Recensione di Emerico Giachery, “Passione e sintonia. Saggi e ricordi di un italianista”

Author di Carmine Chiodo

Libro denso e complesso[1. Questo l’Indice: Un italianista ricorda; Presenza della critica nel Novecento; Il “Copernico” di Leopardi e il sentire “cosmico”; Divagazioni carducciane; Verga, D’Annunzio, destino; Pascoli e il francescanesimo; La nozione di opera-vita e l’esperienza di Ungaretti; Per Montale: una lunga fedeltà; Senso dell’Europa in un racconto degli anni Cinquanta; Antonio Pizzuto in riva al Lemano (con tre missive); La lingua della poesia italiana del Novecento; Ritmi di macchine e linguaggio poetico; Indice dei nomi.], questo, di uno studioso che ripercorre momenti e rievoca incontri di una lunga carriera: «L’attività di docente (anzitutto) e di interprete di testi è stata il cuore della mia vita. Non un lavoro come un altro per vivere, ma una risposta (almeno così credo e spero) a una chiamata interiore, “destinale”, alla voce del daimon. “Interprete”, preferisco definirmi, anziché “critico”, appellativo che riservo alla critica militante». “Interprete”, per Giachery, significa anche “esecutore”, in accordo con quanto afferma Luigi Pareyson nella propria magistrale Estetica. Teoria della formatività: «leggere significa eseguire» e «l’opera non ha altro modo di vivere che la vita dell’esecuzione». “Eseguire un testo”, aggiunge Giachery, è «conferirgli vita attuale e presenza. Ciò si ottiene sia col farne emergere l’anima riposta e il “senso”, inteso come sintesi di significato e significante, sia col promuoverne l'”epifania vocale” nell’interpretazione a voce alta».

Nel saggio iniziale lo studioso traccia il panorama di tutta una stagione, fervida e feconda, della cultura letteraria italiana di alcuni decenni del Novecento, aperta a suggestioni e stimoli provenienti dall’Europa, e, intorno agli anni Sessanta, soprattutto dalla critica francofona attiva tra Parigi e Ginevra. In Italia dominavano la cultura letteraria universitaria prestigiosi maestri come Momigliano, Flora, Fubini, Russo, De Robertis, Contini, Devoto, Terracini, Pagliaro, Getto, Bosco, Sapegno, Debenedetti. Grandi filologi e linguisti europei venivano in quegli anni tradotti e giustamente apprezzati: Auerbach, Curtius, Friedrich, Jakobson.

Giachery inizia il proprio cammino quando è ancora presente, nelle università e nella scuola, anche se contestata, la lezione di Croce, già da lui in parte assimilata negli anni del Liceo. Considera suo primo “maestro ideale” Leo Spitzer, al quale si sente vicino sia per un’affinità di temperamento sia per una comune concezione dell’umanesimo moderno e un comune “amor vitae“.

Il suo “maestro reale” fu comunque Alfredo Schiaffini, amico personale di Croce e promotore della traduzione e della diffusione dei libri di Spitzer nella cultura italiana. Da Spitzer gli venne il vivo interesse per la critica stilistica, allora molto diffusa in Europa; da Schiaffini la passione dominante per temi e problemi della lingua letteraria, in particolare della lingua poetica. Più tardi, anche in seguito a lunghi soggiorni in paesi francofoni, guardò con vivo interesse ad alcune proposte della Nouvelle critique, di cui incontrò alcuni protagonisti, senza peraltro dimenticare la cauta misura dello storicismo nostrano. Avido lettore, in anni giovani, di testi di psicologia del profondo, specialmente junghiani, che riteneva indispensabili alla formazione di uno studioso di letteratura, non fu tuttavia mai tentato dalla psicocritica, pur apprezzando alcuni ottimi saggi psicocritici di Elio Gioanola. Alla critica degli archetipi di Gaston Bachelard guardò, comunque, con interesse.

Allievo, negli anni universitari, di Pietro Paolo Trompeo, Giachery ama, come Trompeo, l’elegante divagazione, e anche in questo libro ha voluto darne almeno un saggio, partendo dalla predilezione, negli anni dell’adolescenza, per Carducci («In casa esisteva una vecchia antologia carducciana di Mazzoni e Picciola, tetramente cartonata in nero, che era tra i miei libri prediletti») e concludendo con una suggestiva evocazione ˗ documentata dall’epistolario con Annie Vivanti, con Dafne Gargiolli e con Silvia Pasolini Zanelli ˗ degli anni tardi del poeta. Alla vena evocativa, cara al nostro studioso, si collega anche il ricordo di un incontro ginevrino con Antonio Pizzuto, accolto con affetto dalla sua traduttrice in francese Madeleine Santschi, da ospitali signore e dalle studentesse d’italiano dell’Università: «Lo rivedo seduto in poltrona e circondato da jeunes filles en fleur sedute letteralmente ai suoi piedi: su cuscini posati sul pavimento. Il “vecchio cinese” (così lo chiamava scherzosamente Contini) sorrideva, si rivolgeva al suo uditorio femminile – per rispondere compiaciuto a domande, per rievocare ricordi con voce tremante d’emozione – non senza un tocco di galanteria belle époque. Sembrava felice».

Un’evocazione appassionata degli anni iniziali del dopoguerra – già avviata all’inizio del bel capitolo intitolato Per Montale: una lunga fedeltà – precede il saggio intitolato Senso dell’Europa in un racconto degli anni Cinquanta (il racconto è Il cimitero cinese di Mario Pomilio). Eccone alcuni momenti: «Stagione ricca di senso e di pathos, particolarmente viva e significativa nella mia memoria personale e storica. L’Europa distrutta risorgeva a fatica dalle rovine e s’impegnava con slancio a ricostruire, guardava al futuro, e noi giovani dei diversi paesi desideravamo incontrarci, scambiarci idee e propositi, stare insieme, cantare insieme. (…) Dagli angeli scolpiti e dipinti di tutte le cattedrali d’Europa si levava un coro unanime di speranza».

Uno dei saggi più suggestivi del libro è Il “Copernico” di Leopardi e il sentire “cosmico”, in cui sono ripensati e documentati l’importanza e il rilievo che il rivoluzionario evento di conoscenza rappresentato dalla teoria copernicana significò per Leopardi, riconsiderando l’incidenza che tale evento ebbe sul suo pensiero e sulla sua opera, e seguendone le tracce negli scritti, dalla Storia dell’Astronomia allo Zibaldone, sino al Copernico, caratterizzato, secondo De Sanctis, da «una forma spigliata, intarsiata di motti felici». Il sentimento cosmico prenderà il volo nella memorabile strofa della Ginestra che comincia «Sovente in queste rive». Giachery, affascinato dal motivo “cosmico”, ne segnala anche la presenza nella poesia italiana ed europea (tra gli altri, in Tommaseo, Tennyson, Zanella). Si sofferma su Pascoli, «uno dei poeti che più contano in una prospettiva di poesia cosmica italiana» (a Pascoli è dedicato nel libro un altro saggio, fondato sull’amicizia del poeta col padre francescano Teodosio Somigli di San Detole, e in cui è ricordato un poemetto pascoliano di notevole suggestione cosmica, La pecorella smarrita). Dopo Pascoli, di cui è ricordato anche il significativo scritto sulla Ginestra leopardiana, Giachery esamina rapidamente la presenza del motivo cosmico in Arturo Onofri, in Girolamo Comi e, infine, in Giuseppe Bonaviri, il quale così definisce la propria poetica: «La mia aspirazione è di inserire l’uomo nel cosmo, di sviluppare il rapporto uomo-natura-cosmo dal livello di micro-storia a quello di macro-storia».

Tre ampie e ben documentate prospettive d’insieme arricchiscono l’orizzonte del libro: la prima è Presenza della critica nel Novecento, che si collega a un’affermazione di Anatole France, secondo cui «la critica è l’ultima, in ordine di tempo, di tutte le forme letterarie», e «si confà molto felicemente a una società carica di civiltà che ha ricchi ricordi e tradizioni già lunghe». Sempre più, col passar degli anni, il critico è considerato scrittore a pieno titolo non meno del narratore o del poeta: è, secondo un autorevole maestro della critica europea come Georges Poulet, un écrivain écrivant sur des écrivains.

Una densa rassegna, in cui confluisce in pieno l’esperienza dell’antico allievo di Alfredo Schiaffini, percorre e descrive La lingua della poesia italiana del Novecento, prendendo le mosse dalla diade D’Annunzio-Pascoli, che domina l’inizio del secolo. A questo saggio può collegarsi quello conclusivo, che comporta rapidi sondaggi anche nel campo della pittura, della musica e del cinema, e che s’intitola Ritmi di macchine e linguaggio poetico.

Questa sommaria descrizione fa intravedere la varietà di temi e di prospettive di un libro che va anche letto come bilancio e testimonianza di un’appassionata vita di studioso. Di questo non certo secondario carattere del volume fanno fede, tra altre, le parole: «Quanto di noi è rimasto nelle pagine pensate e scritte nel corso degli anni! Il succedersi degli interessi di volta in volta dominanti, l’alternarsi dei modi di scrittura e d’interpretazione scandiscono la vita dello studioso e ne sottolineano l’attraente ricchezza e varietà. Rivisitati a distanza di anni, certi approdi saggistici, certe divagazioni, certe ricognizioni d’orizzonte, certi essenziali bilanci, sembrano a volte aver catturato, o comunque connotato il “tempo perduto”. Sottrarli, come sembrano chiederci, al silenzio e all’oblio, è anche ricomporre, con affetto e gratitudine, significative tessere di un mosaico di vita, recuperare frammenti di sperato senso».

(fasc. 19, 25 febbraio 2018)

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