Durante il secolo che va dalla prima metà del XIX fino a quella corrispondente del XX, il processo di decolonizzazione fu aiutato dai frequenti rapporti culturali che si instaurarono tra gli Stati di antica collaborazione commerciale, poiché tali rapporti rappresentano la naturale prosecuzione di quelli di scambio economico e individuale; anche laddove l’incontro può sembrare meno approfondito, è naturale nasca uno scambio culturale relativo al parere che una realtà ha dell’altra, alla volontà o meno di comunicare, funzionale alla loro relazione futura. Fu durante il Diciannovesimo secolo che il distacco dall’autorità della precedente madrepatria costrinse gli Stati di nuovissima costituzione a stringersi attorno a simboli o idee nazionali che rappresentassero, insieme, sia la loro indipendenza sia l’autonomia, per verificare un progetto nazionale nuovo ma molto simile a quello da cui si distaccavano; un processo che richiedeva un ingente bisogno di risorse. La classe sociale degli intellettuali, degli scrittori e dei diplomatici aveva la responsabilità di comunicare sia col passato politico del modello amministrativo europeo, sia con le popolazioni che spingevano per confermare la loro nuova identità.
Dans leur souci de construire des nations modernes, les divers pays issus de l’indépendance s’ouvrirent largement. Parfois ils sollicitèrent l’aide des puissances européennes afin de mieux connaître leur géographie, de délimiter leur territoire, de domestiquer leur nature, de faire l’inventaire de leurs ressources et de s’équiper des moyens scientifiques et techniques de leur mise en exploitation. C’est dans ce contexte-là, par dizaines, desvoyages, et des explorations furent organisés à partir de l’Europe. Comme il fallait s’y attendre, ces activités qui intéressaient au premier chef des hommes de science trouvèrent encouragement et appui au près des gouvernements. Ceux-ci les accordaient d’autant plus facilement qu’une sorte de rivalité, une course à l’influence politique, diplomatique, économique et culturelle se fit jour parmi les Européens qui voyaient dans ce Nouveau Monde un merveilleux champ d’expression1.
In questo processo la funzione dell’intellettuale e dello scrittore, così come quella dello scienziato, assunsero un ruolo importantissimo, pari a quello acquisito dagli scrittori e dai filosofi romantici nel processo di fondazione nazionale dei Paesi europei. I Romantici tuttavia non ebbero a disposizione la ricchezza ed i mezzi grazie ai quali, all’alba del XX secolo, gli spazi ed i tempi della comunicazione si assottigliarono e favorirono un più veloce confronto e rapporto di conoscenza reciproca.
Il Modernismo, frutto di un rapporto rivoluzionato con le cronotopìe tradizionali, i viaggi verso paesi lontani e da poco conosciuti, la velocità e il controllo delle informazioni vitali allo sviluppo economico e pratico; gli strumenti che la realtà di inizio Novecento utilizzò praticamente, dopo averli sperimentati letterariamente, proprio perché citati dalla fantasia di immaginifici scrittori di avventure fantascientifiche; i riferimenti geografici stessi erano misti ad idee provenienti da racconti leggendari ed apocalittici la cui veridicità venne quotidianamente esperita.
Fu compito di quegli intellettuali trasportare verso Ovest le idee di cui le nuove realtà avevano bisogno e nel contempo proiettare ad Est le esigenze provenienti dal continente americano; mentre le trasportavano, quelle idee e quelle esigenze cambiavano, seguendo l’interpretazione degli stessi intellettuali; si adattavano a chi le doveva ricevere, si modificavano secondo un equilibrio dinamico che cambiava a seconda di come erano state recepite nella società d’arrivo.
Quello appena descritto è un compito fisicamente parallelo a quello, più simbolico, della traduzione; un processo che al livello linguistico metaforizza e sintetizza gli scambi culturali attraverso il mezzo privilegiato della lingua. L’opera di traduzione, quando si consideri come contesto la cultura che una lingua esprime, si serve degli uomini, delle loro idee e della loro cultura personale pregressa all’operazione stessa.
Il compito di trasposizione fisica, grazie a cui si veicolano le idee, non è chiamato traduzione, sebbene ne possegga la legittimità etimologica, poiché si rischierebbe di confondere l’attività odeporica con quella linguistica; è però abbastanza evidente, senza risalire alle grammatiche storiche – in questo ambito dirimenti ‒, quanto l’opera di traduzione possa essere interpretata come processo di trasposizione spaziale indipendente dal processo di trasposizione linguistica.
Quegli intellettuali a cui ci si riferiva, attraverso una dislocazione fisica rappresentata dal viaggio, hanno trasportato se stessi e le parole veicolando le esigenze delle popolazioni da cui partivano e a cui arrivavano, funzionando da mediatori culturali attenti quanto mai a tradurre linguisticamente e fisicamente quanto l’uno avrebbe dovuto conoscere dell’altro, facilitando le interpretazioni della comunicazione e garantendo l’efficacia o il fallimento di una determinata strategia comunicativa. Mediatori culturali, dunque, e anche traduttori fisici, “transduttori”, viaggiatori e viaggianti che comunicano scrivendo e i cui messaggi possono essere comunicati tra le righe delle opere che promuovono. Il movimento più interessante di questi protagonisti della modernità si gioca nel campo dell’etica dialogica tra le culture: in termini di scambi letterari, fu chiamato, a seconda della latitudine da cui si osservava la vecchia madrepatria, Il ritorno del Mayflower o El retorno de los galeones.
La meccanica delle dinamiche culturali prevede che, all’azione della prima colonizzazione, succeda la reazione del dialogo, cioè un ritorno verso le origini allo scopo di incontrarsi; tale incontro avviene all’interno di uno spazio in cui le realtà dialoganti godono di caratteristiche e funzioni paritetiche. Senza l’equivalenza e la pari opportunità non esisterebbero né dialoghi, né confronti né tantomeno superamenti delle gerarchie coloniali.
Il movimento contrario alla prima colonizzazione, quello da Est ad Ovest, serve a riportare in Europa le idee scaturenti dalla civiltà europea, poi trasformate dalle dinamiche diastratiche dell’incontro culturale in conoscenza reciproca grazie alla quale tutti i protagonisti – in questo caso le culture ex colonizzatrici ed ex colonizzate – si traducono. La creazione di quello spazio in cui i convenuti si confrontano pariteticamente è operazione difficile e spesso ostica in quanto ha bisogno della volontà di personaggi che lavorano disinteressatamente all’obiettivo etico; è altresì vero che l’operazione è spesso facilitata dalla meccanica di azione e reazione a cui sopra ci si riferiva, meccanica che, oltre a creare naturalmente il rifiuto o la paura dell’Altro, funziona anche nella maniera contraria, promuovendo un entusiastico interesse ed una curiosità intellettuale rivolta ai nuovi Altri che ci si trova di fronte. Un luogo creato e continuamente operativo, teatro privilegiato di tutti i confronti e gli scontri tra le culture, è stato spesso individuato nell’ambito di intersezione delle traduzioni linguistiche, proprio perché discipline quali la Traduttologia o i Translation Studies hanno imposto una pariteticità statutaria agli oggetti di ricerca. Grazie a quest’ultima prospettiva siamo stati in grado di avvicinare il concetto di confine spaziale con quello di confine semiotico espresso da Lotman, laddove egli paragonava il sistema semiotico a quello biologico; utilizzando la prospettiva semiosferica, il luogo confinario funziona come una periferia semiotica in cui si elaborano i cambiamenti che si installano nel sistema di segni plurilinguistico: la cultura.
Non casualmente in Tipologia della cultura, Lotman descrive sempre l’oggetto di ricerca utilizzando un metalinguaggio spaziale strutturato in un nucleo interno, organizzato e ordinato, gerarchicamente confinante con un esterno, non organizzato, altro, da cui arrivano le innovazioni; è la cultura stessa che crea la propria organizzazione attraverso la delimitazione del nucleo interno. A fare da filtro rispetto all’esterno, o forse meglio a determinare l’esistenza tra un interno organizzato ed un esterno disorganizzato, Lotman posiziona la frontiera, o confine, altresì delimitazione, la funzione della quale è fondamentale per lo sviluppo del sistema culturale; ripropongo qui i celebri assunti lotmaniani:
Una frontiera divide lo spazio della cultura in continui che comprendono un punto o un insieme di punti. L’interpretazione semantica di un modello della cultura consiste nello stabilire le corrispondenze tra i suoi elementi (spazio, frontiera, punti) e i fenomeni del mondo oggettivo. 6.0 Si può annoverare, come uno dei tratti più generali dei modelli della cultura, la presenza in essi di una frontiera fondamentale che ne divide lo spazio in due parti distinte. Lo spazio della cultura è continuo solo all’interno di queste parti ed è interrotto in corrispondenza della frontiera. […] la frontiera divide il piano in due porzioni: una esterna ed una interna. L’interpretazione semantica più semplice di un simile modello della cultura sarà l’opposizione: noi vs gli altri2.
Lo spazio di un testo della cultura, secondo Lotman, rappresenta l’insieme universale degli elementi di una data cultura poiché il testo è modello del tutto semiotico. Applicando tale considerazione al testo letterario, l’esponente della Scuola di Tartu definisce l’opera d’arte come «l’immagine dell’infinito nel finito, del tutto nell’episodio, non può realizzarsi come copiatura dell’oggetto nelle forme a lui proprie. Essa è l’immagine di una realtà in un’altra, cioè è sempre traduzione»3.
Le teorie di Vernadskij, quelle sulla relatività einsteiniane e l’impulso al riconoscimento spaziale e dialogico dell’alterità promosso da Bachtin sembrano essere serviti a registrare i principi di simmetria/asimmetria/enantiomorfismo (basandone il funzionamento della semiosfera4), che sono utili alla sistemazione del concetto di cultura come meccanismo semiotico5 in cui la focalizzazione interpretativa insiste molto sulla metafora spaziale e soprattutto sull’uso funzionale del confine.
Nel tipologizzare una cultura, e nel descriverne gli elementi autorappresentativi e grammaticalmente interni, Lotman e Uspenskij fanno abbondante riferimento a semantemi topologici, utilizzandoli non casualmente per analizzare lo spazio artistico esemplificato nella narrativa gogoliana6 e rivelando conseguentemente l’efficacia dei modelli spaziali nel metodo lotmaniano.
Come sappiamo, il modello di cultura in Lotman-Uspenskij si contrappone, in modo vario e dipendentemente dalle prospettive, alla natura, intendendo con ciò un comportamento spontaneo e condizionato dal contesto e che non prevede errore7, e alla non-cultura, «a quella sfera che appartiene alla Cultura ma non ne adempie le regole»8; grazie a tale contrapposizione si individuano degli spazi dedicati, seppur metaforici, tanto che quasi naturalmente la descrizione tipologica si trasforma in classificazione topologica. Il paradigma spaziale è ancora molto potente, sebbene Lotman ne comprenda le trappole teoriche quando avverte che: «A seconda dell’ottica di colui che descrive, cioè […] a seconda della cultura cui egli appartiene, si definisce anche il linguaggio della descrizione tipologica»9; tale avvertimento è un onesto quanto chiaro messaggio relativo alla registrazione e alla regolazione degli strumenti metrici da usare su un oggetto strutturato, la cui analisi deve prevedere la traiettoria del soggetto investigante, il suo paradigma e dunque la strutturazione della sua cultura. La caratteristica spaziale condiziona la cultura umana tanto da condizionarne il metalinguaggio, e cioè il linguaggio con cui la cultura si descrive:
Occorre tener distinti due problemi: la struttura spaziale del quadro del mondo e i modelli spaziali in quanto metalinguaggio per la descrizione dei tipi di culture. Nel primo caso, le caratteristiche spaziali appartengono all’oggetto che viene descritto; nel secondo, al metalinguaggio della descrizione. Tuttavia, fra questi due piani – assai diversi – esiste un preciso rapporto di correlazione: una delle particolarità universali della cultura umana, connessa forse alle proprietà antropologiche della coscienza dell’uomo, sta nel fatto che il quadro del mondo assume tratti spaziali. La stessa costruzione dell’ordinamento del mondo è pensata immancabilmente sulla base di una struttura spaziale che ne organizza tutti gli altri livelli. In tal modo fra le strutture metalinguistiche e la struttura dell’oggetto si stabilisce una relazione di omeomorfismo. Sicché i modelli spaziali intervengono come un metalinguaggio, e la struttura spaziale del quadro del mondo come un testo10.
Tale omeomorfismo, oltre a rivelarsi utile strumento per analizzare le culture da cui scaturiscono le opere degli autori proposti, spiega l’utilizzo della terminologia spaziale nella descrizione lotmaniana della struttura culturale generale e dei sottotesti tramite cui questa si organizza: i testi che caratterizzano la struttura del mondo la cui «caratteristica fondamentale […] sarà il tipo del carattere discreto dello spazio (carattere descrivibile attraverso i concetti topologici di continuità, vicinanza, frontiera ecc.)», e i testi dinamici «che caratterizzano il luogo, la sede, la posizione e l’attività dell’uomo nel mondo circostante»11. Il mondo del testo, modello del mondo semiotico, rappresenta l’insieme degli elementi di una determinata cultura ed è caratterizzato dalla propria suddivisione interna per cui il tratto fondamentale di ogni struttura è dato dalle frontiere che ne dividono lo spazio interno. Nella teoria lotmaniana, inoltre, la categorizzazione secondo paradigmi topologici costruisce il modello fondamentale della cultura: «Caratteristiche fondamentali dei modelli delle culture sono: 1) i tipi di partizione dello spazio universale; 2) la dimensione dello spazio universale; 3) l’orientamento»12. In questo ambito i confini e le frontiere, sia che comprendano un punto sia una serie di punti, corrispondono ai fenomeni del mondo oggettivo, ed è a tale scopo che lo spazio, omeomorficamente inteso, va interpretato semanticamente in base alle corrispondenze.
Anche gli esempi grafici nel testo a cui ci si sta riferendo, siano essi schemi o esemplificazioni, non mancano ed esprimono una concezione secondo cui le frontiere interne ed esterne del testo culturale formano un sistema oppositivo che organizza la struttura e la contrappone alla dis-organizzazione di una cultura extraliminare. Nello stesso tempo la frontiera, in quanto elemento essenziale del metalinguaggio spaziale nella descrizione della cultura, costituisce una violazione dello spazio che essa stessa delimita, ma che resta inaccessibile alla comprensione: uno spazio indispensabile alla semiotica della cultura, che non può essere semantizzato se non in funzione dei testi che lo tangono; infatti Lotman afferma che la «Proprietà basilare della frontiera è che violi la continuità dello spazio e che resti inaccessibile»13.
In qualsiasi modello culturale l’impostazione dell’intreccio – in termini narrativi – è una «lotta contro la costruzione del mondo»14, contro la disposizione dei confini e della strutturazione del sistema; in termini a-narrativi, invece, la frontiera può essere rafforzata per resistere all’irruzione dello spazio esterno in quello interno. Nei modelli complessi della cultura come nei testi, narrativi o non narrativi, la traiettoria di colui che Lotman definisce eroe interseca continuamente frontiere e limiti gerarchicamente e significativamente diversi.
La sistemazione del concetto di confine in La semiosfera ha permesso a Lotman di regolare e registrare le definizioni appena analizzate alla luce delle affermazioni di Bachtin e alle “serie” del sistema semiotico, «da un’angolazione che privilegi l’interazione, l’interconnessione, la rete e non le singole maglie che la compongono»15; anche qui la funzione del confine è parallela a quella biochimica, un filtro che traduce l’interno in esterno e viceversa:
Questa funzione invariante si realizza ai vari livelli in modo diverso. A livello della semiosfera essa determina la separazione da ciò che è estraneo, la filtrazione delle comunicazioni esterne, la loro traduzione nel linguaggio della semiosfera, e inoltre la trasformazione delle non comunicazioni esterne in comunicazioni, cioè nella semiotizzazione e trasformazione in informazione di ciò che arriva dall’esterno. Da questo punto di vista tutti i meccanismi di traduzione, che sono addetti ai contatti con l’esterno, appartengono alla struttura della semiosfera16.
In quanto elemento necessario della semiosfera, che ci interessa particolarmente per la sua funzione di traduzione secondo coordinate topologiche, quindi per la sua capacità di translazione, un’altra funzione del confine è quella di fungere da incubatore per una serie di processi culturali periferici; questi ultimi si direzionano verso il centro alla scopo di sostituire il nucleo culturale che, secondo Lotman, «non crea solo la sua organizzazione interna, ma anche un proprio tipo di disorganizzazione esterna. […] Le strutture esterne situate al di qua del confine semiotico sono dichiarate non strutture»17. Lo spazio semiotico è irregolare poiché in periferia, la regione più prossima ai confini, la struttura è amorfa, frammentata e caotica, dotata di meccanismi di autocostruzione mobili ed elastici, meno resistente ai processi dinamici; vi sono presenti strutture aperte e in formazione che si solidificano ed immobilizzano man mano che si procede, metaforicamente, verso il centro, spazio in cui hanno sede i sistemi semiotici dominanti. Grazie all’irregolarità lo spazio semiotico elabora, ingloba e digerisce nuove informazioni:
La semiosfera è attraversata più volte da confini interni, che specializzano le sue parti sotto l’aspetto semiotico. La trasmissione dell’informazione attraverso questi confini, il gioco fra strutture e sottostrutture diverse, le continue «irruzioni» semiotiche delle strutture in un territorio «estraneo» generano la produzione di informazioni nuove18.
I testi che patiscono la genesi di quelle manifestazioni, o quelli che ne ripercorrono la storia, sono analizzati in senso semiotico in quanto delineano precisamente le traiettorie delle trasformazioni culturali.
Chi percorre ed ha percorso gli spazi liminari ha generato testi documentari e letterari che sono serviti da veicolo di un’ideologia naturale, quasi fisiologica, con cui sono stati rimessi in discussione lo «Stato-nazione di origine europea e quindi l’egemonia culturale del modello politico e sociale eurocentrico»19. Una prospettiva tanto attenta al confine come spazio ma anche ai prodotti letterari scritti nello spazio del confine, soprattutto negli studi di traduttologia, vorrebbe dimostrare come i viaggianti si siano proposti quali veri e propri traduttori culturali in grado di arricchire la cultura delle nazioni anticamente dominanti coi frutti nati nelle nazioni anticamente dominate e viceversa, in un incessante, operoso e continuo processo tramite cui la letteratura mondiale si riusa, si ricita e si dimostra globalmente interdipendente.
Il confine quale limite misurato e designato a formare la frontiera è in stretta relazione con la formazione del concetto di Stato nazionale, quest’ultimo a sua volta basato su un modello territoriale comprensivo di tradizioni, canoni e lingua unitari e centralizzatori che, nel movimento espansivo della colonizzazione ottocentesca, creano le dialettiche centro/periferia, dentro/fuori e, non per ultimo, il binarismo lingua nazionale/lingua straniera:
[…] sono bene individuabili le due riconosciute concezioni di fondo: la nazione culturale e la nazione politica. In base alla prima, la nazione è prima di tutto comunanza di cultura, lingua, religione e in generale storia, oltre che territorio; essa è tipica della Germania e dell’Italia. In base alla seconda, la nazione è vocazione politica, posta per natura e, di conseguenza, manifestatasi nella storia comune di un gruppo umano, localizzato in un territorio politicamente organizzato; tale concezione sarebbe tipica della Francia […]. La differenza genererebbe due distinte fattispecie, secondo Seton-Watson (1981, p. 4): nel caso delle nazioni “politiche”, lo stato viene prima e la nazione dopo; nel caso delle nazioni culturali, prima viene la “nazione” e poi lo stato. Nel caso delle nazioni politiche, il peso riconosciuto alla lingua nella teoria politica sarebbe almeno tendenzialmente minore rispetto all’altro caso. Con le debite differenze e gradazioni, peraltro, la funzione riconosciuta alla lingua di accomunare nella cittadinanza o di escludere da essa è generalmente piuttosto evidente20.
La resistenza a delineare una mappa delle nazioni e delle nazionalità moderne è possibile sia dovuta alla difficoltà di considerare la frontiera o il confine come linea separatrice tra funzioni e concezioni binarie di lingua, usi e costumi, ed è la stessa che si poneva nel
passaggio dall’idea goethiana e romantica di Weltliteratur come superamento dei nazionalismi ma al tempo stesso ripiegamento sull’eurocentrismo, alla concezione di una letteratura mondiale che ha visto susseguirsi nel tempo diverse posizioni critiche nei confronti del “dominio” e colonialismo europeo. La questione liminale si pone in questo caso come paradigma di inclusione o esclusione canonica delle diverse produzioni letterarie del mondo ma anche come confronto ideale ed auspicabile fra fenomeni letterari (come il modernismo) troppo a lungo interpretati sotto il ristretto cono di luce delle letterature europee21.
L’insistenza, anzi, sullo studio delle frontiere, geograficamente e culturalmente intese, ha riportato all’attenzione il rapporto tra appartenenze amministrative e storiche capaci di condizionare i prodotti letterari e i sistemi in cui questi si innestano e forse tali insistenze stanno proprio a dimostrare la crisi del concetto di Stato nazionale in un periodo storico in cui le barriere e i confini vengono paradossalmente ad assumere un significato, metaforicamente e realmente, escludente. In questo contesto, o meglio nei confini di tale contesto, sono proprio i viaggianti, i traduttori culturali, e gli scrittori che varcano più volte la frontiera, a considerarla causa della loro scrittura; è per loro un territorio grazie al quale descrivono, sebbene inconsapevolmente, la propria cultura personale. Nella lingua e nel testo la cultura che li costituisce si basa sulle culture confinanti, è originata e nutrita da quelle, che la rendono unica ma mescolata:
L’atto di varcare una delimitazione territoriale si traduce in un nuovo percorso identitario che sfugge alla “dicotomia assimilazione/esclusione”, per farsi espressione di un “meticciato” se non di un cosmopolitismo progressista, dal basso, il quale, lungi dal vincolarsi ad un singolo progetto nazionale o culturale attinge da fonti spazialmente e culturalmente plurali22.
Ciò che odiernamente potremmo definire col termine di transnazionalismo prevede un cambiamento di prospettiva anche nel considerare l’identità nazionale, o le componenti identitarie che la generano, come un fenomeno mobile e misto all’interno di spazi costituiti da confini continuamente e incessantemente varcati da transduttori culturali.
Quello della letteratura nazionale e dei rapporti tra elementi che formano una nazione, tra cui sappiamo emergere spesso la lingua e la letteratura, è un problema con una lunghissima storia che si ripercorre in questo contesto per brevi accenni funzionali al discorso; è un problema sul quale si discute spesso e con ottime suggestioni e fondati pareri risolutivi che, negli orientamenti moderni e contemporanei, incontrano comunque il nodo problematico della frontiera, da districare usando una pluralità di strumenti scientifici.
In tale direzione sembra andare la premessa delle importanti teorie di Bhabha secondo cui anche «lo studio della letteratura mondiale potrebbe essere lo studio del modo in cui le culture si riconoscono attraverso le loro proiezioni di ̒alterità’»23, laddove l’alterità può essere colta solo grazie alla funzione del confine interposto tra gli spazi metaforici che caratterizzano la cultura di una nazione.
Il rapporto strettissimo tra identità culturale e identità nazionale, laddove l’espressione culturale viene esemplificata con la lingua e i prodotti letterari e la nazione con una forma valoriale di singolarità sociale e politica, dovrebbe essere allentato superando il problema già posto da Balibar:
e se la nozione di identità culturale non fosse oggi nient’altro che la metafora dell’identità nazionale? […] Il che non vuol dire che tale identità non sia voluta o richiesta dagli individui che riconoscono una nazione come «la propria» […] ma piuttosto che continui a dover fare i conti in permanenza con le sue proprie contraddizioni […] e che le superi soltanto proiettandosi nell’elemento dell’identità culturale: la quale non sarebbe altro che un «doppio» della nazione storica situato accanto ad essa […]. Si spiegherebbe quindi che la cultura […] sia praticamente non circoscrivibile come «orizzonte» semantico di tutti i discorsi che tentano di esprimere l’identità in un mondo di nazioni […]. Si spiegherebbe anche che la stessa parola «cultura» […] abbia acquisito anche in filosofia la funzione strategica che è oggi la sua nel momento in cui la forma nazione ha avuto la meglio definitivamente su altre forme di Stato in Europa e ha cominciato a generalizzarsi nel mondo. Da quel momento ogni appropriazione collettiva dei saperi ha dovuto essere pensata come «cultura»: sia come istituzione di un ordine culturale, sia come contestazione dell’ordine esistente da parte della cultura. E ogni identità ha dovuto essere fondata in una origine culturale passata, o proiettata in un avvenire della cultura che si continua a interrogare alla luce delle origini24.
Problema, quest’ultimo, che concerne identità ed identificazione nazionale ma che può essere superato proprio operando sulle frontiere e sui confini, democratizzandoli in quanto «Toute réflexion sur le rapports entre politique et la mondialisation nous place devant la possibilité d’un jeu de mots qui renvoie aux différentes acceptions du mot «frontière»»25.
Democratizzare le frontiere significa resistere alla globalizzazione commerciale e a quella che impone conflitti tra spazi sociali antagonisti – come i cosiddetti nord e sud del mondo – con conseguente formazione di culture ulteriormente alternative e radicali tra di esse incompatibili, poiché esse stesse spazio non democratico della democrazia, istituzioni-limite in cui anche lo stato democratico diventa discrezionale:
Elles sont la condition absolutement non démocratique, ou «discrétionnaire», des insitutions démocratiques. Et c’est comme telles que, le plus souvent, elles sont acceptées, voire sanctifiées et intériorisées. Démocratiser la frontière, ce serait donc démocratiser certaines des conditions non démocratiques de la démocratie elle-même26.
Seguendo il movimento centripeto già teorizzato da Lotman, anche secondo Balibar le frontiere debbono essere portate al centro dello spazio politico e sociale, nel dominio culturale che vive la nostra contemporaneità. Ciò serve da indicatore di quanto, pur analizzando con focalizzazione interna e interiorizzata un’idea culturale, usando prospettive diverse da quella storico-letteraria – nel caso di Balibar l’analisi politico-sociale –, si debba continuamente tornare a fare i conti con la nozione di frontiera e confine; di come sia opportuno studiare anche eticamente quanto incidano nel mondo contemporaneo i movimenti centripeti e centrifughi che fisiologicamente attraversano quei limiti, riversandosi al centro del sistema semiotico confinante, non prima di essersi trasformati, arricchiti e mescolati nello spazio liminare. Non si può prescindere dall’analisi dello statuto e della funzione dei limiti neanche nelle discipline umanistiche, proprio laddove c’è sempre stato bisogno di delimitare i prodotti letterari e le idee scaturite da una determinata lingua e cultura o, al contrario, di delimitare gli spazi da dove scaturivano quei prodotti, tanto che le stesse materie di studio, con le altrettante numerose classificazioni attribuite loro, si interrogano riguardo ai confini del proprio spazio d’indagine27.
- Cfr. T. Gomez, Préface, in Hommes de science et intellectuels européens en Amérique latine, a cura di J. Farré, I. Olivares, F. Martinez, Paris, Éditions Le Manuscript, 2005, p. 14. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 2001, p. 155. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, p. 253. ↵
- «Così, se Bachtin ha aperto la strada, Lotman ha usufruito di strumenti che l’altro non ha avuto a disposizione o che ha potuto conoscere soltanto negli ultimi anni della sua vita». Cfr. S. Salvestroni, Introduzione, in J. M. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, p. 19. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, op. cit.; J. M. Lotman, Il problema di una tipologia della cultura, in Il sistema di segni e lo strutturalismo sovietico, a cura di R. Faccani, U. Eco, Milano, Bompiani, 1969; J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Ricerche semiotiche, Torino, Einaudi, 1973. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, Il problema dello spazio artistico in Gogol’, in J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, op. cit., pp. 193-248. Cfr. l’analisi su L’infinito di Leopardi, in R. Faccani, Prefazione, in J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, op. cit., pp. 18-21, per cui la siepe è la frontiera tra lo spazio interno che accoglie quello esterno, e viceversa. ↵
- Lo ricorda Remo Faccani, nella Prefazione cit., p. 29, legando la definizione all’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. ↵
- Ivi, p. 30. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, Il metalinguaggio delle descrizioni tipologiche della cultura, in J. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, op. cit., p. 147. ↵
- Ivi, p. 151. ↵
- Ivi, p. 152. Relativamente ai sottotesti strutturali del mondo, Lotman specifica che questi includono le categorie della valutazione e perciò contribuiscono alla gerarchia assiologica della classificazione generale esprimendosi sempre secondo orientamenti spaziali: «Se un tipo di partizione riproduce la costruzione del mondo, allora i concetti di “sopra-sotto”, “destro-sinistro”, “concentrico-eccentrico”, “inclusivo-esclusivo” (cioè “includente me – escludente me”) modellizzano la valutazione». Ibidem. ↵
- Ivi, p. 155. ↵
- Ivi, p. 168. ↵
- Ibidem. ↵
- Cfr. S. Salvestroni, Introduzione, in J. M. Lotman, La semiosfera, 1985, op. cit., p. 27. ↵
- Cfr. J. M. Lotman, La semiosfera, op. cit., p. 61. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 65. ↵
- Cfr. P. Zaccaria, BorderStudies, in Dizionario degli studi culturali, a cura di M. Cometa, Roma, Meltemi, 2004, p. 90. ↵
- Cfr. I. Putzu, Lingua e letteratura nella formazione degli stati nazionali in Europa e nel Mediterraneo: aspetti di quadro, in Lingue, letterature, nazioni. Centri e periferie tra Europa e Mediterraneo, a cura di G. Mazzon, I. Putzu, Milano, Franco Angeli Editore, 2012, pp. 13-45: cit. a p. 23. ↵
- Cfr. M. Guglielmi, M. Pala, Introduzione, cit., p. 12. ↵
- Cfr. S. Salvatici, Introduzione, Confini, costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, a cura di S. Salvatici, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 17. ↵
- Cfr. H. Bhabha, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 26. ↵
- Cfr. É. Balibar, Cultura e identità, in «Problemi del Socialismo», Identità culturali, n. 3, 1991, pp. 13-34; la citazione è alle pp. 19-20, corsivi nel testo. ↵
- Cfr. É. Balibar, Frontières du monde, frontières de la politique, in Id., Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple, Paris, La Découverte, 2001, pp. 163-81: cit. a p. 163. ↵
- Ivi, p. 175. ↵
- Questo contributo presenta gli strumenti metodologici e rielabora schematicamente il contenuto della mia Tesi di Dottorato intitolata Un oceano come confine, discussa nel marzo del 2014 presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. ↵
(fasc. 2, 25 aprile 2015)