(…) Svanire,
è dunque la ventura delle venture (…).(E. Montale, Portami il girasole ch’io lo trapianti, in Id., Ossi di seppia, 1925)
Ci tengo innanzitutto a ringraziare il Professor Enzo Scotti, la Professoressa Silvia Zoppi, la Fondazione Mario Scotti e tutta la famiglia per avermi coinvolta sia nella realizzazione del pregevole volume, in ricordo del mio Maestro[1. Filologia e creatività. Il mondo di Mario Scotti, a cura di S. Zoppi Garampi, Napoli, Bibliopolis, 2016.], che stasera si presenta, sia nell’evento di oggi, che rientra nell’ambito delle importanti celebrazioni che vedono protagonista, in questi giorni, la nostra città[2. Si riproduce parte del testo della relazione tenuta all’Incontro dal titolo Europa e idealità culturale in Benedetto Croce e Mario Scotti, a cura della Fondazione Mario Scotti, tenutosi a Palazzo Ferrajoli venerdì 24 marzo 2017 nell’ambito delle Celebrazioni per il LX anniversario dei Trattati di Roma (1957-2017), e al quale hanno partecipato, oltre all’autrice del contributo, l’On. Professor Vincenzo Scotti, il Professor Francesco Sisinni (Direttore Generale del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali a. r.), la Professoressa Matilde Dillon Wanke (Università degli Studi di Bergamo), la Professoressa Silvia Zoppi Garampi (Università Suor Orsola Benincasa) e l’attrice Maria Letizia Gorga.]: celebrazioni alle quali l’Università nella quale mi sono formata e in cui insegno da dodici anni come docente a contratto, ovvero la “Sapienza”, sta dedicando molta attenzione, in queste ore, ospitando rettori provenienti da atenei di tutto il mondo, che si stanno confrontando su temi di rilevante centralità, che riguardano il futuro della ricerca e della didattica e l’internazionalizzazione delle università.
In relazione al volume che oggi si presenta, ci tengo anche a ringraziare nuovamente Silvia Zoppi per il meticoloso lavoro di curatela grazie al quale questa preziosa miscellanea ha visto la luce; e, non secondariamente, l’editore Bibliopolis per l’usuale attenzione con la quale segue le proprie pubblicazioni: oltre a Emilia Del Franco, per la sua intelligenza, la sua gentilezza, la competenza e il suo entusiasmo, colgo l’occasione per ricordare, seppur velocemente, il compianto Francesco Del Franco, raffinato editore, generoso uomo di cultura, appassionato cultore di studi crociani nonché fraterno amico di Mario Scotti, al quale mi fa piacere stasera rivolgere un pensiero affettuoso e grato.
E ora vengo alla ragione della mia presenza qui, oggi.
Ho avuto il privilegio di essere allieva di Mario Scotti durante gli ultimi quindici anni della sua attività di studioso.
Lo conobbi nell’autunno del 1993: avevo diciott’anni e stavo, proprio allora, iniziando il mio percorso di studi universitari. Ero reduce da un’estate tormentata, trascorsa a riflettere e ponderare e valutare e soppesare; nonostante la mia netta predilezione per le materie umanistiche, all’uscita dal liceo classico non ero, infatti, ancora certa di quale dovesse essere la strada da percorrere, per me.
Alla fine, avevo optato per la mia passione e mi ero iscritta a Filosofia, iniziando a frequentare alcuni corsi nella splendida sede di Villa Mirafiori. Nel mio Piano di studi, però, erano ovviamente previsti anche svariati crediti di Letteratura italiana e, “in canale”, come si diceva allora, ero stata assegnata, per cognome, al Professor Mario Scotti. Ne ero felice, perché quell’anno Scotti teneva un corso annuale sui Manifesti della polemica classico-romantica, argomento per me di indubbio interesse, che mi entusiasmava e mi motivava molto alla frequenza.
Ricordo ancora quelle prime due ore di lezione di uno dei primi giorni di novembre, nel tardo pomeriggio: l’Aula 1, l’aula più grande e prestigiosa della Facoltà, era gremita di studenti, seduti persino sui gradini.
Quando Scotti iniziò a parlare, il brusio s’interruppe di colpo e fummo tutti rapiti e trasportati nel vivo di note questioni dibattute all’inizio e in pieno Ottocento come fossero problematiche aperte, che dovevano necessariamente riguardarci da vicino e coinvolgerci con la stessa intensità che allora, due secoli fa, animava i contendenti.
Chi ha conosciuto Mario Scotti ricorda bene le sue straordinarie doti di affabulatore, la sua capacità di parlare per ore a braccio senza mai perdere il filo, aprendo e chiudendo parentesi, sostenendo periodi complessi e articolati senza mai un ripensamento, un’indecisione, una sbavatura. Incantava l’uditorio con la propria raffinata e sterminata cultura, con il linguaggio sempre alto e insieme sempre comprensibile, con la limpidezza delle idee, la chiarezza dell’esposizione, l’intelligenza delle associazioni, la sapienza dei riferimenti dotti, la sua indimenticabile ironia: fatto sta che, uscita dall’aula, quella sera ebbi come una “folgorazione” e il giorno dopo mi recai in Segreteria per richiedere il passaggio al Corso di Laurea in Lettere.
Quell’anno frequentai tutto il corso e sostenni l’esame finale, superandolo col massimo dei voti. Avevo già instaurato un rapporto di particolare stima e fiducia con colui che sarebbe stato il mio Maestro.
Questa premessa mi conduce a parlare delle ragioni che mi hanno indotto a partecipare al volume miscellaneo che stasera presentiamo proprio con un contributo sul rapporto tra Mario Scotti e la letteratura dialettale[3. M. Panetta, Mario Scotti e la letteratura dialettale: dagli appunti del Corso universitario del 1994/1995, in Filologia e creatività. Il mondo di Mario Scotti, op. cit., pp. 113-52.].
L’anno accademico successivo, infatti, nel 1994/1995, Scotti tenne un corso su questo tema: all’epoca, da diciannovenne non edotta di certi argomenti e forse pregiudizialmente non attratta da tali questioni, avevo deciso di disertare le sue lezioni, in tutta sincerità non particolarmente attratta dalla tematica che aveva prescelto.
Devo all’insistenza di un caro amico e collega la decisione di seguire il secondo degli incontri: di nuovo, anche allora si produsse lo stesso incantesimo che mi aveva affascinato l’anno precedente. In sole due ore compresi che quel ciclo di lezioni avrebbe rappresentato un tassello importante per la mia formazione umana e culturale: così, lo frequentai tutto, innamorandomi della letteratura dialettale, e posi le basi per il mio futuro di laureanda in Letteratura italiana. Da quella scelta sono derivati la mia “iniziazione” allo studio di Benedetto Croce, la laurea con Scotti, l’elaborazione di un progetto di ricerca e il conseguente lavoro di dottorato di ricerca di cui Scotti è stato tutore, l’intenso incontro a Napoli con Alda Croce, la pubblicazione del Croce editore nell’Edizione Nazionale delle Opere[4. M. Panetta, Croce editore, Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 2006, voll. 2.]; in seguito alla sua scomparsa, la mia edizione critica del Carteggio perlopiù inedito tra Croce e Papini[5. B. Croce-G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, con introduzione di G. Sasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012.] e, forse, anche il “Premio Marino Moretti” per la Filologia del 2013 e l’Abilitazione Scientifica Nazionale come professore associato del 2014. Oltre, ovviamente, ad anni per me fondamentali di rapporto umano, culturale, professionale e spirituale col mio Maestro.
Come sanno bene le sue figlie ˗ Maria Teresa, Aureliana ed Elisa ˗ cui sono legata da profondo affetto e sincera stima, Mario Scotti è stato per me una guida, un Maestro appunto, ma è stato anche un secondo padre: ero molto legata a lui e alla moglie, Stefania, che mi hanno fatto spesso sentire parte della loro bellissima famiglia, specie in certi sabati pomeriggio, trascorsi a discorrere lungamente con loro nell’accogliente casa di via Arno che ora ospita la Fondazione a lui intitolata.
Scotti era un intellettuale di vecchio stampo: aveva una vera e propria cultura enciclopedica, che spaziava dalla letteratura al pensiero filosofico, dagli studi storici a quelli giuridici etc. Si poteva discorrere agevolmente con lui di qualsiasi argomento, imparando sempre e traendone variegati spunti per autonomi approfondimenti; inoltre, era coadiuvato da una formidabile memoria, che gli consentiva di tenere a mente, oltre a opere intere dei più importanti poeti della letteratura mondiale, anche versi di autori minori, di ambito settoriale, sconosciuti ai più. Ricordo sempre che consigliava di studiare la poesia imparandone anche a memoria i versi, per “sentire” al meglio il loro ritmo, componente fondamentale di ogni componimento poetico.
Sapeva coniugare la propria acribia di valente filologo con una naturale disposizione all’ascolto degli esseri umani e, dunque, dei testi: con un’attitudine da raffinato esegeta. In lui filologia e filosofia, vichianamente e crocianamente, si sposavano e si coniugavano nella concreta prassi delle sue impeccabili edizioni critiche e, insieme, nell’acutezza delle sue indimenticabili interpretazioni.
La serietà e il rigore del suo metodo, però, erano sempre accompagnati dal sorriso col quale guardava alle cose, dall’ironia leggera con la quale sapeva esorcizzare anche momenti di più cupa malinconia e di temporaneo scoramento. Reagiva sempre combattendo, coadiuvato dalla solidità degli affetti e dal conforto della fede; ma sapeva perdonare, consapevole della fragilità della nostra natura di esseri umani.
Anche negli ultimi mesi difficili della sua esistenza, ha sempre mantenuto il proprio sguardo acuto sulle cose, il sorriso sornione e la propria pacata gentilezza.
Voglio chiudere col ricordo di una lezione che ebbi l’onore di tenere assieme a lui presso la Link Campus University, nell’autunno del 2007: credo sia stata la sua ultima lezione e per me accompagnarlo, allora, ha rappresentato un vero privilegio.
Il corso del quale eravamo ospiti era incentrato sul rapporto fra letteratura e arti tra Otto e Novecento: erano previste tre ore di lezione e iniziò il mio Maestro.
Parlava con un filo di voce: ricordo la mia preoccupazione, perché non si affaticasse, e insieme lo stupore per l’inattesa reazione degli studenti che ci sedevano di fronte.
Regnava un religioso silenzio. Appena iniziò a parlare, tutti posarono le penne sui quaderni degli appunti e iniziarono a seguirlo con vigile attenzione: nei loro sguardi, la sicura consapevolezza di essere di fronte a un uomo di cultura e umanità fuori dal comune; di avere un’opportunità rara e forse irripetibile di crescita e di maturazione.
Ricordo bene che terminò il proprio discorso con un lungo riferimento a quel bellissimo passo della Poesia di Croce, l’estetica del 1936, nel quale si discorre del velo di Malinconia che avvolge la Bellezza, e dunque la Poesia. Tutti ci rendemmo conto che quel passo, più che illustrarlo, lo stava vivendo e quasi impersonando: come il fiore tenero e variopinto che timidamente sboccia nel deserto, come la ginestra di leopardiana memoria che vince l’aridità delle brulle pendici del Vesuvio con l’«ansietà del suo volto giallino» (per citare un Montale caro a entrambi), il Maestro scandiva a fatica vibranti parole sul fare poetico, vincendo con lucidità, caparbietà e determinazione la battaglia contro la propria terrena fragilità, e così imprimendo, negli animi di noi uditori, potenti suggestioni, che non potranno svanire.
(fasc. 14, 25 aprile 2017)