Colloquio col Mattioli circa l’Istituto storico, e circa una scelta che egli vorrebbe pubblicare di miei scritti, un sorta di Antologia generale, per una intrapresa editoriale della quale è a capo. Finora a ciò mi sono sempre rifiutato e così ho fatto anche questa volta. La scelta, di necessità, dovrei farla io o, che è lo stesso, controllarla e approvarla io: e ciò mi ripugna, anche perché tutto ciò che ho scritto si concatena e l’ho scritto non per capriccio. Simili scempii si debbono fare da estranei, sulla loro responsabilità, quando l’autore non è più al mondo. Ma, in ultimo, un pensiero conciliante mi è venuto. Vedere se posso io far l’indice di un volume che possa rendere buon servigio. Ho detto al Mattioli che avrei studiato la cosa nei giorni che mi tratterrò a Pollone in villeggiatura[1. B. Croce, Taccuini di lavoro, VI, 1946-1949, Napoli, Arte Tipografica, 1987, p. 270, 9 luglio 1949.].
Filosofia, Poesia, Storia[2. B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia, Milano, Ricciardi, 1951.] può essere considerato il testamento spirituale di Croce: l’antologia Ricciardi che il Croce ultraottantenne allestì dei propri opera omnia può essere letta, infatti, come l’ennesima curatela condotta dal Croce editor ˗ quella, forse, più difficile, quella più delicata ˗ e insieme come una ponderata selezione di testi che rappresentano l’ultima volontà autoriale.
Leggendo il possente volume (1174 pagine, esclusi bibliografia e indici), non si può non immaginare la difficoltà che tale selezione deve aver comportato per un Croce consapevole di essere sulla via del declino. Il Croce di quegli anni, tormentato dall’idea della barbarie dilagante e troppo esperto del mercato editoriale per non sapere che della propria opera non tutto sarebbe sopravvissuto e soprattutto ben poco sarebbe stato letto dai più, deve essersi, di certo, posto scientemente e seriamente il problema di cosa lasciare ai posteri di sé e della propria sterminata produzione: in tal senso, ho sempre trovato l’antologia Ricciardi un volume assai significativo, forse uno dei più importanti allestiti dall’infaticabile Croce editor in decenni di attività.
Il suo valore risiede proprio in questo sforzo dell’ultimo Croce di cercare di ripercorrere con la mente la produzione di settanta anni di studio, di analizzarla e di capire quali pagine rispondessero al doppio requisito di risultare interessanti per un lettore degli anni Cinquanta (e oltre) e insieme rappresentative di un pensiero continuamente in evoluzione e, dunque, non facile da fermare, da cristallizzare. Contemporaneamente, vi ho sempre letto la consapevole e ostinata volontà di indirizzo caratteristica di tutta la vita operosa del Croce studioso, fondatore di collane, animatore culturale: Maestro, in senso lato.
In fondo, è proprio il primo saggio a chiarire questi intenti: un denso e importante testo del 1945, Intorno al mio lavoro filosofico, che apre il volume, che apparentemente è chiuso dall’altro grande testamento del Croce critico e filosofo, il Contributo alla critica di me stesso, sulla traccia spirituale del quale si pone, a mio avviso, anche l’antologia del 1951. In realtà, a ben vedere il volume si chiude con una nota fra quadre al Contributo, redatta nel 1950, quindi contemporanea all’allestimento del florilegio. Il che non può stupirci, alla luce della concezione crociana della contemporaneità di ogni storia.
Per questi motivi l’antologia Ricciardi appare uno dei volumi più interessanti e preziosi dell’intera produzione crociana, rappresentando una fotografia del Croce critico e “valutatore” di se stesso, uno spaccato chiaro dell’immagine di sé che il Croce ultraottantenne aveva deciso di lasciare.
C’è qualcosa di realmente drammatico in tale consapevolezza della Fine che sta per arrivare, che incombe e che richiede un intervento rapido e risoluto per evitare che la morte giunga prima che il filosofo abbia avuto il tempo e la lucidità di vagliare tutta la propria sterminata produzione per decidere cosa salvare dall’oblio, evitando che lo facciano altri impropriamente. Allo stesso tempo, però, c’è la consapevolezza serena e, ormai, placida di un’intera vita di lavoro, fatica, impegno, di quell’applicazione allo studio e di quell’esercizio quotidiano di disciplina interiore che gli hanno permesso di superare i vari momenti di crisi in cui l’angoscia del vivere periodicamente riaffiorava e prendeva temporaneamente il sopravvento, paralizzandolo.
Forse, possiamo ipotizzare che, all’ultimo, anche Croce sia stato sfiorato dall’ansia della morte incombente e che abbia, ancora una volta, trovato il rimedio per dissipare le nubi nel lavoro: quello estremo, quello dell’uomo che guarda indietro alla propria vita, la ripercorre velocemente nella memoria e ne trasceglie i momenti più salienti. Perciò, mi è sempre parso che le pagine dell’antologia Ricciardi abbiano un peso specifico diverso rispetto a tante altre scritte da Croce negli anni: un sapore di scrittura “liminare”, di confine, di soglia. E che sia assai significativo che, affacciandosi sull’abisso, egli abbia deciso ˗ seppur inizialmente perché pressato, controvoglia, da Mattioli ˗ di scegliere ancora una volta la scrittura come mezzo per lasciare testimonianza di sé: l’antologia non è solo una raccolta ponderata di scritti, infatti, ma quasi una legittimazione dell'”utilità” – anche sociale, se vogliamo ˗ di una vita risparmiata inspiegabilmente e insieme miracolosamente dalla tragedia del terremoto di Casamicciola. E, in questo senso, non credo sia un caso che Croce abbia suggellato il florilegio riandando al Contributo, che di fatto chiude il cerchio e illustra bene sia l’origine del suo interesse per la filosofia sia la genesi dei passaggi che hanno condotto Croce a individuare la soluzione dell’operosità come risposta all’angoscia esistenziale e al senso di colpa tipico della sindrome del sopravvissuto. In tal senso, mi sembra che la miscellanea Ricciardi rivesta per Croce stesso un’importanza cardinale, come fosse un salvacondotto per dimostrare di aver messo a frutto la Possibilità regalatagli dalla vita e di non averla sprecata, al fine di potersi presentare alla resa dei conti terminale con l’animo sereno di chi sa di aver sempre tradotto il pensiero in azione concreta ed efficace.
Come conferma di questa lettura mi sembra possano essere interpretate anche le paginette finali aggiunte dal Croce antologizzatore alla miscellanea da lui stesso allestita. La prima parte è un resoconto di vita vissuta: dalla nomina come Ministro dell’Istruzione sotto Giolitti alla ripresa degli studi negli anni antecedenti al fascismo, dalla presa di potere di Mussolini al passaggio di Croce «apertamente alla opposizione»[3. Ivi, p. 1172.] nel 1924, dalla stesura del Manifesto degli antifascisti nel 1925, assieme ad Amendola, ai «venti anni di mia inintermessa opposizione»[4. Ibidem.] durante i quali – afferma orgogliosamente ˗ «i fascicoli della mia rivista La Critica si mostravano tra i fedeli quasi tessere di riconoscimento»[5. Ivi, p. 1173.]; dalla caduta del fascismo, nel luglio del 1943, alla nomina a Presidente del Partito Liberale italiano e a componente del Comitato di Liberazione, fino al ritiro dalla politica, nel 1947. Considerando, poi, la propria «vita scientifica e letteraria»[6. Ivi, p. 1174.], Croce non si esime dal produrre delle cifre: una trentina di libri prima dell’insediarsi del fascismo e una trentina, «se non più»[7. Ibidem.], nel periodo seguente, senza tener conto di ulteriori «tre volumi di Aneddoti di varia letteratura, di cinque di Pagine sparse e Nuove pagine sparse, e di altri cinque di Scritti e discorsi politici»[8. Ibidem.]. Nonostante l’apparente noncuranza dimostrata nei riguardi di quelli che egli stesso definisce quasi sprezzantemente «rilievi statistici»[9. Ibidem.], è indicativo che Croce, in una delle proprie ultime pagine (siamo nel 1950) avverta la necessità di documentare la propria alacre attività di intellettuale, politico, studioso e saggista, fornendo anche dei numeri che possano testimoniare concretamente la propria produttività. E, infine, chiude con il riferimento ai progressi in ambito filosofico e agli approfondimenti di teoria della Storia, precisando, nelle ultime righe, il carattere del proprio pensiero e indicando la definizione che, in effetti, gradisce che si utilizzi per alludervi: quella ˗ nota ˗ di “storicismo assoluto”.
Di certo, l’allestimento del florilegio del 1951 non fu semplice: «Ho cercato di soddisfare il desiderio del Mattioli e di mettere insieme l’indice per una antologia dei miei libri. Ma mi sono avveduto che occorrerà che io abbia a mano la collezione delle mie opere e ne scorra alcune parti per riuscire a una scelta armonica. Dunque, il lavoro è da rimandare al mio ritorno a Napoli»[10. B. Croce, Taccuini di lavoro, VI, 1946-1949, op. cit., pp. 276-77.], scriveva il 22 agosto 1949 nei Taccuini di lavoro; «Ancora ho riconsiderato quel che occorre fare per un buon disegno di antologia»[11. Ivi, p. 277.], aggiungeva il giorno successivo.
I Taccuini registrano una lunga pausa dal 29 settembre 1949 al 3 luglio 1950, quando Croce espone le ragioni per le quali ha deciso di metter fine a quel Diario, che era nato per «esercitare una specie di controllo su me stesso e mettermi sull’avviso se mi lasciassi andare a perder tempo. Ma dopo più di quaranta anni che lo scrivo, non solo debbo essermi bene autodisciplinato, ma debbo temere che le seduzioni a perder tempo si faranno sempre minori, o saranno sostituite da qualcosa di peggio del gaio divertirsi, che è il perder tempo per forza ossia perché la salute non ci assiste»[12. Ivi, p. 283.].
Con la struggente e malinconica consapevolezza del declino incombente, Croce riassume nelle ultime due pagine di diario gli eventi che ha trascurato di annotare nei mesi di “vuoto” dei taccuini, fra i quali:
volli contentare l’amico Mattioli che desiderava presentare al pubblico una Antologia dei miei scritti. Dapprima gli avevo detto di no, per la ripugnanza che ho avuto sempre alle Antologie che costringono l’uomo intero a vedersi in pezzi. Ma poi considerai che questa ripugnanza poteva avere effetto in età ancor giovane, e che nel caso mio era da prevedere che, appena morto, si sarebbe fatto antologie delle mie cose Dio sa con quale criterio. Perciò mi risolsi ad ubbidire alla necessità e dare al Mattioli un indice compilato da me, che può stare e forse formerà un libro utile[13. Ivi, pp. 283-84.].
L’ultima è la parola chiave: «utile».
A tale proposito, non resta che esplorare, ad esempio, le scelte dell’ultimo Croce relative alla propria produzione critico-letteraria, raccolte nel sesto capitolo del volume, intitolato, appunto, Saggi di critica e di storia letteraria.
L’antologia richiede, di certo, un approfondimento che si rimanda ad altra sede: basti precisare, in questo breve contributo, che l’auto-florilegio allestito da Croce relativamente alle proprie pagine di critica letteraria inizia indicativamente da Omero nella critica antica (1940), prosegue con Terenzio (1936) e con il Virgilio del confronto fra Enea e Didone (1938), torna indietro a Un episodio dei Vangeli: Gesù e l’adultera (1939) e poi approda al dibattuto Carattere e unità della poesia di Dante (1920), seguito da L’ultimo canto del Paradiso (1938). Include Petrarca. Il sogno dell’amore sopravvivente alla passione (1937), La poesia del Boccaccio (1931), l’amato Ariosto. L’attuazione dell’armonia (1918), per poi passare al Torquato Tasso di alcuni luoghi della «Gerusalemme» (1937) e affacciarsi alla letteratura spagnola con Cervantes. Intorno al «Don Quijote» (1939), a quella inglese con due saggi su Shakespeare (entrambi del 1919), alla francese con Beaumarchais. Cherubino e la Contessa (1937), alla tedesca con due saggi sul diletto Goethe (rispettivamente del 1918 e del 1933). Il ritorno all’Italia è segnato da Foscolo (1922) e, dopo un intermezzo di nuovo “estero” costituito dai saggi su Stendhal (1919) e Ibsen (1921), si chiude con lo stimato Carducci (1940) e, indicativamente, con L’ultimo D’Annunzio (1935).
Riservandomi di trattare in maniera più approfondita l’argomento nel prossimo futuro, mi limito, in questa sede, a notare che la scelta di Croce, come di consueto, non è dettata dall’autocompiacimento del proporre al lettore i saggi più riusciti o di successo della propria produzione, ma dalla convinzione che possano essere proficue la lettura e la riflessione su quelli incentrati su figure di grandi classici della letteratura mondiale di tutti i tempi.
In secondo luogo, mi sembra indicativo anche che la scelta ricada su scritti la cui stesura risale a un ventennio circa, dal 1918 al 1940, in anni perlopiù coincidenti con il periodo della dittatura fascista: forse, implicitamente sempre a documentare la propria alacre attività di studioso e critico durante un’epoca infausta della nostra storia nazionale («veramente nel periodo fascistico avevo avuto molto tempo per studiare, e di ciò avevo profittato!»[14. B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia, op. cit., p. 1173.], appunta fra tonde, ma con orgoglio, nel 1950), e anche a suggerire che, come precisato sempre nella nota finale del volume antologico, in quel drammatico frangente storico «a me restava quello (il vantaggio: N. d. R.) di gran lunga più serio di poter mantenere la miglior parte della cultura italiana immune dal fascismo e avversa, e offrire ai più giovani il sostegno che dovevano aspettare da noi più vecchi»[15. Ibidem.].
La letteratura, dunque, anche come appiglio contro il dilagare della barbarie, nella riaffermazione dei valori-cardine della civiltà (specie) europea e nel richiamo ai grandi nomi della sua tradizione letteraria, in un periodo in cui politicamente Croce, com’è noto, appoggiava l’europeismo di Spinelli e propendeva per la soluzione di una federazione di stati europei che potessero contrastare la gretta miopia dei vari egoismi nazionalistici. Un programma politico, dunque, a mio avviso, anche nella scelta dei propri saggi sui grandi classici della letteratura da riproporre all’attenzione del pubblico dei lettori: a ulteriore riprova che il pensiero di Croce è sempre circolare e non va mai interpretato a partire da ottiche troppo specialistiche. E, insieme, una chiara indicazione ai posteri sugli scritti imprescindibili ai quali poter fare riferimento nel valutare l’impatto culturale della sua produzione critico-letteraria.
In questo firmamento di grandi testi della letteratura mondiale, di Maestri ideali cui rivolgersi per rifondare le basi di una nuova civiltà letteraria (e non solo: troppo lungo sarebbe ripercorrere il legame che Croce traccia, negli anni, fra Civiltà e Letteratura), forse solo una scelta ci incuriosisce e ci sorprende: quella di Beaumarchais. Eppure, il saggio del 1937 definisce il rapporto fra Cherubino e la Contessa, nel Mariage de Figaro, un «miracolo di poesia»[16. Ivi, p. 802.] e, in seguito, una «meraviglia di umanità e d’arte»[17. Ivi, p. 804.], replicando polemicamente a un giudizio critico negativo dell’accademico di Francia Louis de Loménie[18. Contenuto in L. de Loménie, Beaumarchais et son temps. études sur la société en France au XVIIIe siècle, II ed., Paris, Lévy, 1858.] e concludendo al riguardo: «Non è il caso di commentare, perché il commento richiederebbe l’uso di quei vocaboli che il Flaubert soleva adoperare verso professori e accademici “du moment qu’ils se mêlent de l’art”». Al di là del palese riferimento polemico indiretto anche al mondo dell’accademia italiana e, forse ˗ trattandosi del 1937, nello specifico ˗, della Reale Accademia d’Italia (1929-1944), Croce prosegue nel definire il dramma un «capolavoro»[19. B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia, op. cit., p. 804.] in cui
Figaro occupa tanto campo e scocca tante punte satiriche contro l’aristocrazia, la magistratura e la politica da dar luogo alla generale impressione che, nella commedia, esso sia il protagonista. Forse nella «commedia»; ma, nella «poesia» di quella commedia, protagonisti sono, invece, le deliziose figure della contessa e di Cherubino, appartenendo il resto al Beaumarchais graziosamente satirico e burlesco, che si pone accanto all’altro di più intensa umanità[20. Ivi, p. 806.].
Croce è colpito dal fatto che quei «personaggi secondarî che la Musa gli aveva donati in un momento di rara felicità»[21. Ivi, p. 807.] rimasero nel cuore dell’autore, che dedicò loro altri versi per «mettere in iscena le loro posteriori avventure»[22. Ibidem.] proprio a causa della «vibrazione lasciata nell’anima del Beaumarchais da quelle due creature di ardente e perigliosa passione, che gli erano apparse un giorno in un raggio di sorridente poesia»[23. Ivi, p. 809.].
Una celebrazione della poesia pura, dunque, che non può mai essere disgiunta da un profondo senso di umanità, in Croce: un’ulteriore, strenua difesa dell’autonomia dell’arte, che vale la pena di rileggere in tempi tristi come quelli attuali, nei quali vi è un ritorno a ragioni extraestetiche nella valutazione delle opere d’arte e, addirittura, sembra essere stata ripristinata una forma di autocensura degli autori (seguita a ruota dalle censure operate da taluni editor), specie dal punto di vista lessicale, in omaggio anche a codici di condotta verbale che, però, esulano dall’ambito artistico e sconfinano in territori che ben poco hanno a che vedere con la libertà dell’Arte.
(fasc. 19, 25 febbraio 2018)