Dopo averlo così schernito,
lo spogliarono del mantello,
gli fecero indossare i suoi vestiti e
lo portarono via per crocifiggerlo.
(Matteo 27:31)
Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini termina in una babilonia di passi: preceduto dai soldati e seguito dai fedeli, Gesù marcia verso il Gòlgota, e ad ogni indugio viene castigato, tanto inesorabile deve sembrare la morte di un uomo per la redenzione di tutta l’umanità. Il movimento della Storia si contrappone alla stazione di una donna[1. È interessante notare che in Matteo Maria non compare: la Sacra Scrittura è tutta tesa a registrare il fare degli uomini per il compimento della legge divina. Fermando la telecamera sulla madre di Gesù, Pasolini introduce una riflessione sulla sofferenza del personaggio femminile causata dalla Storia.]. A pochi passi dal figlio gabbato, denudato, inchiodato, incoronato, innalzato, Maria cade in ginocchio, in un grido che lo spettatore non avverte. La sua aridità è la conclusione di un appetito universale. Sceneggiatura di un soggetto bloccato, trafitto, trafugato, svenuto nel valzer della Storia.
Nunc et in hora mortis nostrae. Amen[2. G. Tomasi di lampedusa, Il Gattopardo (1958), nuova ed. riveduta a cura di G. Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 31.].
Comincia così Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: nel segno della religione cattolica. Accomodati al salotto come ai traviamenti terreni, i taciuti peccatores di casa Salina si innalzano alla Vergine Maria per assicurarsi l’assoluzione quotidiana. Scandiscono la dittatura di una mors spirituale che, diversamente provata (paternità ammutinata, affetti tradìti, ideali mercanteggiati), si sconta umiliandosi. Ma questo incipit è anche un appello alla solidarietà, una preghiera da donna a Donna invocante consolazione in virtù di una comune offesa. La Madre, a cui il rigore celeste ha strappato il Figlio con la morte di croce, diventa protettrice della «vera Salina»[3. Ivi, p. 244.], che la «necessità storica»[4. Ivi, p. 117.] consacra amante mancata.
Dall’intercessione dei santi si passa, nella parte seconda del romanzo, alla diplomazia terrena:
“Ecco, Eccellenza: sono stato incaricato di una missione delicata. Una persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi l’incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la stima della quale sono onorato…” Le esitazioni di Padre Pirrone si stemperavano in frasi interminabili. Don Fabrizio perdette la pazienza: “Insomma, Padre, di che si tratta? Della Principessa?” E col braccio alzato sembrava minacciare; di fatto si asciugava un’ascella. “La Principessa è stanca: dorme e non la ho vista. Si tratta della signorina Concetta.” Pausa. “Essa è innamorata”[5. Ivi, pp. 83-84.].
Nel «perfetto ordine»[6. Ivi, p. 80.] del palazzo di Donnafugata Padre Pirrone, amministratore delle anime nobiliari, riporta a Don Fabrizio la nascita di un legame: Concetta, sua primogenita, è innamorata del cugino Tancredi, «suo (…) pupillo»[7. Ivi, p. 43.].
Concetta è un personaggio furtivo ma prezioso: disperso lungo tutto il romanzo, viene incaricato di una storia d’amore impossibile e di un vuoto non compensabile. Trincea della «virtù»[8. Ivi, p. 86.], anela a un matrimonio seriamente cristiano, combinato dall’intenzione e dalla fedeltà[9. «Ma la signorina Concetta non ha dubbi: le attenzioni, gli sguardi, le mezze-parole di lui, tutte cose che diventano sempre più frequenti, hanno convinto quell’anima santa; essa è sicura di essere amata (…)»: ivi, p. 85 (il corsivo è mio).]. Postula il diritto della scelta sulla decisione che catalizza l’esistenza intera.
La sentenza del Principe (fondata sul non-detto) ironizza sul pensiero femminile e lo invalida simbolicamente con il sonno:
L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore… e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte… Ad un tratto ebbe freddo. L’acqua che aveva addosso evaporava, e la pelle delle braccia era gelida. Le punte delle dita si raggrinzivano. E che quantità di penose conversazioni in vista. Bisognava evitare… “Adesso debbo andare a vestirmi, Padre. Dite a Concetta, vi prego, che non sono affatto seccato ma che di tutto questo riparleremo quando saremo sicuri che non si tratta soltanto di fantasie di una ragazza romantica. A presto, Padre.” Si alzò e passò nella stanza di toletta. Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio”. Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. “Ce sont leurs affaires, après tout” pensò in francese come faceva quando le sue cogitazioni si sforzavano di essere sbarazzine. Sedette su una poltrona e si appisolò[10. Ivi, pp. 86-87.].
L’idealizzazione di Concetta («la bella educanda»[11. Ivi, p. 86.]) convive con la sua riduzione, spinta fino all’utilizzo di un aggettivo dimostrativo ribattuto («quella stupida», «quella smorfiosa»[12. Ivi, p. 84.]). In realtà, il «modo»[13. N. La fauci, Modi del «Gattopardo». Morfosintassi e interpretazione, in La sintassi dell’italiano letterario, a cura di M. Dardano e P. Trifone, Roma, Bulzoni, 1995, p. 385.] paterno di ignorare la figlia obbedisce a una costrizione, la stessa che, in maniera figurata, addebita a Donnafugata una nuova sepoltura. Don Fabrizio sacrifica quanto ha di più caro per servire l’impeto storico; nega una volontà particolare in nome di una «necessità generale»[14. G. Tomasi di lampedusa, Il Gattopardo, op. cit., p. 36.]. Si tratta della «stupefacente accelerazione della storia»[15. Ivi, p. 111.], la scossa del cambiamento che impone una ridefinizione dei confini di classe. Per trattenere un posto nella Sicilia di Garibaldi, l’aristocrazia deve mischiarsi alla nascente borghesia. In questo passaggio obbligato l’unione gentilizia tra i due cugini si pone come «pericolo»[16. Ivi, p. 85.]. Concetta deve rinunciare a Tancredi, deve restare l’altezza che sa cedere in una Storia maturata meschina.
Concetta è una pedina del tempo, una tessitrice di perdite, la consorte del dolore. Corpo di un sopruso che si sospende in un luogo solitario:
La conversazione continuò per qualche tempo ma non può dirsi che Concetta vi prendesse gran parte. L’improvvisa rivelazione penetrò nella sua mente con lentezza e dapprima non la fece troppo soffrire. Ma quando congedatasi e andati via i visitatori essa rimase sola, cominciò a veder più chiaro e quindi a patire di più. Gli spettri del passato erano esorcizzati da anni; si trovavano, naturalmente, nascosti in tutto ed erano essi che conferivano amarezza al cibo, tedio alle compagnie; ma il loro volto vero non si era già da molto tempo mostrato; adesso saltava fuori avvolto nella funebre comicità dei guai irreparabili. Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; la eternità amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da cinquant’anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subito, di torto patito, dall’animosità contro il padre che la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell’altro morto; questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch’essi; non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati[17. Ivi, p. 263.].
La tardività mitiga gli effetti del «subbuglio»[18. Ivi, p. 63.] con una coscienza in crisi. La «verità» è un’«infelicità»[19. Ivi, pp. 264 e 263.] dimezzata. Accanto agli abusi della Storia si colloca una colpa individuale: Concetta soffre perché è incapace di agire, incide sui mutamenti con una traccia esclusivamente fisica (il «bagliore ferrigno»[20. Ivi, p. 85.] degli occhi). All’ingiustizia garantisce l’immobilità di chi intorno non trova altro che il nulla.
La morte di Concetta chiude Il Gattopardo. Una morte che non si dà concretamente bensì viene trasferita su un «oggett(o) desuet(o)»[21. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993.]:
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida[22. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, op. cit., p. 268.].
La dissoluzione dell’animale imbalsamato riproduce un’anima frantumata. L’alano Bendicò, reliquia docile di un racconto riottoso, prende su di sé la disperazione di Concetta sublimandola nella caduta. La Storia, che scarta lo slancio per l’utile, forgia una donna senza vita: «polvere livida»[23. Ibidem.].
A quindici anni di distanza dalla pubblicazione del Gattopardo un nuovo romanzo sembra occuparsi, con presupposti diversi, dell’intransigenza della Storia nei confronti dei personaggi femminili[24. Il personaggio di Concetta è affiancato da altre due figure femminili: Stelluccia e Angelica.]. Se Il Gattopardo è il «romanzo (unico) scritto da un aristocratico, sul passato recente della propria classe»[25. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998, p. 19.], La camicia bruciata è l’ennesima opera sul sentimento femminile violato scritta da una «donna (che) ha patteggiato in cambio della felicità e dell’amore di un grande Maestro la propria umiliazione professionale, lasciando cadere a terra i sogni, il talento, le aspirazioni di storica dell’arte come tanti gioielli abbandonati e dimenticati»[26. C. Garboli, Prefazione, in A. Banti, Un grido lacerante, Milano, Rizzoli, 1981, p. II.]. Inoltre, laddove Tomasi controlla la voce di Concetta a vantaggio della rappresentazione dell’interiorità di Don Fabrizio, Anna Banti ingombra la scrittura di donna. Infine, il personaggio di Concetta è creditore della fantasia di Tomasi inserita in un momento decisivo per la storia nazionale italiana; il personaggio di Marguerite Louise d’Orléans viene invece composto dalla Banti per lavoro d’archivio, e interpretato.
Sconvolta, la ragazza chiede una nuova udienza, si prosterna, bacia piangendo la mano del monarca più temuto di Europa (…)[27. A. Banti, La camicia bruciata, Milano, Mondadori, 1973, p. 21.].
A differenza di Concetta, la quale pone uno schermo fra sé e suo padre, affidando all’ecclesiastico di famiglia la rendicontazione del proprio desiderio, Marguerite rifiuta la figura del messo. È presenza diretta al cospetto di re Luigi XIV di Francia, suo tutore, per indirettamente dichiarare il proprio interesse nei confronti del cugino Carlo V di Lorena, «pupilla dell’imperatore»[28. Ivi, p. 18.]. Non solo. La mollezza, che nel Gattopardo rimane supposta («Don Fabrizio (…) prevedeva lunghi colloqui, lagrime, seccature senza limiti»[29. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, op. cit., p. 84.]), nella Camicia bruciata si scatena.
Marguerite è una protagonista sospesa tra l’accusa e la compassione: messa in dialogo con l’autrice, rammenta gli scandali di sposa non desiderata e una solitudine non redenta. Virtuosa della «confidenza, chissà fin dove spinta»[30. A. Banti, La camicia bruciata, op. cit., p. 20.], è tuttavia destabilizzata dalla possibilità di un’attenzione involontaria[31. «Sporgendosi sul suo insipido passato di bambina, lo scruta per raccogliervi le prove di un amore segreto, cento episodi insignificanti si accendono di teneri colori, ormai è sicura di essere amata come lo erano le dame dell’Hôtel de Rambouillet; questo le basta per sentirsi innamorata e deliziosamente felice»: ivi, p. 19 (il corsivo è mio).]. Prospetta l’amore quale sistemazione dell’identità femminile.
La replica del sovrano (esplicita) viene rafforzata da una gestualità squadrata e risospinge Marguerite nella palude del materialismo:
…Dovevate pensarci prima, il mio onore è impegnato, o la Toscana o il convento. Poi sorride e le accarezza con un buffetto la guancia: Calmatevi, ma cousine, non siete più una bambina, eccovi, intanto il primo dono del vostro sposo, un diamante stupendo. Stupendo davvero. Dal prezioso scatolino era scaturito un anello scintillante che, d’istinto, Marguerite infilò al dito e, immemore, l’allontanava e avvicinava all’occhio coll’eterno gesto delle donne affascinate dalle gemme. Luigi la guardava benevolo, soddisfatto, ironico: l’udienza è finita, egli si leva in piedi: Adieu, ma cousine. È l’ora del Consiglio, una porta si richiude alle sue spalle mentre Mademoiselle sprofonda nell’inchino protocollare[32. Ivi, p. 21.].
La tenuta della rete regale grava sulla privazione del sesso malleabile. Nell’urgenza di procurare a Cosimo III de’ Medici «una macchina da far figli»[33. Ivi, p. 15.], Marguerite respinge Carlo. Abdica a un amore eletto per ritirarsi nel ruolo di madre, cessa di essere persona viva per funzionare da «strumento di piacere»[34. Ibidem.]. Questa considerazione della libertà sentimentale in termini di «rovina»[35. Ivi, p. 26.] la “incarta”, per contraccolpo, di santità: la principessa è «eroina», «vittima», «sacrificata», «creatura oppressa e rassegnata»[36. Ivi, pp. 11 e 19.].
Le pagine rincorrono una sontuosità lastricata di pene, la cui tregua inizia con il silenzio:
Si arriva e il rimescolio del convoglio, il premere dei festeggianti che irrompono nei cortili e nelle sale sciolgono le nebbie rosee dei sogni, l’unica risorsa di Marguerite è la sua fragilità di bambina che non ha finito di crescere, questi gentiluomini di campagna, queste dame vestite alla moda di cinquant’anni fa, la vezzeggiano qualche minuto e poi si precipitano ai loro doveri di vassalli verso la Signora del luogo. Stordita, avvilita, lei domanda una stanza appartata, un letto, la sua stanchezza la giustifica e per un istante le offre la magra consolazione di essere compatita. Sollecitamente ce l’accompagnano attraverso scale e corridoi dalle mura massicce che soffocano il vocio delle sale di sotto dove si prepara il convito. (…) Fin qui l’attrice ha obbedito eseguendo i gesti che il copione prescriveva: si è tolta il corpetto a balene, si è sciolta i capelli, ha sbadigliato, ma adesso si ribella, sbuffa, esige la verità. Quale verità? Non sa rispondere, sta scivolando indietro, pretende di ripartire da Fontainebleau, a rintracciare, nella luce di quel mattino, passi e memorie perduti. Poi si accorge di essere prigioniera, intrappolata nel personaggio che è opera sua, di tutta la sua vita[37. Ivi, pp. 38-39.].
La visione di un futuro soffocante esige la sincerità del cuore. Nella ricerca della «verità»[38. Ivi, p. 39.] l’onnipotenza storica esce frenata. La «favola (…) interrotta»[39. Ibidem.] interpella il comportamento di Marguerite: Marguerite è inquieta perché non sa ribellarsi, segue gli avvenimenti con una pressione meramente fisica (lo «sguardo intenso»[40. Ivi, p. 38.]). Giovane, coltiva la morte.
Nel mezzo del romanzo, che immette al ristagno di altre due donne ferite dalla realtà (Anna Ludovica e Violante), si commemora la sparizione di Marguerite mediata da un «oggetto diretto»[41. P. Paolo pasolini, Anna Banti, «La camicia bruciata», in Id., Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino, Einaudi, 1979, p. 86.]:
Infine, ecco la grande soffitta con le sue travi massicce: una specie di galleria lunghissima, col pavimento a mattoni scabri, coperti di una polvere densa come cenere, e, davvero sembra che qualcosa vi stia bruciando, tanto l’aria scotta. C’è di tutto, in terra e sulle pareti, mobili in pezzi, specchi rotti, ferraglie, bocce di vetro con fondigli torbidi, mappamondi, cannocchiali e persino un orribile teschio che ride. Ma il teschio non fa tanto paura al bambino quanto i quadri appesi in fila, da cui si affacciano nebbiosi fantasmi, dame e cavalieri vestiti in fogge strane, occhi fissi che lo seguono. (…) Rizzandosi sulla punta dei piedi Gastone s’ingegna a tergere con le palme la superficie del quadro offuscato dalla polvere, ed ecco gli appare nella gonna l’incavo fra le due ginocchia: proprio la cuccia in cui si rannicchiava, accolto da una tenera stretta, mentre dall’alto pioveva una voce velata: Que fais tu là mon petit[42. A. Banti, La camicia bruciata, op. cit., pp. 134-35.]?
Gastone, separato da Marguerite nell’età più dolce, ritrova la madre nella stanza delle cose inservibili. I suoi ritratti pagano con l’oblio la richiesta insana della felicità. La Storia, che procede a forza di unioni calcolate, cancella la donna che sente: «polvere densa come cenere»[43. Ivi, p. 134.].
(fasc. 14, 25 aprile 2017)