che riempiono di orrore, e con il sibilo feroce dello spostamento d’aria. Ma anche le semplici slavine tuonano e riecheggiano nei valloni, e quel suono oscilla tra le pareti di roccia ben oltre il cedimento.
I passi cigolano con pena, sulla neve giovane, e ogni passo sembra un singhiozzo di pianto. Ogni fiocco percuote le finestre e le superfici con un rumoretto nervoso, come una voltata di pagina di un libro troppo lungo. E quando la temperatura si fa meno rigida, ecco che i blocchi di ghiaccio urlano fino a spaccarsi, sono colti da scariche di tosse, indulgono a fragori di tuono o di scoreggia.
Sono i rumori familiari dell’eterno inverno per Adelmo Farandola sepolto dalla neve. Là sotto, nella baita compressa dai metri di neve, tutto giunge attutito, ma giunge. E quel baccano che perdura anche di notte sembra modularsi come una partitura di voci.
Ostili, alcune, decisamente astiose. Altre più insinuanti, talora – ma è raro – colte da una sorta di tenerezza. Alle prime Adelmo Farandola non risponde mai, ha imparato che è peggio, quelle si fanno più proterve e vicine, e minacciano cose terribili, pur rimanendo nel vago. Alle seconde non nega qualche replica: sa che non andranno oltre, che al massimo si prenderanno gioco di lui senza che lui sul momento se ne accorga – solo dopo, a pensarci e ripensarci.
– Se lo dici tu – butta lì allora Adelmo Farandola, a un borborigmo del ghiaccio.
Oppure: – Certo, come no – a uno schianto troppo lontano per essere davvero minaccioso.
Gli sgocciolii che di giorno sembrano annunciare la primavera lo fanno ridere e un po’ lo esasperano. – Allora, la finiamo o no? – scatta allora, con una stizza parodistica.
– Prego? – equivoca il cane.
– Non parlavo con te – dice Adelmo Farandola.
– Ah, no?
– No. Sciò, sciò!

Adelmo Farandola ogni tanto si ricorda dei cavi che gli hanno ronzato sulla testa durante tutta l’infanzia. Le case del paese in cui era nato si stringevano proprio sotto il passaggio dell’elettrodotto, tra un pilone e l’altro, e quei cavi altissimi ronzavano giorno e notte. Quando il vento cessava, quando lo scampanio delle vacche si placava nel sonno, il ronzio aumentava fino ad assorbire i pensieri. Allora gli uomini credevano di diventare matti, urlavano per non sentire in testa il ronzio, picchiavano le donne, picchiavano le bestie, si scolavano bottiglie di vino per diventare sordi, partivano per i campi e non tornavano più. Tutti matti diventiamo, diceva la sua povera mamma. E anche il papà lo diceva, prima di prendere un bastone e rincorrere il figlio come se la colpa di quel ronzio fosse di quest’ultimo. Tutti matti, tutti matti, dicevano gli abitanti del borgo, che attribuivano ai cavi l’origine di tutti i loro mali e non ricordavano più le infinite botte che erano volate prima che gli operai venuti da fuori costruissero i piloni e stendessero i cavi. Le bestie morivano senza una ragione, o davano di matto nei prati, e si uccidevano a cornate le une con le altre, i piccoli delle bestie (non tutti, d’accordo, solo alcuni) nascevano deformi o già morti. Sono i cavi, i cavi, diceva la mamma, e si faceva il segno della croce.
Adelmo Farandola si è convinto da un pezzo che se qualcosa non va nella sua testa è per via di quegli anni passati sotto i cavi dell’elettrodotto. Sono matto, sono matto, si ripete allora, senza enfasi però, come fosse una normale constatazione, perché a qualcuno quei cavi dovevano pur toccare, e sono toccati a lui.
– Sono matto? – chiede anche al cane.
– Diciamo un po’ strano, sì.
– Sono i cavi dell’alta tensione.
Il cane alza lo sguardo, non ne vede. – Quali cavi?
– Quelli di quand’ero bambino.

                                                                                                                                                   Claudio Morandini

(fasc. 6, 25 dicembre 2015)

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