Parto dal titolo del mio breve intervento, un titolo, invero, abbastanza pleonastico, dato che gli scrittori autentici sono tutti, a rigore, “necessari”. Lo sono sul piano stilistico perché tutti, più o meno, spostano in avanti la frontiera del linguaggio, rivelandone potenzialità ancora inedite, inesplorate, ma lo sono anche sul piano dei contenuti, in quanto affrontano, di solito, questioni non effimere, temi, sociali o esistenziali, o l’una e l’altra cosa insieme, che in qualche misura ci coinvolgono, che non smettono di riguardarci (come succede con i “classici”). In loro, anzi, significante e significato sono indissolubilmente legati, si potenziano a vicenda, e nel caso particolare di Bufalino danno luogo a un “tono” inconfondibile, non mi stanco mai di ripeterlo, a uno stile di rara eleganza, alto, iperletterario, non privo d’una tournure classica e di ricercate cadenze ritmiche, musicali (a riprova di un tirocinio poetico rimasto a lungo “segreto”, che ha lasciato tracce indelebili), ma anche di scarti alto/basso e di spericolatezze avanguardistiche squisitamente novecentesche.
Questo “tono” rimarrà costante nella produzione bufaliniana, svolta, come si sa, nell’arco di un quindicennio e interrotta soltanto da un fatale incidente d’auto; una produzione frenetica e variegata di poeta, appunto, e di traduttore, ma soprattutto di narratore, saggista (o elzevirista, fra i maggiori del secolo), aforista, antologista etc.
Con qualche variazione di grado, ovviamente, tra narrativa e saggistica − in questa sede mi limito all’attività più propriamente creativa, anche se Bufalino ha condotto da artista le stesse traduzioni e antologie −, la pronuncia del saggista essendo meno farcita e composita, da causeur pur sempre raffinato ma più affabile rispetto a quella del narratore, e specularmente, via via, nell’àmbito della produzione in versi, riproposta e incrementata nelle tre edizioni dell’Amaro miele (1982, 1989, 1996), o all’interno del medesimo registro romanzesco, principiando da Diceria dell’untore (1981), tardivo esordio pubblico dell’autore, suo indubbio capolavoro e uno dei capolavori assoluti del secondo Novecento. Qui, in Diceria, un io narrante che è la controfigura dello scrittore, a distanza d’un quarto di secolo rievoca, fra «retorica» e «pietà», una traumatica esperienza di malattia e di sanatorio, da lui patita in gioventù allo scadere e all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale, e il perplesso, inguaribile sentimento della vita che ne era nato, affidato sovente, d’ora innanzi, alla metafora degli scacchi.
L’idea della vita come una partita truccata, immancabilmente tassata dalla sconfitta e però ricca d’inesauribili seduzioni, ossia l’«odiabile, amabile vita», è al centro anche del romanzo successivo, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria (1984), che rende più esplicito, persino in rapporto a Diceria, il rilievo conferito, parallelamente, al motivo della memoria – che già improntava altresì un volumetto di prose d’arte del 1982, Museo d’ombre, sul paese natìo, Comiso, al tempo dei lampioni −, memoria alla quale la letteratura può attingere per dare, proustianamente, una fittizia ma vivida “durata” a cose e persone scomparse, ormai svanite, per contrastare la devastante minaccia della morte e «popolare il deserto», come Bufalino sostiene in un suo splendido testo su Le ragioni dello scrivere. Anche la tematica siciliana è letta dall’autore in quest’ottica mitopoietica, ma non consolatoria: il carattere «plurale» del paesaggio («le Sicilie sono tante, non finirò di contarle»), i contrasti e gli eccessi insanabili sia della natura sia della società, la «mischia di luce e di lutto» che è il principale contrassegno, lo stigma-stemma, delle manifestazioni isolane, hanno trovato in lui, ad esempio in alcuni saggi riuniti nei volumi Cere perse (1985), La luce e il lutto (1988), Saldi d’autunno (1990), Il fiele ibleo (1995), un finissimo interprete, capace di arricchire ulteriormente la geniale indagine dei Verga, De Roberto, Brancati, Lampedusa, Sciascia etc.
Scrittore specialmente dell’esistenza, comunque, attento alla dialettica dell’io con se stesso più che a quella dell’io con la società, diversamente dal suo amico e mèntore Leonardo Sciascia, Bufalino si è confermato nei successivi romanzi (Le menzogne della notte, 1988; Qui pro quo, 1991; Calende greche, 1992; Il Guerrin Meschino, 1993; Tommaso e il fotografo cieco ovvero Il Patatràc, 1996; Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca, incompiuto e pubblicato postumo a mia cura), nelle menzionate poesie di L’amaro miele e nei mirabili racconti di L’uomo invaso e altre invenzioni (1986), sebbene si avverta un progressivo distanziamento o straniamento dalla materia più strettamente e pungentemente personale, privata. Le menzogne della notte, mettiamo, è uno pseudoromanzo storico; Qui pro quo e Calende greche sono parodie, rispettivamente, del romanzo poliziesco e del romanzo autobiografico; Il Guerrin Meschino fa il verso al romanzo cavalleresco e all’“opra dei pupi” etc., come se, cioè, il manierismo bufaliniano, da L’uomo invaso in poi, evolvesse nella direzione del cosiddetto “postmoderno”, ma di un “postmodernismo” ripensato criticamente, certo non assimilabile a una moda occasionale e usuratasi, infatti, assai presto, a dimostrazione che l’assillo formale, in questo autore, è sempre connesso a una profonda richiesta di senso, a un assillo esistenziale, epistemologico, metafisico (più volte egli ha ammiccato a un suo «cristianesimo ateo e tremante, inetto a capire se l’universo sia salute o metastasi, grazie o disgrazia», insistendo su una sua laica e irrisolta teomachìa).
E vengo a un altro aspetto della personalità di Bufalino su cui, anche se di corsa dopo quelli evocati in precedenza, conviene richiamare l’attenzione. Mi riferisco a una potente vena di moralista, disincantato e acre, brillante e ironico, che affiora quasi di continuo in ogni sua pagina, ma che si manifesta principalmente e magistralmente negli aforismi del Malpensante. Lunario dell’anno che fu (1987) e di Bluff di parole (1994), dove si giova di un’eccezionale capacità di condensazione epigrammatica, corrosiva e controcorrente, un po’ sul modello del “malpensante” leopardiano, ma più arguta ed estrosa, forse, o più scanzonata: «Fra imbecilli che vogliono cambiare tutto e mascalzoni che non vogliono cambiare niente, com’è difficile scegliere!»; «Ho imparato a non rubare ascoltando Mozart»; «Letto col solito fastidio sul giornale di stamani l’ultimo bollettino della guerra italo-italiana»; «Inquilini della terra, non è carino che ci diamo tante arie di proprietari»; «Il sonno è di destra, il sogno è di sinistra… Votate per una lucida insonnia» etc.
Con una tale implicazione il “tono Bufalino” si configura, in definitiva, come un antidoto verso le omologazioni e i conformismi, linguistici e ideologici, di ieri e di oggi, riuscendo a esercitare addirittura una residua funzione “civile” o “politica”, nei limiti della “politicità” compatibile col ruolo attuale dello scrittore, come recita un altro aforisma: «Simile a un colombo viaggiatore, il poeta porta sotto l’ala un messaggio che ignora». La peculiarità più intrinseca e innovativa della ricerca letteraria di Bufalino, del resto, va individuata appunto, se non sbaglio, in questa problematica percezione del destino odierno dello scrittore, costretto a «starsene in bilico fra innocenza e malizia, certezza e ipotesi, natura e cultura», orfano delle «grandi cattedrali», non solo narrative, del passato, «ma inabile a sortire dalla propria cappella di manteche, falsetti, citazioni, ibridazioni, sposalizi inattesi di linguaggi e personaggi lontani» (così in un suo memorabile contributo “teorico” del 1984 sul romanzo, Morire a Roncisvalle). Come a dire, insomma, che la nostalgia umanistica del “grande stile” convive in lui con un’acuminata consapevolezza dell’impraticabilità ingenua di esso, e che ciò lo colloca in una scomoda zona di confine, su un impervio e originalissimo crinale fra l’eredità primo-novecentesca, High Modern, e la linea del Post Modern, assunta con tutta la cautela ermeneutica a cui ho accennato in precedenza.
(fasc. 40, 5 ottobre 2021)