Medea è un personaggio mitologico presente nell’immaginario collettivo fin dall’antichità classica. Nipote o sorella di Circe, l’incantatrice per antonomasia (a seconda delle varie versioni del mito), rappresenta la donna nelle sue caratteristiche più negative di maga, fattucchiera, creatura diabolica nata per stregare l’uomo e condurlo verso una strada di perdizione in cui le regole e i valori del vivere civile vengono ripetutamente violati.
Oltre alla sua spregiudicatezza nel relazionarsi all’idea di concepire un omicidio, alla sua predisposizione a non mantenere la parola data e a tradire la fiducia anche delle persone più care e vicine (si ricordi che arriva a uccidere il fratello Absirto con l’inganno), l’elemento che, forse, ha sempre contribuito a farne un personaggio cui risulta difficile dimostrare comprensione, concedere delle attenuanti o accordare un perdono (solo Dante, in Inferno XVIII 96, ne fa una vittima del seduttore Giasone, forse sulla scorta delle Metamorfosi e delle Heroides ovidiane) è la sua condotta di madre capace di privare della vita coloro cui l’ha donata, di uccidere i propri figlioletti Mermero e Fere, per punire l’amato Giasone.
Anche la disperazione per la propria sorte di donna ripudiata e tradita dall’uomo per il quale ha abbandonato famiglia e patria non è mai apparsa una motivazione valida per giustificare la crudeltà della “madre snaturata”: e il fatto che l’assassinio dei propri bambini rappresenti anche un’ulteriore negazione di sé come donna, in quanto creatura positiva capace di donare la vita, non mitiga in alcun modo, nella percezione comune, la mostruosità del terribile comportamento da lei esemplificato.
Il suo personaggio, però, ha comunque ispirato svariati poeti e scrittori, dall’antichità ai giorni nostri; la rappresentazione delle madri in letteratura (nei miti, nelle tragedie greche, nelle narrazioni folkloriche, nelle leggende, nelle fiabe e poi nei romanzi) ha, infatti, sempre proceduto secondo due binari opposti, ripercorrendo la duplicità metamorfica del materno: quello rassicurante delle madri amorose e protettive, e quello perturbante delle donne dal volto sinistro, ambiguo e inquietante, capaci di sedurre, irretire, predare e divorare persino le proprie creature.
Per quanto riguarda la figura di Medea, oltre alle imprescindibili rappresentazioni antiche che ne hanno dato, in ambiente greco, Pindaro (nella Pitica IV), Eschilo e Sofocle (in drammi purtroppo perduti), Euripide (nel 431 a. C., nella sublime tragedia nella quale si dibattono temi attualissimi quali quelli del rapporto fra i sessi e tra amore e convenienza, oltre che dei pregiudizi nei riguardi degli stranieri), Apollonio Rodio nelle Argonautiche; e, in ambiente romano, Ennio (nella perduta tragedia Medea exul), Ovidio, Seneca e Valerio Flacco, si possono ricordare almeno la Medea di Lodovico Dolce (1557), la tragedia della madre vendicatrice e infanticida di Corneille (1635), la Medea di Giovanni Battista Niccolini (ca 1814), La lunga notte di Medea (1949) di Corrado Alvaro, fino al romanzo Medea. Voci di Christa Wolf (1996).
Il personaggio ha ispirato, però, anche altre arti, a partire dalla musica (si pensi al Giasone di Francesco Cavalli, del 1649, o alla Medea di Cherubini, del 1797), fino ad arrivare alla pittura (si vedano lo struggente affresco pompeiano nella Casa dei Dioscuri o La furia di Medea di Delacroix, del 1838), alla danza (ad esempio, nella settecentesca Medea in Colchide di Vogel) e al cinema, con Pasolini e Lars von Trier (1988).
La pellicola pasoliniana del 1969, in particolare, fu girata in Turchia, Siria, a Pisa e a Grado e, notoriamente, ebbe come protagonista Maria Callas, ma vide anche la partecipazione di attori come Massimo Girotti e Piera Degli Esposti.
Lo scorso venerdì 20 ottobre è stata inaugurata a Roma, nella prestigiosa sede dell’Accademia d’Ungheria di Via Giulia, un’emozionante mostra fotografica, a cura di Giuseppe Garrera, Sebastiano Triulzi, Tamás Torma e István Puskás, che propone degli intensi scatti di scena realizzati da Mario Tursi durante le riprese del film di Pasolini; un’altra sezione della mostra è, poi, dedicata a video, installazioni site specific e immagini delle fotografe ungheresi Lucia Gőbölyös e Eszter Herczeg, che reinterpretano il mito in una chiave contemporanea.
Si può dire che Medea abbia attraversato i secoli senza mai perdere la propria forza simbolica e il proprio fascino perverso di donna seduttrice, barbaricamente fiera, incapace di dominare le proprie primitive passioni, spregiudicata e fuori dagli schemi, che, da vittima del proprio uomo, si trasforma in crudele carnefice dei propri figli e in vendicativa punitrice del loro padre, condannando se stessa all’isolamento, alla solitudine, all’allontanamento dal civile consesso umano.
Come emerge da alcuni testi dei curatori della mostra romana, che abbiamo il privilegio di ospitare in questo fascicolo di «Diacritica», Maria Callas ne è stata interprete intensa e credibile, e la sensibilità pittorica di Pasolini, di ascendenza longhiana, ha permesso al regista di immaginare che, oltre alla pellicola, l’arte fotografica di Tursi avrebbe saputo immortalare al meglio la drammatica immedesimazione che ha consentito all’attrice protagonista di calarsi perfettamente in un ruolo di così ardua complessità.
Gli scatti restituiscono la profondità del rapporto umano fra Maria e Pier Paolo, la loro confidenza, la loro «affinità psichica», nonché la «dolcezza» quasi infantile della donna, quell’«ingenuità» che Pasolini, seppur con dichiarato «sgomento», ha cantato anche nei drammatici versi che le ha dedicato (parte della raccolta del 1971, Trasumanar e organizzar), ma anche le emozioni terribili e quasi “disumane”, «infernali», che il volto intenso e lo sguardo ardente e penetrante della Callas hanno saputo esprimere nel corso delle riprese.
(fasc. 17, 25 ottobre 2017)