Dal simbolo al concetto e dal concetto al simbolo. Le immagini religiose nel pensiero di Benedetto Croce

Author di Antonio Pirolozzi

1. Dal mitologismo al concetto

Nella Logica come scienza del concetto puro (1909) Croce aveva ridotto la religione a mitologismo, ovvero a una delle forme necessarie dell’errore logico che nega la forma dello Spirito che è il pensiero logico. Per Croce il mito non è pura fantasia poetica, perché include in embrione «un’affermazione o giudizio logico che non si trova nell’arte; e per questo elemento logico appunto esso va soggetto alla critica, che lo tratta come verità semifantastica o errore»[1. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 2 voll., a cura di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1997, vol. I, p. 302.]. Il giudizio logico presente nel mito non è qualcosa di estrinseco, un rivestimento nel quale rimane chiara ed evidente la diversità dei due termini e il carattere arbitrario e convenzionale della loro relazione, come nell’allegoria, poiché esso nel mito «si compenetra con la rappresentazione, acquistando pretesa di verità: pretesa logicamente infondata e che non dimostra sé medesima, come ha luogo invece nella sintesi a priori e nel giudizio storico»[2. Ivi, p. 303.]. Infatti, nel mito l’unione con l’intuizione avviene sempre in modo arbitrario, poiché l’intuizione viene scissa dal concetto, ed è posta essa stessa come concetto, per poi pretendere di avere da un’altra intuizione, attraverso la relazione di causalità tra queste, la spiegazione che solo il concetto può dare: «Ai concetti che dovrebbero rischiarare i fatti si sostituiscono dunque rappresentazioni, che formano falsi predicati. La filosofia diventa raccontino, novelletta, favola, perché è stata resa priva dell’elemento logico necessario a costituirla»[3. Ibidem.]. La sostituzione dell’intuizione con il concetto non fa altro che creare quell’errore che conduce a una «mitologia dello Spirito immanente»[4. Ivi, p. 304.].

Per Croce, invece, un’intuizione può essere compresa solo attraverso la categoria, la forma universale dello Spirito che si incarna in quella. Nonostante l’errore del mito che inevitabilmente è errore religioso, vista l’identità delle due forme, Croce sostiene con forza il dissolvimento e il superamento della religione nella filosofia: «Poiché dunque la religione è identica al mito, e il mito non si distingue dalla filosofia per nessun carattere positivo ma solo come una filosofia fallace si distingue dalla vera e l’errore dalla verità che lo rettifica e contiene, si deve affermare che la religione, in quanto verità, è identica alla filosofia o, come anche si potrebbe dire, che la filosofia è la vera religione»[5. Ivi, p. 306.].

La risoluzione della religione nella filosofia non significa affatto cancellare le verità mitiche e dogmatiche: anzi, queste vengono elevate a simboli dello Spirito. Infatti, già nell’ottobre del 1907 sul «Giornale d’Italia», polemizzando contro i modernisti italiani, Croce scrive:

Liberissimi i modernisti di trasformare i dommi secondo le loro nuove idee. Anch’io uso di questa libertà; e ho trasformato per mio conto e a mio modo il domma della trinità e quello dell’incarnazione, e molti altri ancora, scoprendo sotto i simboli il nocciolo filosofico e mettendolo in forma razionale. Soltanto, che io ho coscienza di essere, facendo ciò, fuori dalla Chiesa cattolica, anzi fuori di ogni chiesa, laddove i modernisti si ostinano a professarsi, non solo religiosi, ma cattolici[6. B. Croce, Pagine sparse, 2 voll., vol. I, Letteratura e cultura, Bari, Laterza, 1960, pp. 383-84.].

Trinità e incarnazione sono trasfigurati nei nuovi concetti della Filosofia dello Spirito. La Trinità non è altri che la forma mitologistica dello Spirito crociano:

Se è vero che i distinti costituiscono una storia ideale o una serie di gradi, è anche vero che, in questa storia e serie, c’è un primo e c’è un ultimo, il concetto a, che apre la serie, e poniamo il concetto d, che la chiude. Ora, perché il concetto sia unità nella distinzione e si possa comparare a un organismo, è necessario che esso non abbia altro cominciamento che sé stesso e che nessuno dei suoi singoli termini distinti sia cominciamento assoluto. Nell’organismo, infatti, nessun membro ha priorità sugli altri, e ciascuno è reciprocamente primo ed ultimo. Ma il vero è che il simbolo della serie lineare è inadeguato al concetto, al quale meglio conviene il circolo, in cui a e d fungono, a volta a volta, da primo e da ultimo. I concetti distinti sono, in quanto storia ideale eterna, un eterno corso e ricorso, in cui da d risorge abcd, senza possibilità di arresto o di tregua, e in cui ciascuno, sia a, o b, o c, o d, pur non potendo cangiare ufficio e posto, è designabile, a volta a volta, come primo o come ultimo. A mo’ d’esempio, nella Filosofia dello spirito si può dire con pari ragione o torto che il fine o termine finale dello spirito sia il conoscere o l’operare, l’arte o la filosofia; perché in realtà, nessuna di queste forme in particolare, ma solamente la totalità di esse è il fine, ossia solo lo Spirito, è il fine dello Spirito[7. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., vol. I, p. 75.].

Lo Spirito è la possibilità infinita che diviene attualità infinita, è ordine, elevamento dalla vita animale a quella umana; è creazione continua attraverso le sue eterne Categorie. Croce non lo dice in maniera esplicita, ma è evidente che lo Spirito coincide con la Vita: anzi è Vita[8. Secondo Galasso, questa equivalenza tra Realtà-Spirito-Vita è un’«equivalenza, anche se è pensata e presentata come identità, perché solo col termine “Vita” poteva essere indicata quell’organica e inesauribile potenza di attività in cui la Realtà-Spirito si configurava per Croce: ossia, solo con un termine in cui la molteplicità e infinità del reale assuma tutta la concretezza, immediatezza, organicità, determinazione, drammaticità dell’iniziare e fiorire, agire e subire, godere e soffrire, insomma il pathos e la ricchezza, che la nozione filosofica di spirito concettualizza in maniera congrua e soddisfacente solo dal punto di vista logico» (G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 165).]. Lo Spirito-Vita è l’inesauribile fonte di ogni creazione, la condicio sine qua non del mondo storico, e di ogni nostro pensare e agire. Croce scrive:

L’infinito, inesauribile dal pensiero dell’individuo, è la Realtà stessa, che crea sempre nuove forme; è la Vita, che è il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito. E come ogni attimo, per bello che sia, diventerebbe brutto se si arrestasse, brutta diventerebbe la Vita, se mai indugiasse in una delle sue forme contingenti. E perché la Filosofia, non meno dell’Arte, è condizionata dalla Vita, nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara le condizioni per la posizione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Così è sempre stato, e così sarà sempre. In questo significato la Verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la Vita[9. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, 2 voll., a cura di M. Tarantino e con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, vol. I, pp. 397-98.].

È chiaro, già da tutte queste definizioni, che lo Spirito è, al contempo, immanente e trascendente: immanente nella storia in quanto esso è Storia, eppure non ridotto e appiattito al mero susseguirsi empirico degli eventi, perché lo Spirito, attraverso le sue categorie, è origine e vita di quelli.

L’intento di Croce, dunque, è molto chiaro fin da queste riflessioni: egli riprende esplicitamente termini e figure della tradizione teologica cristiana per adoperarli come simboli del pensiero filosofico, perché attraverso la filosofia avviene «un rivolgimento spirituale, onde la volontà si purifica di ogni residuo materiale, egoistico o eudemonistico, i pensieri e le immagini religiose si dispogliano del loro carattere trascendente e mitologico, rinunziano all’attrattiva sensibile di questa loro veste, e si trasfigurano in idee, non fredde, come si crede, ma limpide bensì e serene, e fonti di gioia serena»[10. B. Croce, Gl’idoli, in Id., Etica e politica, Bari, Laterza, 1967, p. 109.]. La stessa cosa accade ai concetti religiosi come la Provvidenza e la Grazia, che Croce aveva fatto propri attraverso l’educazione familiare e quella dei suoi primi maestri, che si trasformano in simboli filosofici carichi di verità. I concetti della Grazia e della Provvidenza sono intimamente connessi all’individuo e all’opera di quest’ultimo. Per il filosofo l’individuo, con i suoi tormenti e i suoi conflitti, è un’«istituzione» che lo Spirito universale forma e trasforma. Il concetto teologico della Grazia si inserisce proprio in questo discorso:

«Ogni individuo sente che l’opera sua è un’opera a lui commessa, che la forza sua gli viene prestata; e, nei momenti nei quali par quasi che la sua vita sia sospesa o inaridita, invoca e aspetta che l’Eterno Padre, il Tutto, rifluisca in lui, lo rianimi, lo spinga a un segno: e prega, invoca e aspetta la Grazia»[11. B. Croce, L’individuo, la grazia e la provvidenza, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 93.].

Per Croce non bisogna separare «il Tutto dall’individuo, Dio dall’uomo», e «la Grazia» non deve essere concepita «come intervento di forza estranea, ma come il corso e ricorso, l’alterno respiro, di un’unica forza»[12. Ivi, pp. 93-94.]. Se la Grazia «si riferisce alla forza spirituale in genere», la Provvidenza si riferisce «al particolare compito che a ciascun individuo, in ciascuna situazione è assegnato»[13. Ivi, p. 94.]. Croce sta parlando della «finalità interna»[14. B. Croce, La provvidenza, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 97.], ovvero della razionalità. Per Croce, fedele sempre al proprio immanentismo, l’uomo non si può distaccare da Dio, l’individuo dal Tutto, poiché ognuno di noi sente «la propria identità col Tutto» e, nei momenti di travaglio e di sofferenza, l’individuo invoca la Grazia che altro non è se non l’energia spirituale che gli è concessa dalla Provvidenza, ossia dallo Spirito eterno e universale che opera in lui e attraverso di lui. Nel concetto mitico-teologico della Provvidenza, secondo Croce c’è «un nocciolo affatto reale e critico», che almeno inizialmente sembra essere luogo di un irriducibile dualismo tra la responsabilità individuale e la necessità storica, un dualismo inaccettabile per l’immanentismo del filosofo, per il quale nella realtà c’è solo «la dialettica dello spirito nella varietà delle sue forme», attraverso l’alternarsi del momento teoretico in cui la storia si pensa come necessità e di quello etico-pratico in cui si agisce. Per Croce la volizione individuale s’intreccia con quella degli altri individui e le opere che nascono da questa connessione spirituale e vitale non sono mai il frutto della nostra individualità finita e transeunte, ma hanno sempre origine dalla forza spirituale che consente a ciascuno di noi di realizzarla. Nessun’opera umana può essere pensata al di fuori di queste condizioni. L’uomo compie solo e solamente le opere che la Provvidenza, ossia il corso storico in cui egli è inserito, gli consente effettivamente di portare a termine, mentre la Grazia invocata, ovvero la forza spirituale, l’energia spirituale che deve sorreggerlo nella creazione dell’opera gli permette di andare oltre quei confini della propria empiricità. L’appropriazione delle verità della religione cristiana continua nel “frammento” del 1922 sulla “Religiosità”, nel quale il rapporto tra l’immanentismo crociano e la tradizione religiosa viene rivendicato in maniera esplicita da Croce: «il filosofo, nel negare la religione, la nega in quanto forma mitologica, ma non già in quanto fede e religiosità»[15. B. Croce, Religiosità, in Id., Etica e politica, op. cit., p. 165.]. La fede, la religiosità, secondo Croce, non precede mai la riflessione filosofica, anzi nasce da essa e «dà all’uomo la coscienza della sua unità col Tutto, che è la prima e vera realtà». Il fine di questa unità è di «collocare Dio nel cuore dell’uomo, religione non solo dell’umanità ma umana, religione dell’uomo»; anche se «la vecchia mitologia ha ancora, di tempo in tempo, i suoi gagliardi ritorni», Croce sostiene, riprendendo e trasfigurando il dogma del Dio-uomo, che «l’uomo otterrà ancora una volta il proprio Dio, il Dio che gli è adeguato. Perché senza religiosità, senza poesia, senza eroismo, senza coscienza dell’universale, senza armonia, senza sentire aristocratico, nessuna società vivrebbe, e l’umana società vuol vivere, non foss’altro per questo, che essa non può morire»[16. Ivi, pp. 167-68.].

2. Gli scritti sul cristianesimo

Il processo di appropriazione e di trasfigurazione dei teologumena del cristianesimo diventa sempre più evidente con gli anni Trenta. Nella Storia d’Europa (1932), nonostante la religione della libertà abbia abbandonato tutto lo scheletro mitologico di leggende, dogmi e riti, tuttavia essa conserva in sé tutte le esperienze provenienti dalle religioni in quanto prodotti storici:

In verità, scrive Croce, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso, le compendiava in sé e proseguiva: raccoglieva, al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra di Socrate poneva l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo, del cattolicesimo, dell’agostinismo e del calvinismo, e quante altre erano state, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità[17. B. Croce, La storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2007, p. 29.].

Il teologumeno del Cristo ritorna nella Storia come pensiero e come azione (1938). Qui la figura del Christus patiens diventa la personificazione della Storia stessa, dalla quale al pari del principio di causalità deve essere espunto quello di un Dio o principio trascendente. Storia che «è a sé stessa il Dioniso dei misteri e il “Christus patiens” del peccato e della redenzione»[18. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 23.]. Si tratta della riproposizione di una tesi già contenuta nel Saggio sullo Hegel (1913), dove il Cristo era identificato come il simbolo dell’umanità e della storia stessa. Croce scriveva: «Il simbolo dell’umanità non è né Dio né l’uomo, ma il Dio-uomo, il Cristo, che è l’eterno nel temporale e il temporale nell’eterno: la Storia, alla quale è superfluo rivendicare l’avvenire, che essa ha già in sé»[19. B. Croce, Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 2 voll., a cura di A. Savorelli, con una nota di C. Cesa, Napoli, Bibliopolis, 2006, p. 163.]. Storia e umanità, universale e particolare sono la cifra del pensiero crociano, perché noi siamo questo rapporto[20. Rinvio al noto lavoro di R. Viti Cavaliere, Storia e umanità. Note e discussioni crociane, Napoli, Loffredo Editore, 2004, pp. 252.].

L’inizio del secondo conflitto mondiale e la grande e tragica lotta che allora contrappose la tradizione cristiano-umanistica dell’Europa e le “nuove religioni”, ovvero i nuovi culti mitologici della razza e del sangue, spinse il filosofo verso una riflessione più profonda sull’eredità cristiana. Naturalmente in Croce restavano il rifiuto del legalismo cattolico, ovvero della morale gesuitica, in particolare, e il sentimento severo di una morale che si manifesta, attraverso l’ideale della libertà, nella concretezza delle opere. In quest’ottica devono essere letti gli scritti crociani sul cristianesimo. Infatti, fra il 1939 e il 1942, Croce scrive due brevi saggi in cui emerge il carattere assolutamente non aristocratico della morale cristiana, la capacità di questa di parlare a ogni uomo al di là della propria concretezza storica.

Nel breve scritto[21. B. Croce, Un episodio dei Vangeli. Gesù e l’adultera, in Id., Poesia antica e moderna, Bari, Laterza, 1966, pp. 118-24.] del 1939, il filosofo sottolinea il carattere non intellettualistico dell’etica cristiana, totalmente diversa dall’etica classica. Nel racconto evangelico, osserva Croce, «non si elaborano teorie, ma si crea la vita stessa, la nuova vita cristiana», poiché Gesù, Paolo e gli altri «non erano indagatori, definitori e dimostratori di concetti etici, ma creatori di ethos, di costume morale»; questi grandi creatori di ethos hanno promosso, con la loro predicazione non dottrinaria, «un processo interiore, un modo di sentire, un approfondimento della coscienza morale», mentre «si fa per essa più viva e più presente la colpevolezza e impurità che è in ogni uomo, anche nei più puri e più volonterosi di bene, del rimordimento che ognuno ha motivo di provare di sé, del pericolo che ognuno di continuo vede a sé vicino»[22. Ivi, p. 121.].

Un altro saggio[23. B. Croce, Il “Beneficio di Cristo”, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari, Laterza, 1958, vol. I, pp. 211-28.], questa volta del 1940, prosegue il discorso crociano sulla rivoluzione morale del cristianesimo. Il filosofo, prendendo lo spunto da un piccolo libro uscito nel 1542, il Trattato utilissimo del beneficio di Cristo crocifisso verso i cristiani, un testo che ebbe grandissima diffusione durante la fine del Cinquecento, ma che fu ben presto condannato dalla Chiesa, nonostante, osserva Croce, non facesse che riprendere le affermazioni di Paolo. Secondo il Beneficio, infatti, le opere che l’uomo compie per la salvezza non devono essere e non vanno concepite in modo utilitario, quasi come uno scambio, un mercanteggiamento con Dio, ma buone e santificanti esse sono soltanto se si svolgono in sintonia con la fede. La Chiesa cattolica, osserva Croce, non poteva, per le ragioni del tempo (si ricordi che siamo all’inizio della Controriforma) accettare questa tesi, perché essa faceva valere «l’intimità e la forza della coscienza morale, di contro all’esteriorità e alla aridità della legge e del comando». In questo richiamo al primato della coscienza, c’era, sotto veste mitica (Cristo figlio di Dio, morto per liberare l’umanità dal peccato originale) una profonda verità filosofica che aveva avuto bisogno, per essere compresa da ogni uomo, di «consimili accompagnamenti, che prestano alle dottrine sostegno e forza e agevolezza nel loro accostarsi al mondo degli umani affetti»[24. Ivi, pp. 217-18.].

Nel 1942, in pieno secondo conflitto mondiale, quando oramai le sorti della civiltà europea sembravano agli occhi di tutti davvero volgere verso l’annientamento a causa dell’imperante barbarie del nazismo, Benedetto Croce scriva il noto saggio Perché non possiamo non dirci «cristiani» (1942), che venne accolto dal mondo cattolico e laico, naturalmente con le poche eccezioni, senza comprenderne il vero significato a tal punto che alcuni accusarono il filosofo di essere un opportunista e affermarono che il saggio altro non era che un documento politico scritto con il solo fine di ottenere l’appoggio della Chiesa cattolica nella lotta contro l’ateismo del comunismo. Nulla di tutto questo si trova nel saggio del ’42. Infatti, Croce scrive il saggio per sottolineare anche qui, da un lato, la rivoluzione morale compiuta dal messaggio evangelico; dall’altro, l’eredità spirituale che più che mai oggi come allora era ed è ancora nostra. Per Croce il cristianesimo

è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparsa o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo[25. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», in Id., Discorsi di varia filosofia, 2 voll., a cura di A. Penna e G. Giannini, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2011, vol. I, p. 18. Per la genesi e l’analisi critica del saggio del ’42, rimando a G. Cotroneo, Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, 2015, in particolare al capitolo secondo, Una religione senza trascendenza, pp. 17-39.].

Non dobbiamo lasciarci ingannare da queste parole, come se rappresentassero un desiderio di trascendenza di contro allo storicismo assoluto, perché subito dopo Croce dice che tutte le rivoluzioni storiche e «anche la rivoluzione cristiana fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi»[26. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. I, p. 19.]. Il cristianesimo porta nel mondo un nuovo modo di vivere la morale e il concetto di Spirito. La morale trova il proprio fondamento nell’amore, «amore verso tutti gli uomini, senza distinzioni di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo»[27. Ivi, p. 20.]. Nel concetto di Dio come «l’eterno creatore delle cose e l’unico principio di spiegazione», secondo Croce, «s’instaurava il concetto dello spirito, e Dio stesso non fu più concepito come indifferenziata unità astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme, perché vivente e fonte di ogni vita, uno e trino»[28. Ibidem.].

Tutto questo, che Croce definisce come «nuovo atteggiamento morale» e «nuovo concetto», si presentò «in parte»[29. Ivi, pag. 21. Anche in questo saggio, Croce sottolinea come il cristianesimo sia composto da miti: non solo da miti corpulenti, ma anche da miti “gravidi” di verità: «Questo nuovo atteggiamento morale e questo nuovo concetto si presentarono in parte ravvolti in miti – regno di Dio, resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi, espiazione e redenzione che toglie i peccati degli eletti al nuovo regno, grazia e predestinazione, e via dicendo – passarono laboriosamente da miti più corpulenti ad altri più fini e trasparenti di verità; si intrigarono in pensieri non sempre portati ad armonia ed urtarono in contraddizioni innanzi a cui si soffermarono incerti e perplessi; ma non perciò non furono sostanzialmente quelli che abbiamo in breve enunciati e che ognuno sente risuonare dentro di sé quanto pronunzia a sé stesso il nome di “cristiano”» (ibidem).] in forma mitica. Il cristianesimo, però, di cui il filosofo rivendica l’appartenenza alla storia dell’Occidente, è un codice puramente morale. Croce, infatti, non era per nulla propenso alla dogmatica o alle altre dottrine della religione cristiana. Croce scrive:

Quei genî della profonda azione, Gesù, Paolo, l’autore del quarto evangelio, e gli altri che con essi variamente cooperarono nella prima età cristiana, sembravano col loro stesso esempio, poiché fervido e senza posa era stato il loro travaglio di pensiero e di vita, chiedere che l’insegnamento da loro fornito fosse non solo una fonte di acqua zampillante da attingervi in eterno, o simile alla vite i cui palmiti portano frutti, ma incessantemente opera, viva e plastica, a dominare il corso della storia e a soddisfare le nuove esigenze e le nuove domande che essi non sentirono e non si proposero e che si sarebbero generate di poi dal seno della realtà[30. Ivi, p. 25.].

Il Gesù storico, come Paolo e Giovanni, è solo un maestro di morale. Eppure, il filosofo si chiede se «un’altra rivelazione e religione, pari o maggiore di questa che lo Hegel definiva la “religione assoluta”, accadrà nell’uman genere, in avvenire di cui non si vede ora il più piccolo barlume»[31. Ivi, pp. 28-29.]. Fino a quel momento dobbiamo continuare a conservare come nostra la religione cristiana, trasfigurando i suoi stessi concetti. In questo senso deve essere letta la conclusione del saggio:

E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e dignificata come «logica umana», ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi «divina», intendendola nel senso cristiano come quella alla quale l’uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo[32. Ivi, p. 29.].

Il laico Croce, dunque, si appropria “barbaricamente” del Dio cristiano, traducendolo nel proprio concetto filosofico di Spirito. Ciò significa porsi anche in continuità con la religione tradizionale, quale cifra dell’identità dell’Occidente.

3. Trinità, peccato e redenzione

Il rapporto tra religione e filosofia dunque, come Croce esplicherà nel tardo saggio Religione e filosofia (1947), è sempre un rapporto dialettico: per un verso, di non-identità, perché la filosofia «espunge da sé e risolve in sé l’elemento mitico, laddove la religione lo serba, lo dilata, lo consolida e in esso si chiude e si rafforza»; per l’altro verso, rappresenta un rapporto d’identità, attestato «dal carattere religioso della filosofia e filosofico della religione»[33. B. Croce, Filosofia e religione, in Id., Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2015, p. 51.]. La filosofia per Croce, come per Hegel, nasce dalla religione: «Le religioni, che sono la filosofia stessa (dalla quale si distinguono empiricamente come quelle filosofie in cui abbonda e soverchia l’elemento mitico rispetto alle altre che lo risolvono di continuo nel travaglio del pensiero), ci hanno dato i primi abbozzi di questa relazione dell’universale con l’individuale, e perciò le loro parole e formule tornano sovente nelle nostre parole e sotto la nostra penna, riferite al critico senso che hanno assunto o vengono assumendo»[34. B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Id., Terze pagine sparse, 2 voll., Bari, Laterza, 1955, vol. I, p. 52.].

Questo impossessarsi barbarico dei dogmi della religione cristiana non si ferma, però, agli scritti sul cristianesimo. Infatti, per Croce la Trinità, questa volta nei Pensieri varî (1943), diventa nuovamente il simbolo dell’eterno movimento di creazione, caduta e redenzione dello Spirito universale:

Nella continua creazione che è la vita del mondo c’è un perpetuo ascendere dalla mera vitalità alla contemplazione estetica, al pensiero, all’azione morale, un perpetuo ridiscendere da questa superiore spiritualità e profondarsi nella nuova vitalità per risalire a una più ricca spiritualità della bellezza, della verità, della bontà. Che è l’eterno ritmo del mondo, il corso e ricorso vichiano, il Dio che è creatore e redentore supremo, creatore perché redentore, redentore perché creatore, Dio e Cristo che espia in sé tutti i peccati del mondo, in quella unitaria dualità la cui armonia è lo spirito. Se e come questo sia stato sentito o intravisto nel cristianesimo e nella teologia cristiana è un punto d’interpretazione storica; ma, in ogni caso, creazione, redenzione e trinità possono qui valere da simboli filosofici[35. B. Croce, Pensieri varî (XXVI), in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. II, pp. 566-67.].

Tra le forme, o momenti, dello Spirito non v’è una relazione di contraddizione o di opposizione, e nemmeno un’opposizione-superamento alla maniera di Hegel, ma una relazione, che Croce definisce nesso dei distinti, che è quella di una reciproca autonomia e complementarietà, di condizionamento reciproco, arricchimento, eludersi e colludersi: una circolarità nella quale, come scrive Croce nel tardo saggio Osservazioni intorno alla dottrina delle categorie (1950), «spariscono le persone dinanzi alle forme e ai momenti dello spirito»[36. B. Croce, Osservazioni intorno alla dottrina delle categorie (Schiarimenti filosofici), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1998, p. 140.].

Determinante, però, in Croce è ancora il riferimento al dogma del Dio-uomo. Infatti, la simbologia cristologica viene adottata da Croce nuovamente nel saggio Per la storia del comunismo in quanto realtà politica (1943), nel quale scrive che: «Soggetto di questa storia dei partiti socialisti non è, dunque, il comunismo, ma il Christus patiens, la travagliata e travagliante umanità, che sostiene le sue prove dolorose e tuttavia ad esse non soccombe»[37. B. Croce, Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. I, p. 276.].

Anche nel celebre saggio L’Anticristo che è in noi (1946), il Cristo diventa simbolo di creazione e redenzione nella storia:

Il vero Anticristo – scrive Croce – sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo, opposto al Cristo: L’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuoi comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione[38. B. Croce, L’Anticristo che è in noi, in Id., Filosofia e storiografia, op. cit., pp. 293-94.].

Se nel saggio appena citato il Cristo è simbolo di vita e creazione, opposto all’Anticristo quale incarnazione della distruzione viva e presente nell’uomo, nella conferenza Universalità e individualità nella storia (che fa parte di una serie di conferenze tenute nell’Istituto Italiano per gli Studi Storici negli anni 1948-1949 e 1949-1950) Croce, nell’intento di criticare ogni forma di storia superiore, sia essa filosofia della storia o storia sacra, ripropone il Cristo come simbolo dell’unità dell’universale e del particolare nella storia. Il filosofo, infatti, scrive che per «porre siffatta storia superiore bisogna distaccare Dio dal mondo, l’universale dall’individuale, il creatore dalla creatura, e tornare al Geova ebraico, troppo leggermente dimenticando il Dio-uomo che fu Gesù. Ma anche qui non voglio entrare in teologia, né scandalizzare gl’impreparati con lo scoprir loro bruscamente quel che portano nel fondo stesso del loro cuore e della loro mente e che non sono ancora esercitati a mirare con sguardo fermo e con severità filosofica o religiosa che si dica»[39. B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 51.]. E ancora nelle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1951), il Christus patiens diviene la personificazione della finitezza dell’uomo nella storia e del travaglio di questa, travaglio al quale non si deve soccombere: «L’individuo nel corso della sua vita è il Christus patiens di dolori terribili e di casi atroci, e ognuno di noi ne porta il ricordo del quale a volte non trova il modo di disfarsi e pensa che solo con la morte potrà non più offenderlo»[40. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica (La vita, la morte e il dovere), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 55.].

Questi miti e dogmi, che Croce definisce anche come «proposizioni religiose» che «vanno rispettate e tenute in molto conto, perché quasi sempre racchiudono verità che bisogna ben determinare e serbare viventi»[41. B. Croce, Postille (Avvertimenti filosofici), in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. II, p. 203.], permettono al filosofo di salire dal mito o dogma al concetto e di scendere dal concetto al mito o dogma. Il «filosofo», come Croce stesso ha osservato, «non nega mai la verità di Dio, e le dispute non cadono mai su questo punto, ma sul vario modo di definirlo»[42. B. Croce, L’uomo vive nella verità, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 10.]. La trasfigurazione del Dio cristiano a opera della filosofia, che, e lo ripetiamo nuovamente, è a tutti gli effetti religione, rappresenta per Croce anche una sua comprensione più pura alla luce del concetto, a differenza dei preti e della Chiesa che (e qui Croce riprende per la sua ironia il Faust di Goethe) ne predicano un’immagine mitologica e leggendaria:

Ahimé, di Dio non è possibile disfarsi, perché, come diceva Jacopone, la sua presenza ci circonda e da ogni parte ci desta paura; e questa presenza, con l’amore e il timore che infonde, è forse in noi ben più viva che in tanti di coloro che, contrariamente al suo comando, lo nominano troppo. Senonché noi pensiamo e parliamo di lui con parole simili a quelle di Faust, la quali scandalizzarono la povera Margherita a cui suonavano alquanto diverse dalle parole del suo curato, che d’altronde, nel dirigere la sua coscienza, fu assai lesto ad approfittarsi dei gioielli forniti da Mefistofele e a lei donati da Faust[43. B. Croce, Postille (Avvertimenti filosofici), in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. II, p. 211.].

Lo Spirito, il Dio di Croce, non può essere separato dall’uomo: è un Dio che coopera con l’uomo e viceversa. L’uomo partecipa a questa creazione perpetua attraverso la propria libertà. La libertà umana, mezzo di rigenerazione delle forze spirituali e vitali, permette di passare non dalla potenza all’atto, ma dall’attualizzazione del reale alla possibilità dell’azione. Questo impulso del rinnovarsi dell’azione, e di conseguenza della vita, è possibile grazie anche alla libertà che, nella Storia d’Europa, il filosofo concepiva non come «un ergon» ma come un’«energheia», perché ha sempre «una materia nuova, spesso spinosa e ritrosa, con la quale deve lottare per domarla e plasmarla»[44. B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, op. cit., p. 321.] per evitare di essere sottomesso ad essa. La libertà è, così, mezzo di rigenerazione delle forze spirituali e vitali che permettono di passare non dalla potenza all’atto, ma dall’attualizzazione del reale alla possibilità dell’azione. Nel saggio Contro la «storia universale» e i falsi universali. Encomio dell’individualità (1943), Croce scrive:

E quando nel lavorare con gli altri esseri, nella famiglia, nella società, nello stato, nella patria, nascono le discordie e i malintesi tra loro e noi, e le crisi dolorose, non sacrifichiamo già a loro la nostra individua coscienza, ma facciamo parte da noi stessi, ci opponiamo a tutti, ci ripetiamo per conforto le parole superbe dei poeti, e in quest’atto, e in modo più degno, a tutti ci ricongiungiamo, famiglia, patria, stato, umanità, e con loro tutti, in modo nascosto e salutare, collaboriamo, perché ritroviamo nella nostra individualità l’universalità, Dio che c’ispira, Dio che ci guida e ci sorregge, Dio alla cui gloria serviamo. E questa perpetua redenzione, questa perpetua salvazione che l’individuo attua in sé di sé, è – come le due precedenti della libertà di pensiero e di azione – la definizione della religiosità[45. B. Croce, Contro la «storia universale» e i falsi universali. Encomio dell’individualità, in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. I, pp. 161-62.].

Nel travaglio degli eventi storici gli individui non sono strumenti dello Spirito, come accadeva nella riflessione hegeliana, ma collaborano con lo Spirito universale nella costruzione e nell’arricchimento del mondo storico. L’umanità opera assieme al:

Dio sempre in noi presente, che è e non è noi stessi, e noi stessi siamo e non siamo noi, e ci solleviamo e ci affermiamo in ogni istante, e non ci perdiamo mai del tutto, non potendo mai rinnegare del tutto l’esser nostro umano, capace sempre di redenzione, onde la storia è stata non una volta sola definita una «teofania», nella quale il divino si travaglia e opera incarnato nell’umano, che di esso soffre e da esso attinge coraggio e pazienza. Solo così la storia acquista un senso, cioè ha un senso; né mai l’ha ottenuto o può ottenerlo d’altronde[46. B. Croce, Esperienze storiche attuali e conclusioni per la storiografia, in Id., Filosofia e storiografia, op. cit., p. 309.].

Solo attraverso questa tensione e unità di universale e individuale conosciamo, e qui Croce riprende l’affermazione di Warburg, come «sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare»[47. B. Croce, L’uomo vive nella verità, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 14.]. Questo elevarsi all’universale Spirito, a Dio, vuol dire essere in contatto con esso per tutta la vita. Nella storia, però, non c’è mai una redenzione che si dà una volta e per sempre:

E poiché in questa natura dello spirito, molteplice ed una, si accende e consuma l’opposizione che nasce dalla distinzione delle forme, e, come si dice, dalla lotta del bene col male, consegue l’impossibilità per l’uomo di farsi tutto bene o tutto male. Può l’uomo vincere questi e quei mali particolari in sé stesso, ma non potrà mai vincere il male. Coloro che si propongono questo fine, entrano in un processo di follia perché vorrebbero vivere contro la legge della vita. E questo dell’unità della vita nel bene e nel male è il vero peccato originale, che non ha redenzione per sangue che si versi dagli dèi o dai figliuoli di Dio, almeno nella vita che noi conosciamo e che sola possiamo concepire[48. B. Croce, Il peccato originale, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 147.].

Per Croce «il bene e il male non sono separabili»[49. B. Croce, Ottimismo e pessimismo, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 62.], e «questi nella loro contrarietà si legano l’uno all’altro, vivono l’uno nell’altro e si condizionano a vicenda»[50. Ibidem.]. Perciò «ogni bene – osserva Croce – lascia sempre dietro di sé uno strascico di male da correggere, e, se non fosse così, il mondo risolverebbe tutti i suoi problemi in un attimo, cioè non esisterebbe»[51. Ibidem.]. Il male non può mai essere vinto e mai essere cancellato definitivamente dal mondo, perché ciò significherebbe negare la vita stessa. Contro il male possiamo solo lottare attraverso la creazione di vita, e la vita si crea grazie alle eterne forme spirituali, fonti di ogni creazione. Quello a cui Croce invita è un agonismo continuo, che rispecchia quello degli opposti all’interno delle forme spirituali. Lottare contro il male vuol dire elevarsi continuamente all’universale, allo Spirito, al Dio, che è in noi. Ma questo elevarsi all’universale, allo Spirito, vuol dire essere in contatto con Dio per tutta la vita. In una delle sue pagine più belle, il Soliloquio (1951), Croce, che molto probabilmente sentiva proprio l’imminente avvicinarsi della morte, scrive:

Vero è che questa preparazione della morte è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio; ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora accade che c’imponga una pratica inconsueta. Le anime pie di solito non la pensano così, e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo[52. B. Croce, Soliloquio, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 120.].

Ciò è il fine stesso della Filosofia dello spirito. Infatti, nel maggio del ’52, Croce scrive: «Che Dio sia inseparabile dall’uomo, è proposizione della Filosofia dello spirito»[53. B. Croce, Contro le metafisiche (Schede. Terza serie), in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 147.]. Una proposizione che Croce ha fatto propria per tutta la vita.

4. Il carteggio con Maria Curtopassi

In questo contesto si inserisce il carteggio tra Croce e la marchesa Maria Curtopassi. Nella lettera del 3 gennaio 1942, Croce scrive: «c’è un fondo di fede umana in ciò che è superiore e solo ha valore, che io ho ritrovato talvolta nelle persone più da me diverse di concetti e di opere, e pel quale mi sono sentito congiunto intimamente con un prete o con un materialista, assai più che non con altri che con me consentiva nelle idee e nell’azione pratica. Forse questo intimo e profondo consenso, questo fluido impalpabile, è ciò che Ella chiama, e che anche a me piace chiamare, cristianesimo»[54. B. Croce-M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio 1941-1952, a cura di G. Russo, Milano, Archinto, 2007, pp. 38-39. Come buona recensione al carteggio consiglio di leggere R. Pertici, Quando Benedetto Croce dialogava su Dio, in «L’Occidentale. Orientamento quotidiano», 16 aprile 2008.].

In una successiva lettera del 30 agosto, Croce ribadisce di essere «tutto pensiero e azione», e di non avere intenzione di cercare fughe nell’ineffabile, in «qualcosa di poetico e amoroso»; eppure, lo stesso Croce si dichiara «profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell’impulso dato da Gesù e da Paolo». Anzi, il filosofo svela alla Curtopassi che nell’etica cristiana dell’amore universale ha trovato l’unico rimedio possibile alla grave crisi morale che il mondo sta attraversando:

del resto, non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un’altra che vorrebbe risalire all’età precristiana, e anzi preellenica e preorientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell’orda? Portae Inferi non prevalebunt. Spero bene[55. B. Croce-M. Curtopassi, Dialogo su Dio, op. cit., pp. 54-55.].

Inoltre, incalzato dalla Curtopassi, Croce non esita a interessarsi di questioni teologiche. Nella lettera del 29 aprile 1943, nega che Dio possa essere concepito come persona:

Per quel che riguarda la negazione della persona nel concetto di Dio, con essa non s’intende diminuire Dio, ma accrescerlo, concependolo ben più che persona, creatore di tutte le persone. Ricordo un epigramma di Goethe a chi lo rimproverava o lo scherniva perché egli aveva tolto al suo Uno-Tutto la personalità: – Der Professor – diceva Goethe al suo avversario che era un professore – Der Professor ist eine Person, Gott ist Keine! Nelle sue prime pagine, che Ella mi fece leggere, notai un forte bisogno mistico. Ora io mi rendo conto della grande importanza del momento mistico ma questo è essenzialmente negativo (negazione del mondo, del pensiero, della parola, ecc.) e vale perciò solo per quel che, negando, esso suscita: nuove immagini e parole, nuovi pensieri, ecc. E, in effetto, anche in Lei si è convertito in poesia e in meditazione e indagine di verità. Il mero momento mistico non si può mai afferrarlo nella realtà perché è distacco dal mondo e non è reale se non nelle nuove affermazioni del mondo, dico del mondo divino-umano[56. Ivi, pp. 77-78.].

Eppure, con questo Dio, come Croce scrive nella lettera del 21 dicembre del ’47, il filosofo resta sempre in dialogo: «Io, modestamente, so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima»[57. Ivi, p. 105.].

Infine, nella lettera del 29 ottobre del 1948, Croce, dopo aver criticato la proposta di reintroduzione della teologia nell’insegnamento universitario, ribadisce che questo Dio, e qui rimane fedele al principio fatto proprio sin dalla Filosofia dello Spirito della traduzione concettuale del dogma dell’incarnazione, non è possibile separarlo dall’uomo. Egli scrive: «Quanto alla teologia che ora si vuole di nuovo nelle nostre università, a me pare vietata dal Decalogo, che vuole che il nome di Dio non sia pronunciato invano. E invano si pronuncia quando lo si prende in astratto e lo si separa dall’uomo»[58. Ivi, pp. 121-22.].

In conclusione, nella lettera del 1° febbraio 1949 sono interessanti due aspetti. Il primo è la critica del filosofo nei confronti della cultura cattolica del suo tempo:

Certo la cultura cattolica è ora inferiore assai a quella del mondo laico, e avrebbe bisogno di rinnovarsi e di autocriticarsi. Ma il male è che la Chiesa ha perduto da quattro secoli la sua plasticità, si è irrigidita e se tentasse di muoversi e progredire, correrebbe il rischio di andare in pezzi. E se affrontasse coraggiosamente questo rischio e andasse innanzi, che cos’altro poi troverebbe? Quel complesso di verità assodate che uomini cristiani ma laici hanno prodotto col loro lavoro: eredità che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggerla anche per accrescerla ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidommatico e critico, che non ammette verità che non nascano dal pensiero, il quale è esso stesso verità.

Una volta un filosofo passava con un amico dinanzi all’edificio della Sapienza di Roma e lesse ad alta voce la scritta che è sulla porta: Principium Sapientiae timor Domini, e osservò che andrebbe sostituita dall’altra: Principium Sapientiae rerum omnium dubitatio. Ma l’amico gli avrebbe dovuto rispondere che le due scritte non erano in contraddizione, perché il timore del Dio che è verità, vuole che nell’accingersi a cercare la verità l’animo nostro metta in dubbio tutte le affermazioni per accettare solo quella che il pensiero creerà in lui, ossia Dio che è pensiero[59. Ivi, p. 124.].

Dio resta sempre oggetto del pensiero, come lo stesso Croce sottolinea anche nella lettera del 18 marzo del 1949, scrivendo alla Curtopassi che in un articolo sul «Mondo», il filosofo affronta «la fede, o, per meglio dire, la verità dell’esistenza di Dio, con argomenti non teologici. Ma forse lei non ne prenderà scandalo, perché, se mai, la mia dimostrazione non nega, ma integra la fede»[60. Ivi, p. 126.].

Ritornando alla lettera del 1° febbraio del ’49, Croce ribadisce anche e nuovamente la propria negazione nei riguardi della speranza cristiana in una futura condizione paradisiaca:

L’obiezione al concetto di paradiso è che in esso è soppresso il travaglio del dolore, senza di cui non si dà vita, che a ogni istante è superamento di dolore e di morte. La vita immortale esprime invece un concetto vero, ossia che c’è una parte di noi, l’opera nostra, che si stacca da noi e vive nelle nuove opere che i viventi creeranno col sudore della fronte, ossia col dolore. Poiché vive nella nuova vita come premessa essa è vita, ma poiché la premessa è necessaria e indistruggibile, è immortale. È serena, vita-non vita, e a questa l’uomo aspira, il sopravvivere di quel che egli sente bello, vero, buono, senza che sia più legato alle sofferenze e agli errori e peccati dell’individuo[61. Ivi, pp. 124-25.].

(fasc. 19, 25 febbraio 2018)