Tra impegno sociale e ricerca letteraria. Breve viaggio nella poesia di Erika Martínez

Author di Matteo Lefèvre

Nel corso della seconda edizione della manifestazione “L’Europa in versi”, tenutasi a Roma lo scorso 21 marzo nell’ambito delle celebrazioni per la Giornata Mondiale della Poesia, con il patrocinio, tra gli altri enti, della Casa delle Letterature, dell’Instituto Cervantes di Roma e degli Istituti di Cultura dei diversi paesi europei intervenuti, abbiamo avuto occasione di conoscere ed accompagnare la giovane poeta spagnola Erika Martínez.

Con Erika siamo senza dubbio al cospetto di una delle voci più interessanti dell’ultima poesia iberica, di una scrittrice che, secondo la migliore tradizione del suo paese, da sempre alterna l’attività propriamente creativa con quella critica, che per altro appare spesso in controluce, tra versi e discorsi differenti, per approccio e rigore analitico, in buona parte della sua lirica. Come nel caso di molti poetas profesores del passato, dunque, la materia poetica e quella critica si intersecano spesso, generando un connubio che tuttavia non stride, non isterilisce la libera espressione del pensiero poetico; al contrario, proprio la consapevolezza intellettuale dà vita a una lirica fortemente “ragionata”, mai fortuita o impressionistica, tantomeno gridata, sempre ripensata alla luce di un’esperienza innervata di coscienza storica, sociale, culturale.

Nata a Jaén, in Andalusia, nel 1979, Erika Martínez studia e insegna da alcuni anni presso l’Università di Granada, dove ha conseguito anche un dottorato in Filologia ispanica e dove porta avanti diversi progetti di ricerca dedicati alla letteratura spagnola e ispanoamericana contemporanea. Frutto di questa attività critica sono, ad esempio, oltre a saggi e articoli sparsi, i volumi Entre bambalinas: poetas argentinas tras la última dictadura (Iberoamericana-Vervuert, 2013) e Queridos todos: el intercambio epistolar transatlántico entre escritores hispanoamericanos y españoles del siglo XX (Peter Lang, 2013), nonché l’interessante Antología de la poesía española en la segunda mitad del siglo XX (Universidad Autónoma de México, 2011), che offre uno sguardo non comune sulla produzione lirica dell’ultimo Novecento. Come poeta, con la sua prima raccolta di versi, Color carne (Pre-Textos, 2009), ha ottenuto il Premio Radio Nacional de España per la poesia, mentre il suo secondo e più noto libro, El falso techo (2013), anch’esso pubblicato dalla valenciana Pre-Textos, è stato inserito tra i cinque migliori libri di poesia selezionati dalla rivista «El Cultural» e ha ottenuto una menzione al prestigioso Premio de la Crítica. Per la stessa casa editrice ha inoltre pubblicato anche un curioso libro di aforismi, Lenguaraz (2011).

Come si evince in parte dai suoi interessi di studio e come vedremo dalla scelta di testi che proponiamo di seguito e che cercano di offrire una panoramica non parziale sulla sua attività letteraria, quella di Erika Martínez è una poesia indubbiamente comprometida, “impegnata”, la cui vocazione tuttavia non aderisce a un credo politico definito, a un’ideologia o, peggio, a una moda letteraria ben identificabile. La sua voce in questo senso è libera e fresca, mai ingessata o annunciata: i suoi versi si avvicinano con cautela al lettore, lo portano lentamente dentro un discorso il cui esito non è mai del tutto prevedibile e spesso sorprende per lucidità e acume di pensiero. In molti frangenti questa lirica è stringente, avvolgente, in altri sembra ricorrere invece all’espediente felice dell’aprosdòketon, con explicit illuminanti e inattesi che sparigliano la riflessione, che sbaragliano il senso comune e le idee acquisite (in poesia e “in società”).

In queste prime e promettenti opere la vocazione della Martínez ci appare senz’altro civile, nell’accezione alta del termine, e si manifesta in una scrittura che è, sì, lucidità di ragionamento e testimonianza, concretezza e denuncia, ma anche, come racconteremo più avanti, continua ricerca di stile, lavorìo sul linguaggio e sulle sue possibilità, sulla tensione che si accumula nel verso lungo o che si scarica di getto nella brevità dei testi più icastici. Non è un caso, in questa prospettiva, che la scrittrice andalusa sia anche autrice di aforismi, genere “breve” ma gnomico per eccellenza, immediato ma al contempo ricco di suggestioni euristiche e possibilità interpretative.

La sua attività letteraria, come dicevamo, si accompagna da sempre a quella ermeneutica e critica in ambito nazionale e internazionale, e nell’ottica di una costante presenza sulla scena culturale va letta anche la sua regolare collaborazione con il quotidiano «Granada Hoy». È l’ennesima riprova di come in terra di Spagna i poeti, e gli scrittori in genere, abbiano rispetto all’Italia uno spazio maggiore sul piano mediatico (non solo locale) e siano in prima linea rispetto alle questioni più urgenti del presente. Da qui la possibilità di un “impegno” in senso moderno, scevro da un incasellamento dottrinale o da adesioni totalizzanti a questa o quella poetica, ma ugualmente vivo e consapevole: se c’è una cosa che si nota nel mondo della poesia iberica è proprio la grande dinamicità e la pluralità di voci tutt’altro che scontate o uniformi, una voglia di esserci, così come la coscienza che lo scrittore ha dei doveri e dei debiti nei confronti della collettività. In autori come Erika Martínez, nella sua parabola letteraria e professionale, di fatto sembra riflettersi ancora oggi l’ideale più profondo e autentico della poesía social del secolo scorso (e in realtà di ogni tempo), una poesia che cerca sempre una sponda nella storia e nell’attualità, che fa del mondo e delle sue storture e ingiustizie un terreno di serrato confronto morale e culturale, prima ancora che politico, che continua a credere, forse anche sbagliando, nel fatto che la letteratura possa contribuire a suo modo all’emancipazione della società tutta. E accanto ai contenuti, naturalmente, si porta avanti anche una “revisione” dello stile, delle possibilità stesse offerte dalle sue architetture.

Quella di cui stiamo parlando è una poesia che analizza e squaderna il Sistema dall’interno per denunciarne i margini – culturali e retorici − di implosione e credibilità. Questa è la sua sfida, ed è una sfida che non si adagia sugli allori del “politicamente corretto” – e del suo prevedibile linguaggio − né ammicca troppo scopertamente a sinistra, come ha invece fatto spesso la poesia sociale del passato: sebbene da molte liriche si possa intuire l’impegno dell’autrice in direzione di battaglie da sempre condivise dal socialismo spagnolo – si pensi alla tematica “femminile”, alle liriche dedicate all’immigrazione o alla polemica labour –, è altresì vero che la poesia non appare mai organica all’“ortodossia”, ma piuttosto si mostra complice dell’asprezza di una situazione o di un ragionamento e comunque è sempre pronta al colpo a sorpresa, al rovescio del gioco e del pensiero facile.

Non mancano effettivamente tra i versi della Martínez anche lampi di cinismo e disincanto – in questo senso la produzione aforistica ne è una riprova chiarissima −, rabbia più che solidarietà sociale, sarcasmo più che ironia, e gli obiettivi della sua invettiva appaiono quelle stesse “categorie a rischio” e quegli stessi slogan celebrati dai monotoni santoni della catechesi progressista. Si vedano, in quest’ottica, i testi più politici di El falso techo, da La casa encima a Protección oficial: qui la polemica sociale si esercita a 360°, non risparmia nessuno, nel passato più remoto o anche più recente, quello della Spagna post-franchista, democratica e pluralista. E in un certo qual modo anche i testi in cui maggiormente traspare la componente autobiografica, quelli ad esempio di argomento memoriale e sentimentale, non fanno sconti (né alla poeta stessa né ai suoi compagni di viaggio): non c’è spazio per l’euforia o l’elegia tout court, tantomeno per la rivendicazione fiera o “piagnona”; tutto è filtrato da una sana disillusione storica e personale – a volte di genere o addirittura di classe – che non cede mai alla tentazione monotematica o monocromatica. Il tutto, lo ripetiamo, accompagnato da una costante ricerca formale che si esercita sia sul versante strettamente materico e “quantitativo” della poesia – si va da composizioni elaborate e dall’evidente cursus prosastico a testi più brevi e ritmicamente scanditi, fino all’estrema sintesi dell’epigramma e dell’aforisma − sia sul fronte del linguaggio poetico, della forma e sostanza dell’espressione lirica, che recupera e miscela tanto la compattezza di un lessico sorvegliato quanto i lacerti del discorso contemporaneo, non escludendo né il registro colloquiale né frammenti di terminologia specialistica, usata, quest’ultima, per lo più in chiave antifrastica. In effetti, per concludere, proprio il linguaggio denso e molteplice, prosaico e mescidato, mette in luce l’originalità e la vivacità della riflessione lirica di Erika Martínez, che nonostante la giovane età esibisce una lucidità e una maturità di scrittura invidiabile, un volontarismo intellettuale che non è pompa o tromba, bensì acceso entusiasmo, alla greca, un coinvolgimento radicale che in ultima analisi sembra credere ancora nella forza della poesia; una forza che forse non raggiunge più, e magari non ha mai raggiunto, il grande pubblico, ma che ancora fa sentire tutta la coerenza e la purezza di una voce e di un canto appassionati.

Prima di presentare una breve antologia di testi, riportiamo di seguito anche una breve intervista realizzata con l’autrice in occasione della manifestazione ricordata all’inizio di questo scritto e che cerca di condensare in un rapido ma meditato botta e risposta con l’interprete alcune ragioni essenziali della sua vocazione e della sua poetica.

M. L.: Leggendo la tua poesia, la prima cosa che colpisce è la chiarezza, l’autenticità di ciò che scrivi. È come se i tuoi pensieri, per quanto filtrati dal ritmo, dal verso e dalle strategie stilistiche tipiche della poesia, prendessero forma in un incontro immediato e spontaneo – un tempo si sarebbe parlato di “ispirazione”… – nel momento in cui ti imbatti nei temi e nelle situazioni che affronti. Allo stesso tempo, nelle tue liriche si nota anche una progressiva e profonda presa di coscienza rispetto a ciò che descrivi e commenti, come se rimuginassi certi argomenti varie volte prima di dare ad essi una consistenza concreta a livello di immagine e parola. Puoi dirci qualcosa in più sull’origine della tua creazione poetica, su come e da che cosa nascono realmente i tuoi versi?

E. M.: Mi interessa sempre la chiarezza poetica purché risulti scomoda: per il tono (ironico, distante, grottesco), l’atmosfera (fantastica, sinistra, surreale) o la voce. In quest’ultimo caso, penso per esempio che la crudezza lirica possa essere un modo fertile di affrontare il reale, una “maniera” che, lungi dal neutralizzare conflitti intimi o collettivi, sappia moltiplicare le risonanze. Mi interessa una sorta di intemperiemorale. Aderire a ciò che è concreto, a ciò che è corporeo, è a volte il miglior modo di risvegliarne la trascendenza. Rispetto al processo di scrittura vero e proprio, credo che la poesia lavori con ossessioni che vanno articolandosi nell’inconscio, a livello di discorso e di immaginario, finché si impongono su chi scrive. Sento che le poesie hanno un proprio passato nella mia coscienza, un passato che conflagra durante l’attività di scrittura in maniera febbrile e improvvisa. Forse è da ciò che scaturisce la sensazione di immediatezza che producono.

M. L.: Come critico, se dovessi dare una definizione d’insieme per la tua poesia, o per lo meno per quella che conosco e che ho tradotto, propenderei per utilizzare un aggettivo magari passato di moda, ma piuttosto fortunato ed esplicito in seno alla tradizione ispanica: comprometida, cioè “impegnata”. Naturalmente, non mi riferisco a un impegno ideologico preciso e ortodosso – la tua, senz’altro, non è una poesia “a tesi” −, tuttavia è abbastanza evidente, nei tuoi versi, uno sguardo e un approccio alla realtà che investe questioni politiche, sociali e culturali molto attuali e pressanti. In proposito, in primis vorrei sapere se sei d’accordo con questa interpretazione “civile” della tua poesia e se desideri aggiungere qualcosa al riguardo. In secondo luogo, credi che la poesia possa ancora oggi avere un qualche ruolo nello sviluppo di una presa di coscienza pubblica o privata nel lettore, come auspicavano, ad esempio, gli autori della poesía social spagnola degli anni Sessanta?

E. M.: In effetti, una buona parte della mia opera esibisce in modo esplicito una propria “politicità”. Ovviamente, se accettiamo che la politicità del XXI secolo, per lo meno in poesia, è refrattaria al messianismo ed è senza dubbio priva di pretese totalizzanti. Credo infatti che la poesia politica oggi privilegi l’instabilità e si ribelli contro una sorta di chiusura, quando non proprio una “clausura”, del senso, che minaccia costantemente una fuga, come se la sostanza, la direzione ideologica del verso fosse sempre in movimento e dunque non definibile in modo perentorio, statuario. In un discorso del genere, sì, mi ritrovo. Ad ogni modo, sono convinta che dei versi d’amore o una lirica sulla radiazione sonora dell’universo hanno lamedesima capacità di “cambiare il mondo” di una poesia sullo sciopero generale. La buona letteratura è sempre, a suo modo, contestataria.

M. L.: In molti frangenti la tua poesia si mostra vicina alla prosa: sembri spesso avere bisogno di uno spazio più vasto e più lungo del verso tradizionale per l’elaborazione del tuo discorso poetico, per dare la giusta sfumatura agli argomenti che tratti e raggiungere la chiarezza di ragionamento a cui aspiri. Nella poesia contemporanea questa vicinanza, questa sovrapponibilità tra verso e prosa non è di certo nuova; puoi dirci qualcosa in più su questa tendenza − quasi una tentazione − verso la prosa che si nota in molte tue poesie? Da dove nasce, a che si deve e a che mira realmente?

E. M.: Mi hai fatto pensare a una poesia che ho eliminato dal mio ultimo libro e che finiva così: «Essere prosaica / è l’unica maniera che conosco / di sopravvivere». Detto questo, mi interessa portare al massimo livello le modalità con cui la liricità e la speculazione propri del linguaggio possono generare tensioni all’interno di un componimento. Queste tensioni fanno sì che, alle volte, io scriva delle poesie in verso di aspetto notevolmente secco e prosastico, mentre magari il lirismo invade altri testi che ho scritto in forma di versicolo o direttamente in prosa. D’altra parte, e in modo assolutamente capriccioso, sento che c’è un dolore specifico nella liricità che a tratti cerco di contenere in un esercizio ascetico di rinuncia, con la speranza che dietro a questa rinuncia si percepisca la forza di ciò che contiene, tutto ciò che sta per soverchiarci.

M. L.: Un’ultima domanda legata meno all’ermeneutica vera e propria e più alla semplice curiosità del critico. Una specie di richiesta di coming out, come si dice oggi. Quali sono i tuoi poeti preferiti (non solo spagnoli) classici e contemporanei, e perché? Nella tua poesia menzioni Pasolini, che probabilmente si sentirebbe attratto dal tuo modo di scrivere e descrivere la realtà: qual è il tuo rapporto con la poesia italiana? A parte Pasolini, conosci e apprezzi nello specifico qualche poeta della nostra tradizione lirica o perfino degli ultimi decenni?

E. M.: Sorvolando sugli spagnoli, ho letto molto Pasolini nell’adolescenza, ma il poeta italiano del Novecento che mi è rimasto più impresso è Eugenio Montale, per il suo modo di andare dalla materialità alla metafisica attraverso quelle piccole epifanie che si fanno spazio nella privazione e nella sconfitta, per il modo di scrivere intenso e concentrato. Ad ogni modo, spesso mi piacciono poeti anche per ragioni diametralmente opposte: che so, a volte per la loro scrittura libera e dirompente, smisurata, quasi incontenibile. Penso, ad esempio, a certe liriche di Amelia Rosselli. Credo che ci sia un tempo per Pavese e uno per Ungaretti; mi piacciono entrambi, ciascuno a suo modo. Al di là dei classici novecenteschi, negli ultimi anni ho avuto occasione di avvicinarmi anche alla poesia di Giorgio Caproni e Giovanni Raboni, che ho potuto apprezzare grazie alle stupende traduzioni spagnole operate dal poeta Juan Carlos Reche.

Testi (Selezione e traduzione di Matteo Lefèvre)

Da El falso techo, Pre-Textos, 2013

La casa encima

Tantos siglos removiendo esta tierra
que atravesó el ganado
y alimentó al ganado y a los hombres
que regaron esta tierra
con el curso negro de su sangre
– la sangre cambia de color
cuando sale del cuerpo -.
Tantos siglos alineando ladrillos,
aquí hubo un establo
sobre el que se construyó una iglesia
sobre la que se construyó una fábrica
sobre la que se construyó un cementerio
sobre el que se construyó un edificio
de protección oficial.
Tantas mujeres fregando sus baldosas,
pariendo en sus baldosas,
escondiendo la mierda debajo de las baldosas
que pisaron sus hijos ebrios
y sus sobrios maridos
que trabajaron y fornicaron
por el bien de un país en el que no creían.
Tantos siglos para que yo,
miembro de una generación prescindible,
pierda la fe en la emancipación,
mire el techo de mi dormitorio
y se me venga la casa
encima.

La casa addosso

Tanti secoli smuovendo questa terra
che ha solcato il bestiame
e ha alimentato il bestiame e gli uomini
che hanno irrigato questa terra
con il corso nero del loro sangue
il sangue cambia colore
quando fuoriesce dal corpo −.
Tanti secoli allineando mattoni,
qui ci fu una stalla
sopra cui fu costruita una chiesa
sopra cui fu costruita una fabbrica
sopra cui fu costruito un cimitero
sopra cui fu costruito un edificio
delle case popolari.
Tante donne pulendo le sue piastrelle,
partorendo sulle sue piastrelle,
nascondendo la merda sotto le piastrelle

che calpestarono i loro figli ebbri
e i loro sobri mariti
che hanno lavorato e fornicato
per il bene di un paese in cui non credevano.
Tanti secoli perché io,
membro di una generazione prescindibile,
perda la fede nell’emancipazione,
guardi il tetto della mia camera
e mi cada la casa
addosso.

Carga y descarga
Los técnicos de equipaje caminan erguidos, a cámara lenta, con la figura desdibujada por el calor de los motores. Llevan cascos amarillos para aislarse de un estruendo que tampoco se escucha dentro del avión: película muda a ambos lados de la ventanilla.

Los técnicos de equipaje vienen de Bolivia, Marruecos, Zambia. Cargan, descargan maletas que han hecho tantos kilómetros como ellos pero mucho más rápido. Las maletas no necesitan pasaportes, visados, asilo: tienen código de barras.

Los técnicos de equipaje se fajan la cintura como un luchador de sumo antes de salir al ring. Son hermosos como eran hermosos los proletarios de Pasolini, que los imaginó hedonistas con un clasismo a su manera. Pasolini al que escupieron, postraron, lincharon, Pasolini que también era hermoso a su manera.

Los técnicos de equipaje visten monos azules aunque la empresa que los contrata cultiva el respeto a la diferencia. Cuando salen llevan todos los mismos vaqueros, zapatillas, camisetas estampadas. El capitalismo es un uniforme.

Los técnicos de equipaje son muy feos porque lo perdieron todo y viajaron para comer basura, para cargar, descargar maletas hasta volverse feos. Miran a los pasajeros que los miran a través de la ventanilla y piensan: qué hermosos, qué feos son mientras trasladan nuestras maletas con souvenires procedentes de Bolivia, Marruecos, Zambia, donde fuimos a hacer juegos de supervivencia.

Los técnicos de equipaje saben que cuatro maletas pesan igual que el cuerpo de un técnico de equipaje.

Carico e scarico

Gli addetti ai bagagli camminano eretti, al rallentatore, con la sagoma indistinta per il calore dei motori. Portano caschi gialli per isolarsi da un frastuono che neanche si sente da dentro l’aereo: film muto da entrambi i lati del finestrino.

Gli addetti ai bagagli vengono da Bolivia, Marocco, Zambia. Caricano, scaricano valigie che hanno fatto tanti chilometri come loro ma molto più in fretta. Le valigie non hanno bisogno di passaporti, visti, asilo: hanno il codice a barre.

Gli addetti ai bagagli si fasciano la cintola come un lottatore di sumo prima di salire sul ring. Sono belli come erano belli i proletari di Pasolini, che li immaginò edonisti con un classismo a modo suo. Pasolini che fu sputato, abbattuto, linciato, Pasolini che pure era bello a modo suo.

Gli addetti ai bagagli vestono tute azzurre sebbene la ditta che li contratta coltivi il rispetto delle differenze. Quando escono portano tutti gli stessi jeans, scarpe e magliette. Il capitalismo è un’uniforme.

Gli addetti ai bagagli sono piuttosto brutti perché hanno perso tutto e viaggiato per mangiare spazzatura, per caricare, scaricare valigie fino a diventare brutti. Guardano i passeggeri che li guardano attraverso il finestrino e pensano: che belli, che brutti sono mentre trasportano le nostre valigie con souvenir provenienti da Bolivia, Marocco, Zambia, dove siamo stati a fare corsi di sopravvivenza.

Gli addetti ai bagagli sanno che quattro valigie pesano come il corpo di un addetto ai bagagli.

Turismo

Aterricé en Etiopía y fui a hacerme la pedicura. Me lo ofrecieron y acepté. Para que nadie se ofendiera. Permitiría cosas atroces con tal de que nadie se ofendiera.

Permití que Betty se arrodillara, ese era su nombre, me dijo. Quién se llama así en Etiopía. Permití que Betty se arrodillara y me limpiara el talón y el tobillo y la planta del pie y los dedos y también las uñas, permití que limase todo lo feo que había en mí, que se arrodillara.

Detesto pintarme las uñas. Pero no le pedí que lo dejara: le pedí que escogiera un color. Ponme tu favorito. Como si ceder la iniciativa rompiera algo la relación de Betty conmigo. Eligió el rosa chicle de mi camisa.

Acepto que me sirvan cerveza, que cultiven lo que como y cosan lo que visto: acepté que me hicieran la pedicura. Tan solo hay una diferencia simbólica. Eso pensé, simbólica. Y dejé a Betty que siguiera.

Turismo

Sono atterrato in Etiopia e sono andato a farmi il pedicure. Me lo hanno proposto e ho accettato. Perché nessuno si offendesse. Permetterei cose atroci purché nessuno si offendesse.

Ho permesso che Betty si inginocchiasse, questo era il suo nome, mi disse. Chi si chiama così in Etiopia. Ho permesso che Betty si inginocchiasse e mi pulisse il tallone e la caviglia e la pianta del piede e le dita e anche le unghie, ho permesso che limasse via tutto il brutto che era in me, che si inginocchiasse.

Detesto mettermi lo smalto. Ma non le ho chiesto di non farlo: le ho chiesto di scegliere un colore. Mettimi il tuo preferito. Come se lasciare l’iniziativa rompesse in qualche modo la relazione di Betty con me. Ha scelto il rosa shocking della mia camicia.

Accetto che mi servano la birra, che coltivino ciò che mangio e cuciano ciò che indosso: ho accettato che mi facessero il pedicure. C’è giusto una differenza simbolica. Questo ho pensato, simbolica. E ho lasciato che Betty continuasse.

Porque no alcanzo

El número que me apuntaste sobre la [mano
se desdibuja como lo importante
en el avispero de los conceptos.

Esta es mi tara: uso muletas
para llegar a los objetos
que todo lo contienen.

Mi abuela con alzhéimer lo sabía.
De repente me acuerdo de aquel hombre
tan preocupado por comprender
que se hizo lobotomizar.

Yo supe lo que era importante.
¿Y dónde estás ahora
que tengo que pedírtelo?
Estoy cansada. Ven,
alcánzame esa silla.

Perché non ci riesco

Il numero che mi hai annotato sulla mano

si sfoca come ciò che è importante
nel vespaio delle idee.

Questa è la mia tara: uso stampelle
per giungere agli oggetti
che tutto contengono.

Mia nonna con l’alzheimer lo sapeva.
D’improvviso mi ricordo di quell’uomo
tanto preoccupato di comprendere
che si fece lobotomizzare.

Io ho saputo ciò che era significativo.
E dove sei adesso
che devo chiedertelo?
Sono stanca. Vieni,
avvicinami la sedia.

Protección oficial

Me subvencionaron hasta hacer de mí
un producto ejemplar
de la socialdemocracia,
tuétano de infancia con monjas,
contestona sin decibelios,
curiosa, voluntarista,
mujer que asoma la cabeza,
soy un monstruo.

Protezione ufficiale

Mi hanno sovvenzionato fino a fare di me
un prodotto esemplare
della socialdemocrazia,
midollo da infanzia dalle monache,
replicona senza decibel,
curiosa, volontarista,
donna che alza la cresta,
sono un mostro.

El hombre del falso techo

Un hombre horizontal
habita el falso techo de mi casa.
Cuando recorro el pasillo
repta sobre mí
como un soldado a tierra
y repite con acento extranjero
cada palabra que digo.
Atrincherado en la altura,
desgasta el yeso oscuro
con su runrún de termita.
Se acomoda, gana terreno,
consigue que sea yo
quien se esconde.

L’uomo del falso tetto

Un uomo orizzontale
abita il falso tetto di casa mia.
Quando passo per il corridoio
striscia al di sopra di me
come un soldato a terra
e ripete con accento straniero
ogni parola che dico.
Trincerato nell’altezza,
consuma il gesso scuro
con il suo ronzio di termite.
Si mette comodo, guadagna terreno,
ottiene che sia io
chi si nasconde.

Lo sublime

Observo con desconfianza la máquina de productos lácteos enriquecidos con fibra. Me hipnotiza su armazón inaccesible, sus entrañas de frío multicolor.

Nunca me ha hecho falta palparme los bolsillos para saber que estaban vacíos. Me palpo los bolsillos.

Vigilo la máquina, su realidad de efigie a la espera de algo. Ni un solo parpadeo. Pero mi sed.

Toco su cristal como se toca la ventanilla de un coche con el motor encendido, a punto de marcharse con nuestras huellas sobre el rostro del conductor.

No me bastaría con poseer una sola de sus dosis. Quiero ser ella misma, forma reciclada, materia inerte expendedora de materia.

Il sublime

Osservo con sospetto la macchina di prodotti lattei arricchiti con fibra. Mi ipnotizza il suo assemblaggio inaccessibile, le sue viscere di freddo multicolore.

Non ho mai avuto bisogno di palparmi le tasche per sapere che erano vuote. Mi palpo le tasche.

Sorveglio la macchina, la su realtà di effigie in attesa di qualcosa. Neanche un solo lampo. Ma la mia sete.

Tocco il suo vetro come si tocca il finestrino di una macchina con il motore acceso pronta a partire con le nostre impronte sopra il volto del conducente.

Non mi accontenterei di possedere una sola delle sue dosi. Voglio essere lei stessa, forma riciclata, materia inerte distributrice di materia.

Decir

Las palabras se me resisten
como el viento rojo a las banderas,
como las banderas rojas al viento,
como tú la primera vez que te negaste
y el semáforo no cambiaba
y pasó un metro por debajo.

Tiemblan el suelo que piso
y las ramas contra el cielo.
Las palabras que no digo tiemblan.

Escribir es hacerle cosquillas
a las raíces de las cosas.

Dire

Le parole mi fanno resistenza
come il vento rosso alle bandiere,
come le bandiere rosse al vento,
come te la prima volta che hai detto no
e il semaforo non scattava
e passò la metro lì sotto.

Tremano il suolo che calco
e i rami contro il cielo.
Le parole che non dico tremano.

Scrivere è fare il solletico
alle radici delle cose.

Da Lenguaraz

Aforismi

Rencorosa y nostálgica, la civilización construye una pequeña ciudad dentro de cada bosque y un pequeño bosque dentro de cada ciudad.

Rancorosa e nostalgica, la civiltà costruisce una piccola città dentro ogni bosco e un piccolo bosco dentro ogni città.

* * * * *

Nos hicieron creer que el alma de una mujer era profundamente impenetrable. ¿Qué penetración temían?

Ci hanno fatto credere che l’anima di una donna era profondamente impenetrabile. Che penetrazione temevano?

* * * * *

La emancipación comienza tras el descubrimiento de nuestro tirano interior.

L’emancipazione comincia dopo la scoperta del nostro tiranno interiore.

* * * * *

¿Qué poeta pronuncia la palabra política sin ruborizarse? ¿Qué político la palabra poesía? Escribir: trabajar el rubor.

Quale poeta pronuncia la parola politica senza arrossire? Quale politico la parola poesia? Scrivere: lavorare il rossore.

Poesie inedite

Mujer mirando a hombre que limpia coche

Mujer en restaurante que no puede permitirse mira a hombre que limpia coche. Mujer con ojo derecho más grande, ojo que divaga y espía a través del cristal con cuello alto. Tres colegas en la mesa y uno de ellos la manda a comprobar el punto de la carne. Vagina es túnel que comunica cocina y hombre. Anda, ve tú que sabes.

Hombre que limpia coche limpia coche. Es tan caro que no le pertenece. Y se agacha junto al guardabarros con su trapo, y se estira de puntillas sobre el capó, y desaparece hasta la cintura mientras sacude los asientos. Muestra posturas sucesivas y también superpuestas, como una de esas placas fotográficas de Muybridge con atletas primitivos y caballos.

Mi abuelo fue cochero y después dueño de restaurante, ¿yo qué soy? Hombre que limpia coche mira a mujer en restaurante que no puede permitirse y le devuelve el escaparate. Una energía insolente resucita crustáceos y moluscos sobre el plato.

No se rompe un cristal poco a poco. En su afuera no hay hueco, ranura, agujerito donde hincar herramienta última. Hay que romper cristal de pronto. O romperlo de la nada, como ese vaso que alguien golpeó pensando-pensando contra el fregadero y, minutos más tarde, pedacea sobre la mesa.

Donna che guarda uomo che lava macchina

Donna in ristorante che non può permettersi guarda uomo che lava macchina. Donna con occhio destro più grande, occhio che vaga e spia attraverso il vetro con collo alto. Tre colleghi a tavola e uno di essi la manda a controllare la cottura della carne. Vagina è tunnel che mette in comunicazione cucina e uomo. Forza, avanti tu che sai.

Uomo che lava macchina lava macchina. È così cara che non gli appartiene. E si abbassa fino al parafango con il suo straccio, e si alza sulle punte sopra la cappotta, e sparisce fino alla cintola mentre sbatte i sedili. Esibisce posizioni multiple e anche sovrapposte, come una di quelle lastre fotografiche di Muybridge con atleti primitivi e cavalli.

Mio nonno fu autista e dopo padrone di un ristorante, io che sono? Uomo che lava macchina guarda donna in ristorante che non può permettersi e lo riflette la vetrina. Un’energia insolente resuscita crostacei e molluschi sopra il piatto.

Non si rompe un vetro a poco a poco. Nella sua facciata non c’è buco, fessura, forellino dove conficcare l’arnese decisivo. Bisogna rompere un vetro di colpo. O romperlo dal nulla, come il bicchiere che qualcuno ha sbattuto sovrappensiero contro il lavello e, minuti più tardi, va in frantumi sul tavolo.

La barriada

Padre, hoy duermo en casa de la abuela, que vive en una barriada miserable donde cada crimen es archivado como caso paranormal. La abuela sabe que tiene tres hijos pero no los recuerda. Por la tarde se ensimisma y borda gritos de vencejo.

Tu hermano el loco se partió el cuello contra el fondo del pasillo, después de una carrera aplaudida desde la puerta por los críos del vecindario. Los miembros se le enredan improbables alrededor del cuerpo, como ramas de bonsái, y nadie quiere sacudirle el polvo del abrigo.

A la mesa está sentado tu hermano el ciego, que tiene un agujero en la barriga. Los garbanzos que traga se le cuelan, caen rodando y escriben en braille sobre el suelo: Yo nunca he hecho daño. La abuela suspira.

Tú estás muerto, padre, pero también estás vivo, porque te puedo llamar para contarte que los tres cadáveres de los que hablo no aparecen solo en este poema.

La barriada donde vive la abuela, ahora que todo lo pierdo, se llama miedo de clase.

Il sobborgo

Padre, oggi dormo a casa della nonna, che vive in un sobborgo miserabile dove ogni crimine è archiviato come caso paranormale. La nonna sa di avere tre figli, ma non li ricorda. La sera si raccoglie e ricama grida di rondone.

Tuo fratello il pazzo si spezzò il collo contro il fondo del corridoio, dopo una corsa applaudita dalla porta dai bambini di tutto il vicinato. Le membra gli si aggrovigliano improbabili intorno al corpo, come rami di bonsai, e nessuno vuole scuotergli via la polvere dal cappotto.

A tavola è seduto tuo fratello il cieco, che ha un buco nella pancia. I ceci che ingoia ci si infilano, cadono rotolando e scrivono in braille sopra il pavimento: Io non ho mai fatto del male. La nonna sospira.

Tu sei morto, padre, ma sei anche vivo perché posso chiamarti per raccontarti che i tre cadaveri di cui parlo non appaiono solo in questa poesia.

Il sobborgo dove vive la nonna, ora che ho perso tutto, si chiama paura di classe.

Casco, cráneo, bala

Estalactita y estalagmita
se buscan, quisieran abolir
el arriba y el abajo.

Una vieja trinchera se hizo gruta
tras un derrumbamiento,
sellando el casco del hombre que murió
y su cráneo y también la bala.
Los sedimentos trabarán
gota a gota la escena,
la geología violentando la historia,
casco, cráneo, bala calcificados
como los engranajes de un motor húmedo
o los huesecillos
del oído de mi madre,
ya sin movimiento.
El dolor hace surcos
sobre la piedra, ¿no lo oyes?

Igual que en las pinturas rupestres,
el bisonte superpuesto al cazador,
macho y hembra indistinguibles,
nada detrás,nada antes, y en la superposición
su galope y también su multitud,

la humanidad hablando consigo misma
varios siglos hacia adelante:
una flauta pentatónica, una mujer toro,
las palabras sin prisa de todos los que fueron.
Desde lo alto, caen cortinas minerales
que cubren casco y cráneo y también bala.

Estridente, matinal sobre los sedimentos,
el tiempo ondea como la cresta de un gallo.

Casco, cranio, pallottola

Stalattite e stalagmite
si cercano, vorrebbero abolire
il sopra e il sotto.

Una vecchia trincea è divenuta grotta
dopo una frana,
sigillando l’elmetto dell’uomo che morì
e il suo cranio e anche la pallottola.
I sedimenti giunteranno
goccia a goccia la scena,
la geologia che rifiuta la storia,
casco, cranio, pallottola calcificati
come gli ingranaggi di un motore umido
o gli ossicini
dell’orecchio di mia madre,
ormai senza movimento.
Il dolore scava solchi
sopra la pietra, non lo senti?

Come nelle pitture rupestri,
il rinoceronte sopra il cacciatore,
maschio e femmina indistinguibili,
niente dietro, niente davanti, e nella
[sovrapposizione
il loro galoppo e anche la loro [moltitudine,
l’umanità che parla con se stessa
vari secoli in avanti:
un flauto pentatonico, una donna toro,
le parole senza fretta di tutti quelli che
[furono.
Dall’alto cadono tende minerali
che coprono casco e cranio e anche
[pallottola.

Stridente, mattutino sui sedimenti,
il tempo ondeggia come la cresta di un gallo.

(fasc. 2, 25 aprile 2015)