Benedetto Croce lettore e critico del “Faust”

Author di Ida De Michelis

Nel pensiero e nella produzione critica di Benedetto Croce, l’attenzione per Goethe occupa un posto di grande rilievo, come dimostra anche il fatto che il suo stesso Contributo alla critica di me stesso nasceva dalla sollecitazione di una riflessione di Goethe: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a se stesso? Goethe, 1806 (in WW., ed. Kurschner, XMI, 141)». Queste parole avevano innescato nel critico, ormai già nel pieno della sua maturità di uomo e di filosofo, il desiderio di provare «ad abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso, ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho (sic) contribuito al lavoro comune: la storia della mia “vocazione” o “missione”»[1. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, Napoli, Ricciardi, 1918, p. 4. Negli scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario (L. Vincenti, Gli Studi di Letteratura Tedesca, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, a cura di C. Antoni, R. Mattioli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1950, vol. II, pp. 37-60), si ribadiva la centralità del contributo degli studi di germanistica di Croce per l’intera storia della germanistica italiana. Così anche nel recente numero di «Studi germanici», 11, 2017.]. L’accoglimento di questa provocazione rivela un dialogo intellettuale di lungo periodo davvero intenso col poeta tedesco.

Un anno dopo, nella Prefazione alla monografia su Goethe[2. B. Croce, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Bari, Laterza, 1919. Le considerazioni su Goethe che compongono in saggi distinti il volume sarebbero state frutto del soggiorno torinese negli anni bellici e per questa ragione il libro è dedicato al germanista che all’Università di Torino fece scuola in quei decenni, Arturo Farinelli, dal quale poi Croce si sarebbe allontanato. Per la precisione, la monografia di Croce uscì nel 1918 in «La Critica», XVI (1918), poi in volume, quindi in ristampa, con aggiunte.], Croce spiegava perché lo considerasse un vero modello rispetto alla sua teoria della distinzione tra arte e storia, tra piano politico e piano letterario. Croce scriveva, infatti:

Qualunque giudizio si porti sull’assenza di passione politica, tante volte notata, biasimata e variamente lumeggiata nel Goethe, mi sarà lecito dire che io ho sentito come singolare ventura che tra i sublimi poeti, fonti perenni di alti conforti, ce ne sia pur uno, il quale, sebbene esperto quanto altri mai in ogni forma di umanità, mantiene l’animo fuori e sopra gli affetti politici e le necessarie contese fra i popoli[3. B. Croce, Goethe, op. cit., p. VI.].

In questo giudizio si intravede a onor del vero una contraddittoria ombra di sovrapposizione tra il profilo dell’uomo Goethe e quello del protagonista della sua opera riconosciuta dallo stesso Croce come la sua massima, Faust:

Ma c’è da soggiungere che la considerazione dei rapporti tra vita morale-intellettuale e vita artistica, così importante per intendere lo svolgimento dell’arte goethiana, pel quale fornisce il principale criterio storico ed ermeneutico, è in grado di rendere un altro servigio alla critica, col dimostrare inutile, vana e aberrante, per molte delle opere di lui, la ricerca dell’unità e del motivo poetico unitario. Quel continuo “sich überwinden”, quel rapido superarsi, che era il ritmo e la legge della vita di Goethe, faceva sì che egli non potesse convivere a lungo con un motivo poetico, richiedente molti anni di esclusiva devozione per convertirsi in forma compiuta[4. Ivi, p. 14.].

Quel continuo sich überwinden, quel ‘rapido superarsi’ non può non richiamare alla mente il verbo faustiano per eccellenza, ossia quello streben che era stato alla base delle resistenze ideologiche se non anche della condanna, da parte della cultura letteraria italiana, del capolavoro goethiano.

La storia del primo secolo della ricezione del Faust in Italia mostra, infatti, una difficoltà da parte italiana alla piena comprensione e accettazione della tragedia in due parti con lieto fine[5. Per l’intero percorso di ricezione del mito faustiano nella tradizione italiana cfr. I. De Michelis, Il viaggio di Faust in Italia. Percorsi di ricezione di un mito moderno, Roma, Viella, 2017.]. Venivano imputati all’opera di Goethe difetti morali e difetti formali. Difetti morali che le venivano riconosciuti erano lo streben come atto di ybris, da una parte; la salvezza finale di un tale peccatore, dall’altra, come anche la difficilmente digeribile polarità irrisolta tra bene e male su cui è strutturata. Tra i difetti formali, restavano certamente indigeste alla cultura italiana l’assenza di un’evidente unità generale delle due parti della tragedia, che veniva invece riconosciuta alla prima parte, l’improbabile proposta di un lieto fine per un’opera presentata come tragedia, appunto; la debolezza del personaggio protagonista rispetto all’efficacia di altri profili come quello di Mefistofele o di Margherita.

Croce stesso, nell’Appendice alla sua monografia, che intitola Goethe e la critica italiana, ripercorre implicitamente anche questa vicenda[6. Cita in particolare i lavori di C. Fasola, Goethes Werke in italienischen Übertragungen, in Goethe-Jahrbuch, XVI, 1895 e Goethe è popolare in Italia?, in «Rivista della letteratura tedesca», III, 1909, pp. 147-80.]. In realtà, egli si ripromette essenzialmente di comprendere quali contributi la critica italiana abbia saputo offrire alla critica goethiana tout court, mettendola meritoriamente in dialogo con la critica goethiana internazionale. Nella sua ricostruzione non perde occasione, ad esempio, di contestare la superficialità della visione romantica che imputò a Goethe – primariamente nelle parole di Mazzini – una certa freddezza, non intendendone il classico equilibrio. In effetti, l’accusa di indifferenza sentimentale, poi anche morale e finanche religiosa, era stata una delle principali linee di reazione critica di rifiuto del Faust come modello, già a partire dal primissimo riferimento in merito, rintracciato nelle Osservazioni sulla morale cattolica di Alessandro Manzoni.

Manzoni nelle sue Osservazioni cita il Fausto accanto alle Nuvole (di Aristofane) – e proprio ad Aristofane la stessa Madame de Staël aveva accostato il Faust[7. M.me de Staël, De l’Allemagne, Deuxième Partie: La Littérature et les Arts, XIII, nouvelle édition, avec une Préface par M. X. Marmier, Paris, Charpentier, 1844, p. 319: «on y truverait quelques rapports avec Aristophanes».] – come esempi di opere in cui autori «comici» (sic) guarderebbero con umorismo straniante ai rapporti tra morale e religione:

Dalle Nubi fino al Fausto i sistemi positivi sulla parte morale e intellettuale dell’uomo sono sempre (o al loro apparire o col tempo) caduti nelle mani di scrittori comici; e il sentimento eccitato da questi è stato o gajo, o schernevole, o anche penoso, secondo che hanno più fatta risaltare o la vanità dei sistemi particolari o la vanità terribile della mente umana: il che è dipenduto dalla malignità, dalla vivacità, o dalla profondità del genio dei diversi scrittori[8. A. Manzoni, Sulla morale cattolica. Osservazioni. Parte prima, Milano, Stamperia Antonio Lamperti, 1819, nota 1, pp. 33-34.].

Evidentemente il Fausto goethiano detiene qui essenzialmente la «funzione esemplificativa, all’interno del ragionamento sul rapporto tra categorie di comico e drammatico»[9. G. Lupo, Presenze manzoniane nelle Lettere spirituali di Ermes Visconti, in Studi di letteratura italiana in onore di Francesco Mattesini, a cura di E. Elli, G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 207-36.], di un’opera in cui il «genio profondo» dell’autore fa «risaltare la vanità terribile della mente umana».

Capolavoro sì, sembra però suggerire Manzoni dietro la de Staël, e mutatis mutandis così diranno anche Leopardi e molti altri fino a Imbriani, ma «capolavoro sbagliato»: qui soprattutto per ragioni morali, altrove per ragioni formali, ma questa definizione sintetizza il paradosso di un diffuso giudizio di accettazione e rifiuto pieno di contraddizioni logiche, ideologiche, estetiche, storiche. Certamente, resta forte il baluardo italiano pseudo-classicista, come direbbe Paul Hazard, nei confronti di quella che egli aveva definito come «l’ésprit de liberté» delle letterature inglese e tedesca. La difficoltà ideologica di accoglienza di contenuti di stampo protestante era stata rilevata come fattore di resistenza al dialogo con le letterature straniere del Nord Europa da parte della nostra tradizione letteraria già nel Settecento, accanto poi alla difesa di un sedicente classicismo formalista: «Comment l’esprit catholique, qui règne en Italie, tolérera-t-il l’avènement de l’ésprit protestant, dans la mesure où celui-ci est représenté par les littératures étrangères?»[10. P. Hazard, L’invasion des littératures du Nord dans l’Italie du XVIII siécle, in «Revue de Littérature comparée», I (1921), pp. 30-67, p. 36.].

Quanto questo elemento possa risultare rafforzato nel caso del mito dell’individualismo moderno[11. La definizione si rifà allo studio di I. Watt, Miti dell’individualismo moderno. Faust, don Chisciotte, Don Giovanni e Robinson Crusoe, Roma, Donzelli, 2007 (1998).] che, nascendo exemplum luterano, conteneva elementi esplicitamente anti-cattolici e spregiudicatamente anti-papali, si può ben comprendere.

La tragedia di Goethe apparirebbe, infatti, canonizzata dalla cultura italiana come capolavoro europeo senza, però, essere accettata come modello letterario: il testo entra nel canone statico di conservazione delle opere notevoli, assieme al suo autore già consacrato come classico per altre opere, mentre il tema di quel mito e quella proposta formale di tragedia non vengono accettate.

Dell’allievo di De Sanctis, Vittorio Imbriani, non si può affermare che Croce accetti in toto l’idea del «capolavoro sbagliato», che in sé sintetizzava quasi un secolo di sospetti anche formali nei confronti dell’opera “incommensurabile” di Goethe. Di Imbriani, invece, fa sua l’idea delle perle giustapposte che andrebbero a formare l’opera di Goethe sul Faust, ma senza derivarne un giudizio negativo di condanna: piuttosto, coerentemente con il suo coevo pensiero di distinzione tra poesia e non poesia, Croce non reputa essenziale la questione della struttura ma si sofferma sull’apprezzamento dei momenti artisticamente validi:

Non merita, dunque, risposta l’obiezione che si suol muovere al procedere analitico che seguiamo, cioè che a questo modo si disorganizza e distrugge l’organismo creato dal poeta; perché il fatto sta proprio al contrario: che il poeta, per un proposito riflessivo, ha foggiato un meccanismo, chiudendovi e comprimendovi parecchi organismi vivi, i quali il critico, con quel procedere, rimette nella primiera libertà, senza distruggere nulla, perché non si distrugge ciò che in effetto non esiste ed è una semplice presunzione, anzi prosunzione[12. B. Croce, Goethe, op. cit., p. 52.].

Nel suo discorso sul capolavoro goethiano, Croce si confronta con i principali temi-cardine della critica faustiana, proponendo una lettura originale e positiva; lo studio crociano su Goethe ebbe, infatti, risonanza internazionale, tanto da venir tradotto in tedesco e in inglese. Nell’introduzione della traduzione inglese si legge:

I consider that the reading of Croce and a knowledge of his views on philosophy and literature is essential to a modern education that aims at something above the ordinary curriculum of petrified common place[13. La traduzione inglese è opera di Emily Anderson ed è stata curata da Douglas Ainslie: Goethe, by Benedetto Croce, London, Methuen and Co., 1923, p. XV.].

Proprio rispetto alla vexata quaestio dell’unità della tragedia goethiana, Croce riesce a disinnescare uno dei principali common place di difetti formali attribuitole per un secolo e oltre dalla critica, depotenziando la sostanza degli «sforzi di coloro che scrutano e interpretano ogni scena e ogni particolare con l’intento di scoprirvi e mettere in chiaro il disegno e l’unità dell’opera»[14. B. Croce, Goethe, op. cit.].

Quest’assenza di unità strutturale era stata spesso evidenziata dai critici tramite il paragone con la strutturatissima Divina Commedia dantesca: parallelo, questo, che costituisce un altro dei principali filoni critici faustiani, e non solo in Italia[15. Cfr. I. De Michelis, «Qui si parrà la tua nobilitate»: interferenze dantesche nei palinsesti faustiani, in La funzione Dante e i paradigmi della modernità, a c. di P. Bertini Malgarini, N. Merola e C. Verbaro, Pisa, ETS, 2015, pp. 727-38.]. Croce si richiama a questa linea critica – linea di lungo periodo, inaugurata dallo Schelling a inizio Ottocento[16. B. Croce, Goethe, op. cit., p. 53. Ma poi anche V. Santoli, Prospettive sul ‘Faust’, in Id., Goethe e il Faust: due saggi, Firenze, Sansoni, 1952, pp. 40-41: «Schelling, nell’estate del 1802, alla fine dell’undicesima lezione sul Metodo dello studio accademico aveva detto: “Al contrasto che nasce dall’inappagato desiderio di conoscenza delle cose ha legato il Poeta le sue invenzioni in quella poesia così schiettamente tedesca e ha aperto una sorgente d’entusiasmo estremamente fresca” (…) Lui, Hegel e gli altri erano impazienti di leggere il seguito di questa “tragedia grande, sublime, anzi divina”. (…) Faust è il rappresentante dell’Umanità (…) Di qui il paragone che, primo, lo Schelling istituì tra questa ‘Divina Tragoedia’ e la Divina Commedia di Dante».] e fermata definitivamente all’interno della tradizione italiana nelle parole di De Sanctis[17. Croce cita la definizione di Faust come moderna Divina commedia nell’Appendice a Id., Goethe, op. cit., p. 133.] -, giungendo alla conclusione che tale accostamento aveva fondamentalmente giovato alla critica dantesca piuttosto che alla critica comparatistica, conclusione che pare ancor oggi condivisibile. Questo parallelo nella maggior parte dei casi finiva spesso per essere un accostamento ambiguo, in primo luogo, tra le due opere e, poi, tra i due autori, infine anche tra Faust e Dante, in uno slittamento dei piani analitici che non poteva che rimanere pura suggestione e, in quanto tale, venir rifiutato dalla critica crociana. Un decennio prima Croce[18. A tal proposito si veda il saggio di D. Della Terza, Osservazioni sulla critica dantesca fuori d’Italia (Germania – America – Inghilterra – Francia), in «Per correre miglior acque», op. cit., pp. 533-47.] aveva, ad esempio, apprezzato e ritenuto opportuno lo studio di Karl Vossler sulla Divina Commedia di cui usciva nel 1909 in Italia la traduzione della prima parte. Il dantista tedesco aveva ceduto alla tentazione di aprire il lavoro con un’Introduzione dedicata a Il Faust di Goethe e la Divina Commedia di Dante[19. K. Vossler, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, vol. I, parte I, Storia dello svolgimento religioso-filosofico, traduzione di S. Jacini, Bari, Laterza, 1909.]: Vossler partiva dal presupposto che l’affinità tra i due poeti e i loro capolavori fosse «tutta spirituale, intima, e perciò più profonda»[20. Ivi, p. 1.]. Non si trattava, quindi, di rintracciare impronte dantesche, criptiche o esplicite, nell’opera di Goethe, ma di definire tale affinità: per meglio illuminare la grandezza dell’opera di Goethe.

I suggerimenti in tal senso di Vossler non vennero pienamente condivisi dal critico italiano[21. Ad esempio, Vossler reputava che entrambi gli autori non fossero pensatori o studiosi ma essenzialmente poeti, entrambi partendo da loro stessi per ritrovare un’unità. Vossler riprende implicitamente una distinzione di Dilthey tra poeti personali, ossia soggettivi, e poeti impersonali, ossia oggettivi, e tanto Dante che Goethe vengono classificati nella prima categoria di poeti soggettivi, accanto a Petrarca e Byron, Heine e Leopardi, Schiller e Carducci.]. Egli, volendo piuttosto restare sul piano della poesia, riconosce nel capolavoro dantesco e nel secondo Faust un’analoga, pericolosa ambiguità tra poesia e filosofia, che genera «infinite disquisizioni dei commentatori pel Goethe e per Dante e per ogni altro poeta di allegorie, non potendosi mai determinare ciò che, nel poeta stesso, nel creare l’immagine, non era e non poteva essere determinato, se anche, fuori dell’immagine, aveva nella sua mente determinatezza»[22. B. Croce, Goethe, op. cit., p. 117.]. La confusione di piano critico, filosofico, e piano poetico sta alla base dell’errore di interpreti e di imitatori: non, quindi, l’imitazione dell’opera di Goethe in quanto tale sarebbe da condannare, ma il volersi provare a risolvere in poesia idee filosofiche:

E chi ai giorni nostri si mette a ridisegnare poemi o drammi alla Faust è da ritenere subito per ispacciato, almeno agli occhi delle persone che se ne intendono, giacché pure vi sono sempre ritardatari e provinciali, che la pensano altrimenti[23. Ivi, p. 53.].

Ai primissimi del secolo, infatti, Croce si era trovato a elogiare un'”imitazione” del Faust, o per meglio dire una riscrittura italiana, e a difenderne teoricamente il diritto poetico. Si tratta di una tragedia in cinque atti intitolata Mefistofele, opera del poeta, giornalista e traduttore napoletano Mario Giobbe (1863-1906)[24. M. Giobbe, Mefistofele: tragedia in cinque atti. Una nota: Benedetto Croce volle offrire una copia della Prefazione «All’amico carissimo Giovanni Gentile (il suo B. Croce)», copia conservata nel Fondo Gentile della Biblioteca di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”. Dell’anno successivo sempre di B. Croce, Volfango Goethe a Napoli. Aneddoti e ritratti, Napoli, Pierro ed., 1903. Cfr. anche M. Panetta, Croce editore, Edizione Nazionale delle Opere di B. Croce, Napoli, Bibliopolis, 2006, vol. I, pp. 230-31.].

Nella sua Prefazione Croce sottolinea come abbia trovato nella critica a quest’opera teatrale

Qua e là (…) le conseguenze o le tracce d’idee poco precise e poco esatte, così intorno al Fausto goethiano come intorno ai diritti che un artista ha rispetto alle materie storiche e leggendarie. (…) Istituire un processo d’esattezza di fatto, o di fedeltà alla leggenda, innanzi ad un’opera d’arte è far della critica storica fuori di luogo, e complicare infecondamente la questione[25. B. Croce, Prefazione a M. Giobbe, Mefistofele, op. cit., p. 5.].

Prosegue, esponendo sinteticamente molte delle idee che avrebbero trovato sviluppo nel suo studio monografico: si anticipa la fondamentale idea del Faust come capolavoro, sbagliato semmai solo perché sbagliata è la lettura di chi voglia considerarlo un’opera di getto, mentre andrebbe intesa nella sua natura

di taccuino, o albo, nel quale il poeta scrisse durante tutta la sua vita, seguendo le impressioni varie e i varî sistemi d’idee dominanti nei varî periodi della sua vita, trasformando i personaggi e l’intonazione com’egli stesso si trasformava (…) scrivendo ora con la mano rapida ed ispirata del giovane, ora con quella calma e ferma dell’artista maturo, ora con la tremante e debole del vecchio (…) il legame tra i varî lati della figura di Fausto non è artistico ma biografico[26. Ivi, pp. 8 e 10.].

Proprio questa sua natura composita lo rende idoneo ad adattamenti e letture parziali, le più differenti: come ad esempio questa di Giobbe, che nella sua riscrittura volle considerarne la sola prima parte e in dialogo con la versione di Marlowe, così trascurata fin lì dalla tradizione italiana.

Insomma, le idee di Croce sul capolavoro goethiano maturavano da tempo in lui, ma resta comunque notevole il coraggio con cui egli volle proporre alle stampe uno studio germanistico di tale portata in un momento storico come quello della prima guerra mondiale[27. Riflette sulla questione P. D’Angelo, Goethe e Croce, in «Cultura Tedesca», 21, 2002, pp. 31-46.], facendone così un consapevole atto di fede politica della distinzione intellettuale, razionale, tra arte e vita.

Coerenza e coraggio intellettuale che seppe conservare negli anni successivi ancora sul tema del faustismo e della sua lettura ideologica culminata nella pubblicazione del saggio Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler[28. Allo Spengler la concezione aristocratico-teutonica del titanismo germanico di Faust viene da una tradizione critica nata in Germania già nell’ultimo trentennio del secolo precedente: la prima interpretazione di questo stampo è quella di Loeper von, G., Einleitung und erklaerenden Anmerkungen, in Faust. Quindi, vi si allineano anche le lezioni su Goethe tenute a Berlino nel 1874-1875 da Hermann Grimm. Tali posizioni compaiono mitigate in K. Fischer, Goethes Faust, Heidelberg, Winters Ubhdl, 1901. Ma la medesima concezione aristocratica viene poi ripresa dalla monografia di Gundolf del 1916 che trasforma il faustismo nella categoria storico-filosofica che Spengler farà sua. Tale iter viene ripercorso da Cases nella sua Introduzione alla traduzione del Faust di B. Allason.]. Secondo Croce, vi è un’opposizione sostanziale fra la prospettiva metafisica e religiosa di Goethe nel Faust e il sistema di pensiero spengleriano tutto antistorico e immanentista[29. L. Grassi, Il Faust e il tramonto dell’Occidente: di una nuova corrente esegetica del Faust in Germania, Torino, Bocca, 1932, p. 16: «per questa implicita metafisica, che è alla base del Faust, Goethe propriamente nulla ha a che vedere con lo Spengler (…) per Goethe la cultura occidentale non è affatto effimero fiore, assurdamente sbocciato in una assurda eternità, ma propriamente un fiore d’eternità, per l’eternità maturante i suoi frutti». A sostegno della sottolineata distanza tra la concezione di Goethe e quella di Spengler, Grassi cita una recensione crociana a un recente scritto del filosofo tedesco, Der Mensch und die Technik, del 1931, in cui Croce ribadisce: «In una bella lettura, fatta di recente da Thomas Mann, si accenna sprezzantemente a quest’ultima fatica dello Spengler e, contro la pretesa verità che costui asserisce e vanta, si ricorda il detto di Goethe: “che il vero si riconosce soltanto dalla sua capacità a promuovere la vita”: il che, proprio non è, come si è visto, l’effetto delle teorie dello Spengler, atte soltanto, in chi presti loro fede, ad accrescere pessimismo e scoraggiamento, cosa della quale non c’è bisogno nel mondo e, meno che altrove, in Germania»: B. Croce, Recensione a O. Spengler, Der Mensch und die Technik, citata da L. Grassi, Il Faust e il tramonto dell’Occidente: di una nuova corrente esegetica del Faust in Germania, p. 6, nota 1.].

Oswald Spengler prendeva, infatti, Faust a rappresentante di un’intera fase storico-culturale, arrivando a parlare di una religione faustiana e di una Kultur faustiana all’apice della quale poneva, com’è ovvio, il popolo tedesco. Carattere primario del faustismo sarebbe quella tensione verso l’infinito che condurrebbe l’individuo al superamento di ogni legge imposta dall’esterno, sia essa umana o divina. Dal punto di vista religioso, una tale tensione assoluta dell’io porterebbe a una concezione religiosa panteistica di rifiuto di ogni dogma o gerarchia (e Spengler rinviene la radice storica di questo atteggiamento di libertà individuale assoluta in fatto di religione nella Riforma e nel protestantesimo). Dal punto di vista politico, il faustismo, intimamente conforme a un atteggiamento dionisiaco e tipicamente germanico, riallacciandosi all’uso ideologico-politico del mito inaugurato da Nietzsche, si rispecchierebbe in un cesarismo provvidenziale, unica via utile al superamento della decadenza democratica dilagante in quegli anni, sotto forma del socialismo (nel 1917 c’era stata la Rivoluzione in Russia) e, in molti degli altri paesi europei, di indiscriminata democrazia in mano a masse inconsapevoli[30. Una sintesi al riguardo si trova in P. Orvieto, Il mito di Faust, capitolo XV Faust o la volontà di potenza. Il mito si nazionalizza ed entra tragicamente nella storia, pp. 279 e sgg.].

La lettura spengleriana[31. Per una sintetica ricostruzione della ricezione spengleriana nell’Italia del periodo da noi considerato, si veda M. Cottone, Ricezione di Spengler in Italia, in O. Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone, F. Jesi, Parma, Guanda, 1995, pp. XXIX-XLII.] riscosse grande successo, convincendo pochi ma suggestionando molti, anche tra i critici italiani dell’opera di Goethe. Da parte sua, Croce si rivoltò contro le teorie pessimistiche anti-storiciste di Spengler con una recensione in cui scriveva già nel 1920 che il saggio del filosofo tedesco «non può non impensierire gravemente coloro che hanno a cuore le sorti del pensiero scientifico»[32. B. Croce, Pessimismo Storico in Germania, in «La Critica», 18 (1920), p. 236. Contro la posizione crociana si mise Giovanni Papini, con l’articolo Contro Roma e contro Benedetto Croce, p. 81, mentre Francesco Flora, autore di Spengleriana, in «Leonardo», 1 (1933), parte dalle assunzioni di Croce per contraddire la tesi spengleriana, asserendo che «il metodo spengleriano strazia la storia viva contraendola in alcuni mutili e isolati esempi, che messi spazialmente uno accanto all’altro dovrebbero significare la legge, anzi il destino di una non ben definita cultura». L’arbitrarietà della concezione di Spengler apparirebbe, così, chiara; dove Spengler descrive il succedersi inesorabile e fatalmente necessario di Kulturen e Zivilisationen, Flora sostiene la loro perenne compresenza e permanenza, smontando il sistema antitetico e ciclico proposto dal filosofo tedesco. Adriano Tilgher nel 1921, anno di piena reazione idealistica al pensatore tedesco, proprio a quest’ultimo dedicò un intero capitolo del suo scritto Voci del Tempo, Roma, Libreria di Scienze e di Lettere, 1921. Negli anni Trenta si hanno varie riflessioni sull’argomento. Ricordiamo L. Salvatorelli, Spengler e Sorel, e, visto il titolo evocativo faustiano, soprattutto L. Giusso, Il ritorno di Faust, poi nella nuova edizione aumentata del 1929 circa, e Id., Spengler e la dottrina degli universi formali, Napoli, Ricciardi, 1935. Appoggiò, diffondendo e traducendo le opere di Spengler, V. Beonio Brocchieri, Spengler, la Dottrina Politica del Germanesimo Post-Bellico, Milano, Edizioni Athena, 1928. Anche Mussolini sostenne la diffusione in Italia delle teorie spengleriane, cercando un punto d’incontro tra l’esclusivo germanismo e protestantesimo originari, in un incontro nei valori tragico-aristocratici della cultura germanica con la cultura latina e italiana per un’assunzione, si vede bene tutta ideologica nella sua forzatura, di un comune compito di redenzione dell’Europa tardo-moderna nella sua fase discendente e crepuscolare.], avendo intravisto in esso un pericoloso, proprio perché confuso e irrazionale, focolaio ideologico di aggressività germanica[33. B. Croce (in Teoria e Storia della Storiografia, Milano, Adelphi, 2001, p. 369) parla del «famigerato operone dello Spengler, che non so perché sia ancora preso tanto sul serio dai professori tedeschi (non forse perché nei loro abiti e tendenze mentali c’è molto di ciò che è venuto ad aperta luce nel pasticcio spengleriano?)».].

Nel difficile ventennio che seguì, e che dovette dare tragicamente ragione a quelle parole, con medesima chiarezza e indipendenza di pensiero Croce continuò a tener alta l’attenzione critica sulle vicende italiane di Goethe e del Faust, arrivando a scrivere nel 1944 una sintesi delle sue profonde motivazioni di tale fedeltà di interesse nella Prefazione alla terza, aggiornata riedizione dei propri saggi su Goethe:

le opere del Goethe mi furono conforto nell’ultimo anno della prima guerra mondiale; ma ne porsero di nuovo nel più triste tempo del regime di oppressione e di vergogna in cui l’Italia era caduta, quando già si presentiva la guerra alla quale sarebbe stata trascinata (…) Questi ‘terzi’ saggi mi hanno procurato alcune ore di svago e di sollievo nella tesa angoscia da cui l’animo è preso allo spettacolo della ferocia devastatrice tedesca, che si è rivolta ora sull’Italia (…). Come hai il cuore (mi dice qualche amico) in questi tempi di leggere e amare un poeta che canta in lingua tedesca? E io rispondo che, appunto perché non ho il cuore degli odierni barbari, rispetto ed amo gli uomini di genio che nacquero in mezzo a quel popolo o in qualsiasi altro popolo[34. Oggi ancora leggibile in B. Croce, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Bari, Laterza, 1959 (V ed.), vol. I, p. XI. Analoga dichiarazione fa G. Lukács nel proprio Goethe il suo tempo, Milano, Mondadori, 1949, testo d’altro canto duramente criticato da Croce stesso nella sua recensione al saggio di Lukács, Goethe e il suo tempo, in «Quaderni della critica», 4 (1949).].

(fasc. 19, 25 febbraio 2018)