A cento anni dalla nascita di Angelo Maria Ripellino, ho intervistato mio padre, suo allievo e slavista, cercando di far emergere un inedito ricordo del grande poeta e critico, qui soprattutto maestro. Esce fuori un profilo alto di grande spessore e onestà intellettuale che ha offerto alla nostra cultura del Novecento un contributo unico nel suo genere, ancora vivo in chi l’ha conosciuto, ne ha condiviso interessi e ha interloquito con alcune sue posizioni, raccogliendone a suo modo l’eredità.
Quando e come hai conosciuto Angelo Maria Ripellino?
Se per “conoscere” intendi entrare in contatto con la sua personalità e col suo sapere, l’ho conosciuto al primo anno di Università, nel 1962, e non ho mai smesso di coglierne nuovi risvolti inaspettati; ma in senso per così dire pre-scientifico, sociale e umano, lo conoscevo già da prima per via delle frequentazioni di mio padre Eurialo, e anche perché la figlia Milena era venuta per un certo tempo a ripetizione di matematica da mia madre. Comunque, per questo o per una generica curiosità d’un liceale che aveva cominciato a studiare il russo all’Associazione Italia-URSS, l’anno prima (1961), mi capitò di assistere alla sua Lectio magistralis d’insediamento a Roma sulla cattedra che era stata di Ettore Lo Gatto.
Qual è stato, da allora, il tuo rapporto con una personalità così ricca, multiforme e coinvolgente come quella di Ripellino?
Anzitutto di carattere culturale, letterario e, dati gli anni in questione, anche pedagogico. Rispetto non solo all’insegnamento liceale, ma anche agli altri corsi che frequentai all’inizio dell’Università, mi colpì subito la tendenza del professor Ripellino a condurre il suo uditorio studentesco al nodo dei problemi che andava affrontando, senza dilungarsi nella spiegazione dei particolari e dei passaggi esplicativi: chi voleva, era chiamato a raggiungere di suo il livello ermeneutico sul quale veniva condotta la lezione. E questo era tanto più percettibile, pur senza alcun risvolto discriminante, perché a un gruppo di novizi spesso attratti dai capolavori russi letti in età adolescenziale (Dostoevskij, Tolstoj, Čechov…) venivano proposti autori moderni e spesso sconosciuti: il primo corso che seguii era dedicato a Osip Mandel’štam, allora quasi ignoto ai più.
Si potrebbero identificare tre fasi del mio rapporto con lui: una prima fase da studente dei suoi corsi, fino al mio ritorno da Mosca e alla laurea; una seconda da assistente borsista dal 1968 al 1971; e una terza fase quando ho iniziato a mia volta a insegnare prima presso l’Università di Camerino e poi presso l’ateneo di Bari, dove sono diventato ordinario anche grazie a lui, in un periodo durante il quale, rientrando a Roma, sono spesso andato a trovarlo a casa sua.
All’epoca Ripellino era già ‒ oltre che giovane e stimato professore di Russo all’Università di Roma ‒ anche un significativo poeta in proprio: la sua prima raccolta di versi, Non un giorno ma adesso, è del 1959 (pur se edito con la data del 1960), lo stesso anno in cui apparve da Einaudi il suo primo importante contributo critico, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia.
Certamente, ma allora Ripellino era per me (e credo di poter dire, anche per i miei coetanei) il geniale professore di Russo che, negli anni del disgelo di Chruščëv e delle prime voci letterarie di accentuata distanza dall’ideologia dominante in URSS, ci forniva un’immagine della cultura e della letteratura russa assolutamente difforme da quella imperante nella stampa, non solo italiana: vorrei ricordare che nel 1961 uscì da Einaudi la sua antologia dei Nuovi poeti sovietici. Mentre per la poesia della prima metà del secolo esistevano alcune raccolte antologiche, per quella post-staliniana il lavoro di Ripellino ha costituito la prima proposta. Alla poesia della prima metà del Novecento, pre-rivoluzionaria, bolscevica e staliniana, Ripellino aveva dedicato la tesi di laurea, ma è con i nuovi poeti che si propone come pioniere in Italia e non solo: dalla sua proposta emerge l’idea di un canone con significativi approfondimenti che però, a distanza di più di mezzo secolo, rivela delle scelte non sempre corrispondenti all’evoluzione culturale successiva, mostrando nel lungo periodo i limiti, sia culturali sia formali, di alcuni autori all’epoca di grande successo.
Accanto a queste proposte, c’era poi la considerazione di poeti che solo più tardi, e possiamo dire grazie all’antologizzazione pionieristica di Ripellino, avrebbero visto riconosciuto pienamente il loro valore. Una decina d’anni dopo ho cercato di proseguire questa linea di ricerca[1].
Prima di questo lavoro di Ripellino, qual era dunque lo stato della formazione del canone russo novecentesco attraverso la proposta delle antologie in Italia?
La prima antologia italiana dei poeti russi del Novecento uscì nel 1924, a cura di Rais’a Naldi Olkienickaja[2], poetessa e traduttrice attiva che ha contribuito alla conoscenza in Italia della letteratura russa. Le successive crestomazie che reputo più significative sono i lavori di Renato Poggioli La violetta notturna del 1933 e Il fiore del verso russo[3] del 1949.
La prospettiva di Poggioli, già da anni trasferitosi negli Stati Uniti, risulta differente da quella del giovane Ripellino, più condizionato dalla cultura europea dell’epoca. Ciò non di meno, come accennato prima, ci sono alcuni casi di poeti fin lì scarsamente considerati che proprio grazie a Ripellino hanno acquisito un ruolo di rilievo nella storia della poesia russa: penso innanzitutto a Belyj, Mandel’štam e a Nikolàj Zabolockij. L’uno noto più come romanziere, il secondo in parte accantonato dopo la sua triste fine (nel Gulag, in quanto voce libera in era staliniana), Zabolockij quale voce dell’ultimo movimento d’avanguardia (OBERIu) e rilevante voce poetica.
Gli stessi autori proposti nelle sue lezioni universitarie si ponevano, dunque, come interlocutori rispetto a un canone già affermato: quali i gusti dello slavista Ripellino? E quanto hanno influenzato il suo allievo De Michelis?
Credo di dovere alle lezioni ripelliniane certamente l’amore e l’interesse per alcuni autori come l’attenzione verso alcuni grandi studiosi di teoria letteraria. Da una parte, quindi, Mandel’štam, cui ho dedicato uno dei miei primi lavori[4], oltre a Pasternak, la cui lingua poetica è stato l’oggetto della mia tesi di laurea[5], e poi anche Blok. Accanto a questi autori ne citerei altri che non sono stati oggetto di miei lavori monografici ma al cui studio sono stato condotto da Ripellino: penso, ad esempio, ad Andrej Belyj, Chlebnikov, Majakovskij, che Ripellino ha recuperato non come poeta del Comunismo ma come voce eccezionale dell’Avanguardia e che in quanto tale egli ha amato ed esemplarmente tradotto, riscoprendone caratteri e aspetti che rischiavano di essere offuscati da una lettura appiattita sull’ideologia. Più tardi, ho studiato anch’io questioni riguardanti il primo Majakovskij[6]. Lo stesso mio lavoro di traduzione e presentazione al lettore italiano della Teoria della prosa di Šklovskij, intrapreso con Renzo Oliva, nasce da un seminario di Ripellino[7]. In fondo, anche il mio studio sul Futurismo italiano in Russia[8] dipende da una sua idea, un suo seminario che ha suscitato in me l’interesse per questo argomento che ho poi sviluppato nei primi anni Settanta. L’amore trasmessomi per autori come Pasternak, infine, mi ha condotto a occuparmi anche di testi come ad esempio i saggi di Pasternak, pubblicati a mia cura per Marsilio quando ancora non erano stati raccolti nemmeno in Russia[9].
L’idea che Ripellino aveva di Pasternak era quella di un autore figlio e interprete della grande cultura russa di inizio secolo: poeta immenso che però, secondo Ripellino, aveva scritto un romanzo (Il dottor Živago) «tutto nell’ambito di una pulita e precisa tradizione tolstoiana», buono «per gli scaffali di famiglie borghesi»[10], senza adeguare la sua voce eminentemente lirica alla prosa del romanzo. Glielo hanno rimproverato in molti: personalmente, penso che tutto sommato avesse ragione lui, almeno in parte, per quel che concerne il recupero pasternakiano d’una idea di realismo alternativa a quello dominante (quello “socialista”).
Su Blok, invece, credo di poter dire di essere in disaccordo con Ripellino: secondo lui anche nel caso di Blok si era davanti a un grandissimo poeta (da lui stesso tradotto con ammirevole dedizione[11]) il quale, per un’attrazione extra-letteraria, aveva cantato l’ottobre rivoluzionario col poemetto I dodici senza risultati convincenti: ecco, io invece considero proprio questo il capolavoro più complesso e maturo di Blok.
Abbiamo parlato dei gusti del Ripellino critico: quale, invece, il contributo del Ripellino traduttore? E quale l’eredità che ha lasciato rispetto all’importanza della traduzione e all’attenzione filologica nelle scelte linguistiche e formali nella traduzione?
Come traduttore credo che Ripellino abbia offerto alla lingua italiana alcune tra le versioni migliori di poeti russi e céchi ai quali ha dedicato il suo primo volume critico[12], proprio anche grazie al fatto di essere poeta in proprio. Le stesse poesie di Pasternak tradotte da Poggioli e da Ripellino offrono un esempio di soluzioni diversissime. C’è, nelle traduzioni di Ripellino, una consapevolezza della creazione poetica tale da permettergli di rendere le poesie di Pasternak con il verso libero, preservandone così la sua natura semantica più autentica, cosa che altre traduzioni non erano riuscite a ottenere, optando invece per un tentativo di ricostruzione metrico-formale più tradizionale e riconoscibile al lettore italiano ma forzata e falsante rispetto alla proposta degli originali del poeta russo. Può essere in proposito illuminante la versione italiana, della stessa lirica pasternakiana[13], di Poggioli (1933) e di Ripellino (1957):
Poggioli:
Stelle in cielo. Stanze senza ceri.
Sol che abbaglia. Pianto che s’estingue.
Scogli in mare. Vagano i pensieri.
Porge orecchio al Sahara la Sfinge.
Ripellino:
Correvano le stelle. Si sciacquavano in mare i promontori.
Il sale abbagliava. E le lagrime si rasciugavano.
Erano scure le camere. Correvano i pensieri
e la Sfinge porgeva l’orecchio al Sahara,
con un lento dispiegarsi d’una paratassi meditabonda che, a parte l’equivoco di Poggioli (che scambia “sale” con “sole”), pur sacrificando metro e rime, permette di cogliere lo specifico del procedimento metonimico[14]. Aggiungo che anche Ripellino (come tutti i traduttori) prende qualche abbaglio e che, per averne segnalato alcuni, sono stato accusato di coltivare il genere dei «secchi, scientificissimi carotaggi»[15]. Ciò detto, rimane la questione non marginale di Ripellino-slavista e Ripellino-scrittore…
In effetti, egli stesso appare molto consapevole della frizione che questi due ambiti della sua produzione, quello critico e quello poetico, rischiavano di generare: «Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere»[16]. Famosi in proposito sono i versi in cui si schermisce, non senza una certa dose di ironia, dalla possibile lettura della sua opera come quella di un puro slavista: «Slavista! Mi gridano donne con frappe sul capo / e con fettucce e colombe e fleurettes e cràuti e baubau. / Slavista! Mi assalgono omini violacei / […] Chiedo perdono. È deciso. La prossima volta / farò un altro mestiere»[17]. Ma già un anno prima, anche nell’Introduzione di una sua raccolta di saggi, la slavistica veniva proposta come «evasione […] dalle indagini specializzate per pochi savi, – come inusitata riserva di tesori poetici e pretesto di comparazioni»[18]. Forse in questa polemica s’intendeva attaccare più in generale la tendenza a etichettare nonché la consapevolezza, e l’orgoglio, di essere un incatalogabile. Tu come scioglieresti questo nodo?
Credo che Ripellino intendesse riferirsi metonimicamente, più che al concetto di slavista, a quello più generale di accademico. La sua capacità di sentire in maniera fondante l’espressione poetica l’ha guidato, viceversa, anche come critico: ma sempre critico anti-accademico o, meglio, extra-accademico.
In effetti, sembra questo il senso delle sue parole: basta rileggerle alla luce di quanto da lui stesso dichiarato, per tramite di parole altrui: «soprattutto vorrei che la critica fosse gaiezza: […] Non di rado mi accade di bisbigliare a me stesso ciò che Šklovskij scrisse a Jakobson in una mirabile lettera quando Romàn era a Praga: “Tu sei un imitatore. La verità è che sei un clown: ma dimmi: perché fai l’accademico? Sono tediosi, vecchi tre secoli. Sono incessanti, immortali”»[19]. E Ripellino poeta invece?
Come poeta, credo che Ripellino sia uno dei nomi da annoverare necessariamente come ottimo tra gli autori italiani per le sue prove poetiche d’Avanguardia.
Certamente Ripellino è stato un fuori-classe, anche per la sua formazione culturale unica e ricchissima…
Non c’è dubbio, a partire dalle sue competenze linguistiche, che comprendevano un diapason molto ampio: Ripellino aveva intrapreso per primi gli studi di ispanistica e poi era stato conquistato alla slavistica da Ettore Lo Gatto. Conosceva molto bene non solo il russo e, per i suoi interessi praghesi, il ceco, ma anche lo spagnolo, il tedesco, il francese, il polacco: è lui che ha scoperto Le Botteghe color cannella[20].
Dopo la laurea, quando era già collaboratore di testate giornalistiche studentesche e non solo, Lo Gatto lo aveva spinto a recarsi nel 1946, finita da poco la guerra, a Praga, città in cui Lo Gatto stesso era stato Direttore dell’Istituto italiano di cultura. Questo fatto mi colpisce, ricordando che poi, da Professore, nel 1967, mi avrebbe mandato, senza che io lo chiedessi, a mia volta a studiare il ceco a Praga.
A Praga, oltre alla lingua ceca, Ripellino studia la poesia ceca contemporanea, conosce questo paese; simpatizza in Italia con la sinistra, Socialisti e Comunisti, condividendone le grandi speranze utopiste in una società di liberi e uguali. Nel 1948 aveva, infatti, aderito all’Alleanza per la difesa della cultura al fianco degli intellettuali schierati con il Fronte popolare e per un paio d’anni (1947-48) la sua firma comparve sull’organo del Partito comunista italiano (PCI) «l’Unità». Nel giugno dello stesso anno il colpo di Stato in Cecoslovacchia segnò per la prima volta (la seconda sarebbe stata vent’anni dopo) le sue scelte esistenziali, giacché il colpo di stato comunista, prendendo il potere, marginalizzava tutti gli autori a lui più vicini. È la prima svolta culturale e politica in Ripellino, che però, invece di impedire, rafforza ulteriormente in lui l’amore e l’interesse per la cultura ceca e praghese in particolare.
Sua moglie Ela è di Praga: la conosce quando teneva i corsi di italiano all’Istituto italiano di cultura, e i suoi primi corsi da professore incaricato saranno proprio di letteratura ceca, salvo poi approdare alla cattedra di Russo. Altro soggiorno importante in Boemia resta quello del 1965, quando la tisi lo ha attaccato nuovamente all’unico polmone ancora funzionante, e viene ricoverato a Dobřiš.
Nel 1968, ormai collabora a «l’Espresso»; testimonia la primavera praghese, prima, e poi l’arrivo dei carrarmati sovietici nella capitale boema: non poteva esserci inviato più sensibile e consapevole di lui per cercare di descrivere, raccontare e comprendere i fatti céchi di quel momento storico.
Io personalmente mi sono, poi, appassionato e dedicato alla letteratura russa, mentre altri suoi allievi hanno coltivato gli studi di boemistica (Sergio Corduas è diventato professore di Ceco a Venezia e il più giovane Giuseppe Dierna è un critico e traduttore appassionato di letteratura boema).
È chiaro che l’unicità del suo contributo culturale sta nell’eccezionalità della sua formazione e della sua capacità di restituirla in una forma originale: d’altro canto, anche Italo Calvino lo considera un innovatore, dato che riuscì a inaugurare tra le altre cose anche una «saggistica nuova, in cui lo studio documentato diventa prosa creativa»[21]. La sua idea di critica letteraria è stata dichiarata con slancio da lui stesso: «Sì, l’analogia porta a volte lontano, e si pavoneggia, rompendo i confini storici, ma io credo che il critico non debba temere gli accostamenti abusivi, gli agganci paradossali, le iperboli, gli anacronismi»[22]. Viene subito fatto di pensare al testo di enorme successo di pubblico che è Praga magica, ultimo e principale frutto del suo amore per Praga, la sua cultura, la sua storia, la sua gente.
Naturalmente, ma senza dimenticare altre prove maestre come Il trucco e l’anima (Einaudi, 1965), un’appassionata ricostruzione del mondo teatrale russo sullo sfondo della dicotomia Stanislavskij/Mejerchol’d[23] con cui vinse il Premio Viareggio. Ripellino infatti, oltre che dalla letteratura e dalla poesia, fin dagli anni giovanili fu molto affascinato dallo spettacolo e soprattutto dal teatro. Tra le sue attività extra-universitarie vanno ricordate quelle di diretto impegno teatrale, non solo per la messa in scena di Blok nel 1971 e nel 1975 (con i suoi allievi), ma già con la collaborazione con Luigi Nono[24] e poi con la messa in scena del Processo di Franz Kafka[25].
Praga magica resta il suo canto d’amore per quella città, in tutte le sue sfaccettature, come dicevi sopra, condito di fattori sentimentali, biografici e personali.
Nel vortice barocco del suo linguaggio carico di tradizioni linguistiche varie e distanti, emerge una città-mondo da salvare con amore dalla morte portata dalla Storia. Appare evidente una permeabilità culturale e ideale, tra la formazione dello studioso e lo stile dello scrittore e altresì del poeta. Ci sono temi che ritornano in tutta la sua produzione poetica: in particolare, sarebbe interessante comprendere a quale idea di Barocco si riferisse nello specifico Ripellino.
Il Barocco di Ripellino è un’insolita e per certi versi geniale commistione di tre modelli da lui frequentati e amati: il primo è quello del Barocco spagnolo, nello specifico della sua realizzazione siciliana, invenzione di un mondo che egli percepisce principalmente per tramite della letteratura e del teatro, ma anche dell’architettura e di tutta l’arte visiva. Il secondo è certamente il Barocco russo di fine Settecento, che è dunque in ritardo rispetto al Barocco occidentale: a questo ha, ad esempio, dedicato i saggi sulla poesia di Deržavin Le cascate e i grandi della terra e La morte e gli emblemi, il cui incipit suona: «Tutta l’opera poetica di Gavrilla Derzavin s’impernia sull’incessante discordia tra la vita e la morte. La morte è per lui la riprova di come sia vana ogni brama, ogni vaghezza terrena. […] La concezione della morte di Deržavin ha radici barocche»[26]. Egli vede molto in Majakovskij il gioco moderno sulla poesia deržaviniana.
Il terzo modello naturalmente è il Barocco praghese, quello che nasce a Praga dopo la guerra dei Trent’anni, che ha distrutto la Praga hussita, dei fratelli boemi, facendo trionfare il modello asburgico. Quest’ultimo crea un Barocco nordico, soprattutto architettonico ma anche ideologico e infine letterario. Io credo che anche nei suoi versi, soprattutto gli ultimi, ci sia una forte componente di questo tipo: intendo, ad esempio, La Fortezza d’Alvernia, come ne è impregnato il testo stesso di Praga Magica.
Per concludere, avresti da raccontare un aneddoto vissuto da testimone, in prima persona, che ti è caro del tuo professore, Ripellino?
I ricordi più simpatici sono quelli legati alle feste di Natale che si tenevano all’Istituto di Filologia Slava nei primi anni Sessanta, con recite e scherzi (fatto piuttosto insolito anche per l’Università di quegli anni): ma non mi ricordo aneddoti particolari. Quello che mi ricordo bene, invece, risale al 1968 e secondo me sembrava fatto apposta per caratterizzare la straordinaria individualità d’un personaggio come Ripellino.
Quell’anno, quindi dopo il suo ritorno da Dobřiš, potenzialmente guarito, l’editore Einaudi raccolse alcuni suoi saggi nel libro che hai citato, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, che venne recensito con molto favore da «L’Osservatore Romano»: solo che, mentre la notizia della malattia di Ripellino s’era diffusa, non accadde altrettanto per quella della sua ripresa; e, recensendo i suoi scritti, l’organo del Vaticano lo dava per scomparso. Il ’68 era anche l’anno della contestazione: durante una lezione di Russo si presentò un militante tenendo una concione in sinistrese stretto («bisogna andare alla ridefinizione del ruolo…») per dichiarare che era ora di smetterla con “l’isola d’oro nel mare di merda” (la simpatica definizione del nostro Istituto veniva, credo, dal ricordo delle feste di Natale). Ripellino non solo non lo interruppe, ma alla fine dichiarò che il giovane aveva ragione, solo che queste cose andavano dette ai vivi, non agli scomparsi, ai “lèmuri” come lui: al che il militante cominciò a prendersela con i professori che facevano gli spiritosi, ma qui Ripellino non lo lasciò finire e gli mostrò la pagina dell’«Osservatore Romano» che lo dava per trapassato; questa volta il suo interlocutore rimase basìto e se ne uscì incredulo e mogio.
Ma la cosa non finì lì, perché Ripellino scrisse al giornale vaticano ringraziandolo per la recensione, ma comunicando altresì che era ancora vivo; l’organo della Santa Sede replicò che si doleva per l’equivoco, ma che non era uso pubblicare smentite: avrebbero riparato eventualmente recensendo un suo nuovo lavoro, e facendo capire che l’Autore era vivente. Ripellino, divertito, raccontò tutta questa storia su «L’Espresso». E così io, in un mio articolo a lui dedicato a poca distanza dalla sua prematura scomparsa[27].
- Poesia sovietica degli anni 60, a cura di C. G. De Michelis, Milano, Mondadori, 1971. ↑
- R. Naldi Olkienizkaia, Antologia dei poeti russi del XX secolo, Milano, Treves, 1924. ↑
- R. Poggioli, La violetta notturna, Lanciano, Carabba, 1933; R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino, Einaudi, 1949. Questa seconda antologia fece scalpore perché, senza un’esplicitata volontà del curatore, in piena epoca staliniana veniva proposto un canone russo non conforme a quello sovietico, comprendente cioè anche autori lontani dalla cultura sovietica. Carlo Muscetta in una lettera a Einaudi del 17 novembre 1949 ebbe a scrivere: «D’accordissimo per la linea tattica da seguire per l’omaggio del Fiore avvelenato», discutendo su come far recapitare a Togliatti una copia della suddetta antologia: cit. in L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 565; ripreso in nota a p. 25 dell’Introduzione a C. Pavese-R. Poggioli, «A meetingo of minds», Carteggio 1947-1950, a cura di S. Savioli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2010. ↑
- O. Mandel’štam, Strofe pietroburghesi, Milano, Ceschina Ed., 1964. ↑
- C. G. De Michelis, Il linguaggio poetico di Boris Pasternak, relatore prof. A. M. Ripellino, correlatore prof. T. De Mauro, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza”, Roma luglio 1967. ↑
- C. G. De Michelis, Mitologia, mitopoiesi e demitizzazione in Misterija buff di Vladimir Majakovskij, in La scena ritrovata. Mitologie teatrali del Novecento, a cura di D. Gambelli e F. Malcovati, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 159-78. ↑
- In merito piace rileggere quanto lo stesso Ripellino scriveva nell’Introduzione alla propria raccolta di saggi, Letteratura come itinerario nel meraviglioso: «In un’epoca ligia alle ottuse formule del realismo sociale, io mi nutrivo della lezione di “rèprobi”, come Ròzanov, Belyi, Mandel’štam, Šklovskij: e Šklovskij non era allora di moda, ben pochi lo vezzeggiavano»: A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, pp. 5-6. ↑
- C. G. De Michelis, Il futurismo italiano in Russia 1909-1929, Bari, De Donato, 1973. ↑
- B. L. Pasternak, La reazione di Wassermann. Saggi e materiali sull’arte, con Introduzione di C. G. De Michelis, Padova, Marsilio, 1970. ↑
- Da Appunti delle lezioni del prof. A. M. Ripellino (A. acc. 1972-74), Roma 1973, pp. 1 e 3. ↑
- Poesie di Aleksandr Blok, a cura di A. M. Ripellino, Milano, Lerici ed., 1960. ↑
- A. M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea, Roma, Le edizioni d’Argo, 1950. ↑
- “Mčalis’ zvezdy” (Passavano veloci le stelle…, 1923). ↑
- C. G. De Michelis, Prefazione a B. Pasternak, Poesie, trad. di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1992, p. XIV. ↑
- Ivi, p. XV, n. 1; e cfr. A. Fo, “Paralleli”: Ripellino dopo 25 anni, in Dossier Ripellino, «Il Caffè illustrato», n. 11, 2003, p. 45. ↑
- A. M. Ripellino, Congedo, in La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli, 1967, p. 204; ora in Id., Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, Torino, Nino Aragno Editore, 2006. ↑
- A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Torino, Einaudi, 1969, poesia n. 2. ↑
- A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 5. ↑
- Ivi, p. 11. ↑
- B. Schulz, Le botteghe color cannella, Torino, Einaudi, 1970. ↑
- Si cita da Angelo Maria Ripellino poeta-slavista, Atti del Convegno di Studi (Acireale 9-12 dicembre 1981), a cura di M. Grasso, in «Lunario nuovo», V, 21-22, 1983, pp. 27-28. ↑
- A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 8. ↑
- Ripellino aveva anche studiato presso il Centro sperimentale di Cinematografia, sezione Regia, e stese poi, per l’Enciclopedia dello spettacolo, le voci relative al teatro dell’Europa orientale. ↑
- N. Sani, «Intolleranza 1960». Luigi Nono – Angelo Maria Ripellino: il carteggio, in «Musica/ Realtà», XIII/39, 1992. ↑
- A. M. Ripellino, Il Processo di Franz Kafka, Cooperativa del Teatro mobile diretta da Giulio Bosetti, allestimento di Ripellino-Kafka, Il Processo, 1975-1976, Verona, Antëditore, 1975. ↑
- A. M. Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 17. ↑
- C. G. De Michelis, Quella volta che morì per sbaglio, in «l’Espresso», n. 18, 1978. ↑
(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)