Il crollo economico e Luigi Pirandello
Una storia economica della letteratura che si rispetti, nella quale si potrebbero classificare diverse tipologie o attitudini a seconda del rapporto che gli scrittori hanno avuto con il denaro, dovrebbe cominciare dal momento della caduta, dall’attimo in cui ha inizio una catastrofe economica. Forse nessuna come la biografia di Luigi Pirandello rappresenta la perfetta epitome di questa categoria: per certi versi, il fatto di aver conosciuto un crollo finanziario improvviso[1. Cfr. l’Introduzione di Giovanni Macchia, in L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1973.] che ha ribaltato radicalmente, drammaticamente, ogni sua aspettativa, lo avvicina ancora di più ai tanti tra noi che sono stati travolti da un collasso economico, da una perdita in termini monetari e di potere d’acquisto che dura quasi da un decennio, nonostante i numerosi falsi proclami su una nostra prossima, imminente, uscita dalla «crisi», parola magica dietro cui si è nascosto il vero volto del capitale. Il dolore economico resta uno dolori tra i più forti e radicali, ti divora, ti danna l’anima, come abbiamo imparato a conoscere in questi anni, a nostre spese: è un dolore verso il quale non ci sono paracaduti interiori, ma solo un profondo senso di inadeguatezza e colpa. Come accade a noi, anche per molti scrittori l’esperienza intima col denaro, mediata per lo più dall’angoscia della sua assenza, è stata spesso traumatica: appare difficile oggi immaginare che alcuni dei capisaldi della letteratura siano passati attraverso questo tipo di privazioni, o di incubi o di tracolli e, se negli anni passati non interessava più di tanto soffermarsi su certi aspetti della loro vicenda biografica, adesso invece quegli stessi sembrano acquisire per noi un’altra luce, un altro riverbero.
L’anno della grande sciagura economica che si abbatte su tutta la famiglia di Pirandello, e la devasta, è il 1903[2. Cfr. Album Pirandello, a cura di M. L. Aguirre D’Amico, Milano, Mondadori, 2007.]. Il padre di Luigi, Stefano, aveva investito la dote della nuora Antonietta per rilevare una grande zolfara vicino Aragona, anche se già gli era stato segnalato che c’erano delle perdite d’acqua, e durante l’arco di una sola notte la miniera si allagò con un danno che venne stimato in quattrocentomila lire (qualcosa meno di due milioni di euro). Con l’allagamento del giacimento di zolfo in Sicilia, Pirandello perse tutto quello che possedeva; ha, poi, passato il resto del tempo a cercare di resistere (di rimanere a galla, più che di risalire la corrente), annaspando e lavorando “come un mulo”, ed è sufficiente rileggere le lettere ai suoi cari per comprendere come la voragine che s’era aperta sotto i suoi piedi abbia precipitato lui, sua moglie e i suoi figli in un inferno famigliare così simile ai tanti raccontati nelle sue opere.
Quando Pirandello si trasferì a Roma all’età di venticinque anni, sembrava che il fato l’avesse baciato in fronte: il padre gli versava un assegno mensile[3. Cfr. L. Lucignani, Pirandello, la vita nuda, Firenze, Camunia, 1999.] ed egli si dedicava alla carriera di poeta, l’unica che gli interessasse. In una lettera[4. Cfr. L. Pirandello, Lettere della formazione 1891-1898, a cura di E. Providenti, Roma, Bulzoni, 1996.] alla madre proprio del 1892 si intuisce tutta la felicità di un giovane che non ha bisogni, necessità, calcoli: racconta il proprio stile di vita, da letterato di professione, con lunghe passeggiate per la città, l’abbandono alla noia per poi andare al caffè con gli amici, vantandosi di frequentare salotti letterari romani in compagnia di Capuana e annunciando mille progetti di libri.
Per alcuni scrittori il matrimonio rappresenta un miglioramento economico: così fu anche per lui, che accettò di sposarsi con Antonietta Portolano, figlia del socio del padre nel commercio dello zolfo, la cui dote era assai consistente, settantamila lire dell’epoca, corrispondenti a quasi quattrocentomila euro, anche se sono calcoli molto difficili da fare. Questo matrimonio, che segue perfettamente uno schema pirandelliano, rischiò di saltare perché Calogero Portolano, il futuro suocero, era gelosissimo della figlia e insinuò che Luigi avesse un’amante a Roma: l’unione si celebrò lo stesso nel 1894, ma le settantamila lire di dote misero subito, da quello che si può capire leggendo i documenti e le lettere, in fibrillazione lo stesso Pirandello, che propose di comprare le quote di una rivista, la «Nuova Antologia», assicurando che avrebbe restituito il dieci per cento di utile ogni anno. Il vero speculatore, e uomo di grandi risorse economiche, cioè il Portolano padre, neanche gli rispose; in realtà, non aveva alcuna stima per il genero sia perché gli aveva portato via la figlia sia perché faceva il letterato, sciagura epocale, come sappiamo (per vendicarsi Pirandello avrebbe fatto scrivere sulla lapide del suocero l’eloquente epitaffio: «qui finalmente riposa…»).
La lettera con la notizia dell’allagamento della zolfara[5. Cfr. G. Giudice, Luigi Pirandello, Torino, Utet, 1963.], con conseguente rovina economica, capitò prima nelle mani della moglie. Pirandello rientrò a casa, la sera, dalla sua passeggiata; era stata per lui una giornata serena, tranquilla, e trovò la moglie a letto, semiparalizzata (restò così per sei mesi). In un attimo il suo mondo era crollato: super indebitato, senza più l’assegno mensile, senza la rendita sulla dote, con la moglie, anche se allora non poteva prevederlo, che arrivò a essere internata in un ospedale psichiatrico, e tre bambini piccoli di 8, 6 e 4 anni da mantenere, meditò il suicidio, immaginando che così avrebbe messo le cose a posto e salvato la famiglia, perché avrebbe evitato l’onta, da vivo, di chiedere aiuto al suocero. Decise, poi, di combattere, cosa che fece per tutta la vita, portò i gioielli al monte di pietà e iniziò a lavorare duramente: si trasformò, come avrebbe detto egli stesso, in «novellaro», in uno scrittore di racconti a getto continuo, seriale, cercando di essere pagato dalle riviste (per Il fu Mattia Pascal[6. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di G. Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1993.], che uscì a puntate proprio sulla «Nuova Antologia», gli diedero pochissimo, mille lire di anticipo); inoltre, dava agli italiani lezioni private di tedesco, lingua che conosceva bene essendosi laureato a Bonn, e di italiano agli stranieri; e a un certo punto anche lui, come sarebbe stato poi per Joyce, ebbe un’intuizione per fare soldi: nel suo caso, lavorare per il cinema scrivendo sceneggiature, ma il progetto ben avviato con la Morgana film non andò in porto[7. Cfr. M. L. Aguirre, Vivere con Pirandello, Milano, Mondadori, 1989.].
In ogni catastrofe economica le case in cui si abita cambiano in continuazione, alla rincorsa dell’affitto più basso, e così anche la famiglia Pirandello traslocò moltissime volte, passando da via Ripetta alla Nomentana e poi ancora più fuori Roma. Nel 1904, a un anno dalla sciagura, scriveva a un amico: «Io purtroppo, caro Angiolo, non solo non voglio riposarmi, ma non posso, non posso più», e diciassette anni più tardi, quando ne aveva cinquantatré, confessava al figlio Stefano: «S’avvicina il giorno 15 in cui dovrei mandare denari a te, denari a Fausto, denari a mio padre, la bellezza di L. 1325, e se non m’arrivano i denari di Treves e quelli della Società (degli Autori: n. d. r.), non so come fare. Aver lavorato tanto e non avere ancora la sicurezza del domani, è proprio cosa avvilente!»[8. L. Pirandello, S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, 1919-1936, a cura di S. Zappulla Muscarà, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 2008.]. L’unica entrata regolare, importantissima, era data dallo stipendio di docente presso l’Istituto superiore del Magistero di Roma, 2.500 lire l’anno (un «misero stipendio di professore straordinario che mi basta appena per pagare la pigione di casa»). Nonostante il relativo successo a teatro, che fu successo di stima, di elogi e mai di moneta sonante, la sua situazione non cambiò mai: quando prese il Nobel nel ’34, dopo averlo sognato a lungo proprio per raggiungere l’agognata tranquillità economica, era ormai troppo tardi. Com’è noto, morì due anni dopo, nel ’36.
Il crollo economico coincise per Pirandello con il disastro famigliare e forse questo è uno dei motivi per cui il denaro entra sempre prepotentemente nella vita dei suoi personaggi: i protagonisti del Treno ha fischiato, ad esempio, non possono tentare la fuga perché non hanno soldi, e lo stesso Mattia Pascal va in crisi quando gli viene sottratto il denaro, perché il denaro lo rende forte, autonomo, libero. I soldi sono una sorta di armatura, uno scudo nell’esistere: questo almeno è uno dei valori della nostra società.
Il declassamento sociale provocò nella moglie Antonietta un tracollo psicologico e, se la perdita dell’agiatezza e della sicurezza economica non furono la causa, ne furono però l’elemento scatenante, e da qui forse nacque un profondo senso di colpa in Pirandello. La gelosia paranoica della quale la donna soffriva con l’andare degli anni si aggravò: accusava il marito di tradirla con le sue studentesse (insegnava in un istituto femminile), gli faceva scenate fuori dalla scuola; incarnava di fatto la paranoia del padre Calogero e i parenti le credevano, ovviamente, lo consideravano anche loro un mascalzone. Perciò, ci troviamo in una situazione pirandelliana, come quella dell’adultera nell’Esclusa, anche se di sesso opposto. Un giorno la signora trovò un bigliettino nella giacca del marito, una poesia d’amore, e gli disse che era «un porco», ma si trattava di un appunto sequestrato durante un compito in classe; la donna arrivò addirittura a immaginare un incesto di Luigi con la figlia Lietta, che fu costretta ad andarsene via da casa a 19 anni.
In una lettera a Ugo Ojetti[9. Cfr. L. Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti – Albertini – Orvieto – Novaro – De Gubernatis – De Filippo), a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980.], Pirandello scrive: «Intenderai facilmente che per quanto io guadagni lavorando in queste condizioni, per quanto ella abbia il suo discreto reddito, non c’è denaro che basti, tutto quello che entra è subito ingoiato, divorato dal disordine che regna in casa da sovrano assoluto e con in capo il berretto a sonagli della follia». Pirandello si ritrovò dentro la propria opera[10. Cfr. G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1982, pp. 94-98; e R. Barilli, Pirandello. Una rivoluzione culturale, Milano, Mursia, 1986, pp. 35-39.], la sua vita privata vi si riversò all’interno, e sperimentò sulla propria pelle l’angoscia costante del denaro dopo un fallimento economico, la trappola famigliare, l’avvertimento e il sentimento del contrario, e soprattutto la condivisione della vita con la pazzia, la sua impenetrabilità, perché le verità di Antonietta (l’odio dei figli, il tradimento del marito ecc.) avevano la consistenza e l’evidenza del vero. Pirandello imparò che esistono due verità inconciliabili, apparentemente dello stesso identico livello, solo che una è vera e l’altra no, ma la parola è comunque spuntata e non riesce a persuadere dell’evidenza del contrario.
Italo Svevo contro la salute che dà il denaro
Solo diversi anni dopo essere diventato un uomo ricco e aver conosciuto dall’interno i meccanismi del denaro, i suoi miti, le nevrosi a cui conduce, Italo Svevo si accorse che la vera malattia per ciascun individuo è il denaro stesso: l’approdo a questa concezione, chiarissima nella Coscienza di Zeno[11. Cfr., ad esempio, l’edizione: I. Svevo, La coscienza di Zeno, introduzione di G. Contini, prefazione di E. Saccone, Milano, Garzanti, 2003.], fu tortuoso e accidentato, e il percorso che dovette compiere contemplò da un lato il radicale ribaltamento della sua idea profondamente darwiniana della società, che è in mano ai più forti secondo un’impostazione che contraddistinse i suoi primi romanzi; dall’altro, il passaggio lungo, doloroso, contraddittorio, del rifiuto della scrittura, una sorta di abiura, così come aveva fatto per altri versi con l’ebraismo.
Per un curioso contrappasso la letteratura costò a Svevo sempre un sacco di soldi, perché si autofinanziò la pubblicazione dei propri libri[12. Cfr. Italo Svevo, a cura di G. A. Camerino, Torino, Utet, 1981.], fin dal primo, Una vita[13. Cfr., ad esempio, l’edizione: I. Svevo, Una vita, introduzione e prefazione di G. Contini, Milano, Garzanti, 2003.], nel 1982, presso l’editore Vram, che poi gli stampò anche Senilità nel 1898, ma sempre a spese dell’autore; e persino dopo la sua consacrazione o meglio riscoperta attraverso i buoni uffici di Joyce dovuta al critico francese Valery Larbaud, e in Italia a Montale[14. Cfr. E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976.], che pubblicò un Omaggio a Italo Svevo nel 1924 su «L’Esame», persino allora fu costretto a pagare di tasca propria il traduttore francese della Coscienza e a sovvenzionare l’edizione italiana di Cappelli, dopo il rifiuto da parte di tutti gli altri grandi editori. Ciascuna piccola tiratura ebbe un peso finanziario e, in realtà, ogni volta che dava alle stampe un libro, o scriveva, Svevo disubbidiva al principio della razionalità economica della sua famiglia, che non aveva soldi da “gettare”: già solamente la pubblicazione era una specie di tradimento, di depauperamento, di peccato, di mancanza di rispetto per le direttive famigliari (e, negli anni a venire, di quelle della stirpe Veneziani, i ricchi e cattolici a cui si legò sposando Livia[15. Cfr. E. Ghidetti, Italo Svevo, la coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori Riuniti, 1992.]).
Il padre di Aron Hector Schmitz, non ancora Italo Svevo, era un commerciante ebreo di Trieste che mandò i figli a studiare le lingue e poi all’Istituto commerciale cosicché potessero aiutarlo un giorno nella sua ditta di vetrami, ma il desiderio di Ettore era un altro: «Ha cominciato a scrivere tante poesie, prose, versi, farse, commedie, ma il loro destino è il fuoco», annotò nel suo Diario il fratello Elio[16. E. Smith, Diario, a cura di L. De Angelis, Palermo, Sellerio, 1992.], che già leggeva la vita di Ettore come degna di essere storicizzata e raccontata. Lo vide immerso nel turbinìo delle grandi idee dato dallo studio dei classici e dal sogno della poesia, ma poi dovette fare la cronaca desolante della sua sconfitta, perché il peggioramento delle condizioni economiche della famiglia lo portò fin dal 1880 a rinunciare alle sue aspirazioni letterarie. Elio, che morì presto, fa parte di quelle meravigliose figure di fratelli o sorelle, un po’ come fu Stanislaus per Joyce, che sostennero moralmente, finanziariamente, emotivamente i propri fratelli scrittori o artisti, ne percepirono la grandezza non ancora espressa, sacrificando se stessi per aiutare il talento ad emergere.
Grazie al fidanzato della sorella Natalia, il padre trovò a Ettore un impiego nella filiale triestina della Banca Unione che aveva la sede centrale a Vienna: aveva messo un avviso sul giornale in cui richiedeva il posto per un ragazzo che conosceva quattro lingue, ma il lavoro veniva dato prima ai tedeschi, poi agli italiani, e solo dopo agli ebrei, per cui c’era questa doppia fragilità per lui; poi, si presentò l’occasione in banca e fu il padre ad accettare per il figlio. Nel Diario, il 27 settembre 1880, Elio scrisse: «oggi è entrato in banca mio fratello, si trova molto contento», un mese dopo rettificò con un «è abbastanza contento», perché aveva poco tempo per scrivere una commedia[17. Cfr. I. Svevo, Commedie, a cura di U. Apollonio, Milano, Mondadori, 1960.], I due poeti, e «probabilmente non riuscirà a finirla». Cominciò così la carriera da travet di Ettore, da impiegato umile, un po’ anche commesso viaggiatore, perché andò spesso in trasferta, che divenne una specie di prigione, una trappola nel 1884 con il tracollo finanziario del padre, e che alla fine durò ben diciotto anni: nel suo profilo autobiografico l’unico momento di sollievo, di dolcezza che ricorda, sono le letture nella biblioteca civica di Trieste.
È sintomatico che, quando pubblicò Una vita, erano passati pochi mesi dalla morte del padre, e il denaro che aveva risparmiato lo investì nella letteratura usando lo pseudonimo di Italo Svevo: ancor più di un amore nascosto, dunque, la letteratura era per lui una passione peccaminosa, offensiva, se pensiamo all’etica del denaro di una famiglia in difficoltà: la consistente somma uscita dalle sue tasche per il suo primo libro sarebbe stata considerata dal padre, come fu poi per il suocero e la suocera, una somma buttata, un vezzo assolutamente inutile, anche perché non ebbe riscontri dalla critica, come non li ebbe nemmeno in seguito, per la verità. Rispetto ai principi della ragionevolezza e delle esigenze economiche borghesi, Svevo compiva due tipi di tradimento: uno di denaro, perché investiva in un’attività in perdita, e uno di tempo, perché il sogno della letteratura sottraeva energie alla carriera commerciale verso la quale lo aveva avviato il padre.
Le sicurezze economiche rendono più forti e capaci, mentre il declassamento sociale provoca estreme fragilità: negli anni che passano tra Una vita e Senilità, balena in Svevo un concetto crudo, calvinista, cioè che il fallimento economico sia una sorta di castrazione, di de-virilizzazione, per cui chi possiede il denaro gli appare forte e chi non lo ha invece è vulnerabile psicologicamente. In una lettera, successiva e insieme precedente ad altre in cui annuncia l’abbandono della scrittura, mai veramente realizzato, sostiene che «per credere nella letteratura, la letteratura dovrebbe produrre denaro». Da impiegato senza successo, senza carriera, come accennato, ha una visione darwiniana della società[18. I. Svevo, L’uomo e la teoria darwiniana, in Id., Tutte le opere, Torino, Einaudi, 1987.], dove vige la legge del più forte contro la morale dei deboli: nella prima fase della sua letteratura l’inetto è un impotente economico e sessuale (le due cose coincidono, l’attività sessuale è strettamente connessa alla potenza economica), e solo alla fine capirà che la malattia appartiene anche al capitalismo e che la sanità data dal denaro in realtà è un ottundimento.
La svolta economica avvenne per Svevo attraverso il matrimonio, nel 1896, con Livia Veneziani, sua cugina di secondo grado, il cui padre era uno dei più affermati industriali triestini, produceva vernici per sottomarini con una formula segreta. Per sposarla dovette prendere il battesimo[19. Cfr. Italo Svevo, a cura di A. Cavaglion, Milano, Bruno Mondadori, 2000.]. Italo aveva 31 anni e lei 18, ma tra tutte le disparità quella economica era quella davvero incolmabile: all’indomani del matrimonio si pose per Svevo il problema di mantenere il tenore di vita che Livia aveva avuto come figlia, e per farlo dovette accettare la carità, l’aiuto (interessato) dei suoceri, perché lo stipendio da impiegato e l’insegnamento presso l’istituto Revoltella e gli spiccioli racimolati con gli articoli sul «Piccolo» di Trieste non bastavano: pensò, come era accaduto ad altri, al teatro, via d’una entrata facile e sicura, ma anche questo si risolse in un sogno. Nelle pagine del Diario per la fidanzata, un quaderno liberty regalato da Livia, vergato da un gusto fin de siècle, trapela in maniera drammatica questa diseguaglianza ˗ come abitudini, come vacanze, come possibilità di spese, ristoranti, serate ˗, uno sbilanciamento, scrive, che potrebbe intaccare «il tuo amore»: in una coppia il denaro ha un ruolo di forza, il denaro ti dà un potere che è quasi sfacciato, quasi oltraggioso, e in generale quando hai un potere tendi a usarlo (solo il gesto di mettere le mani in tasca e dare dei soldi è mortificante: lo è oggi per chi chiede, figurarsi nell’Ottocento). Colpisce che, quando Livia si recava ogni anno a Salsomaggiore, motivo scatenante della gelosia di Italo, lui non l’accompagnava perché non poteva permettersi il costo della vacanza: in questa chiave vanno lette anche le elaborazioni sul rapporto servo-padrone che Svevo fece nel racconto la Tribù o in Senilità, probabilmente legate alla complessa relazione con la famiglia Veneziani e al complesso di un umiliante senso di inferiorità.
Per colmare questa disparità, e sentendosi un letterato fallito, si mise alla ricerca di un lavoro con cui guadagnare di più, pensò di creare un’associazione commerciale con il fratello, poi di accettare il posto di preside in una scuola di Milano, ma questi movimenti o falsi movimenti si conclusero con l’assunzione a trentasei anni nell’azienda Veneziani, le cui redini erano in realtà tirate dalla suocera Olga[20. Cfr. L. Veneziani, Vita di mio marito, stesura di L. Galli, pref. di E. Montale, Milano, Dall’Oglio, 1976.]: il prezzo che dovette pagare fu la rinuncia alla letteratura (almeno formalmente). Forzando un po’ la mano, come detto all’inizio, si può istituire un parallelo tra questa abiura della scrittura e quella alla propria ebraicità, vederle come il rinnegamento della condizione di esilio e di estraneità, come il tentativo di superare il sentirsi inadeguato, la propria condizione di inettitudine rispetto alla vita sociale, per diventare appunto cattolico e uomo d’affari.
Una volta raccontò, in una lettera inviata alla moglie che stava a Salsomaggiore[21. Cfr. I. Svevo, Tutte le opere, a cura di M. Lavagetto, vol. II, Racconti scritti e autobiografici, commento di C. Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004.], di un sogno in cui lei era una principessa e degli schiavi la uccidevano mettendola in una fonte bollente, dove la preoccupazione che potesse succederle qualcosa in sua assenza nascondeva una chiara proiezione dell’odio sociale: una messa in scena del meccanismo della ricchezza, dei servi e dei padroni, là dove l’apprensione per alcune proteste sociali che sentiva (e a cui partecipava anche, vagheggiando una società senza classi, in termini non marxiani, non violenti, diversamente dal sogno), in realtà facevano parte di lui in quel momento[22. I. Svevo, Epistolario, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1966, p. 203.].
Poi abbracciò tranquillamente la conservazione, fino all’incontro con Joyce[23. Cfr. I. Svevo, Scritti su Joyce, a cura di G. Mazzacurati, Parma, Ed. Pratiche, 1986.] che aprì una diga già piena, riportandolo violentemente alla scrittura: era il suo opposto, povero in canna, tanto quanto Svevo pieno di soldi e, dato che era considerato il migliore insegnante di inglese di Trieste, lo chiamò per avere lezioni, per incrementare i suoi affari, non per discutere di Shakespeare. Forse Joyce gli fece comprendere che la vittoria economica che aveva conseguito non aveva alcun senso, o forse lo aveva capito prima, attraverso la psicanalisi e durante gli anni da imprenditore affermato, saturo di salute economica: nella Coscienza, Zeno, che sembra avere tante malattie, è forse l’unico sano, mentre la moglie Augusta, che è il ritratto della salute, di una vita senza problemi, risulta una totale idiota.
Tutto, allora, appare più complesso, e il rapporto tra malattia e salute, ricchezza e povertà non sembra darwiniano: non solo Guido Mayer ma anche i personaggi capaci economicamente sono ricchi proprio perché ottusi, come il padre di Zeno che non ha mai alzato gli occhi al cielo, cioè non si è mai chiesto niente, e quando sta per morire vorrebbe fare un discorso profondo al figlio ma non possiede le parole, rinvia, si ritrova in una sorta di analfabetismo, perché non servono i soldi, la fabbrica, il potere, di fronte alla malattia e alla morte: dinanzi a loro, sosteneva Svevo, l’impostazione dell’esistenza crolla, se gli strumenti che hai adottato per affrontare la tua vita sono quelli economici e non invece quelli filosofici o poetici, gli unici che ti servirebbero[24. Cfr. Italo Svevo, carteggio con James Joyce, Eugenio Montale, Valery Larbaud, Benjamin Crémieux, Marie Anne Comnène, Valerio Jahier, a cura di B. Maier, Milano, Dall’Oglio, 1978.]. Il denaro dà l’illusione che tutto vada bene, che tutto sia in ordine, che tu sia in salute, ma è proprio questo il grado più alto di malattia, mentre l’unica maniera per poter vivere autenticamente è dedicarsi alla letteratura e, se rinunci, ti troverai poi completamente disarmato.
L’infanzia rovinata da una casa: Carlo Emilio Gadda
Si può rovinare la propria vita e quella dei propri figli per il possesso di una casa? Sono solo quattro mura che però spesso assurgono a luogo di conflitti acerrimi, di cause infinite, di avidità mal disposte e mal represse, di nevrosi e malesseri latenti pronti a esplodere. Perché in realtà rappresentano, quelle quattro mura, uno spazio psichico prima ancora che fisico e, divenendo una sorta di maledizione che coinvolge figli e nipoti e pretendenti vari, si trasformano in un pozzo avvelenato dentro cui affoga ogni affetto, ogni porzione di felicità, ogni residuo di rispetto per se stessi o per gli altri. La villa Alta Costa a Longone in Brianza della famiglia Gadda, nata come posto di villeggiatura[25. R. Rinaldi, Gadda, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 55 e sgg.] e poi ricalcata nella struttura e perfino nella planimetria, come su carta carbone, nella Cognizione del dolore, assomma un po’ quasi tutte queste caratteristiche, che appunto la fanno somigliare a una personalissima camera di tortura.
Infinite volte Carlo Emilio Gadda ha raccontato come la sua infanzia fosse stata devastata dai sacrifici che la costruzione e poi il mantenimento della villetta in Brianza avevano richiesto alla sua famiglia nel corso degli anni, e come questa «fottuta casa di campagna», «la bestia nera della mia psicosi», come dirà più tardi, questo status symbol “cupìdo”, bramato come un dovere morale dalla borghesia longobarda, abbia inaridito tutte le fonti di piacere della sua giovinezza[26. Cfr. C. E. Gadda, Per favore mi lasci nell’ombra, Interviste 1950-1972, Milano, Adelphi, 1993.]. Sarebbe sufficiente aprire la parte prima, capitolo uno, della Cognizione del dolore, e rileggere quelle pagine e pagine colme di disprezzo, di odio totale sulle «ville», «villette» e «villule» nell’immaginario Maradagàl dietro cui si celano le colline della Brianza, in cui fa il verso alle pubblicità delle agenzie immobiliari e si scaglia contro gli architetti che hanno convertito le proprie frustrazioni in case con torrette, cupole e pennacchi vari, e le hanno rese simili a chalet svizzeri o pagode o piccole moschee, con omaggi al neo liberty, all’estetica assiro-babilonese o etrusca o dannunziana, secondo combinazioni improbabili e con tutto il cattivo gusto della propria ostentazione[27. Cfr. E. Gianola, Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari, Milano, Jaca Book, 2004.].
Gadda, per queste dimore estive che si chiamano Villa Enrichetta o Antonietta o Giuseppina o Margherita, secondo appunto un florilegio piccolo borghese, mostra apertamente il proprio rancore e lo fa attraverso un impasto linguistico barocco, deforme, grottesco, ancora felicemente pieno di sarcasmo e di rabbia pensando a tutti i soldi che il padre e la madre gettarono nella villa di Longone, volendo vivere al di sopra delle proprie possibilità: una vita rovinata dai sacrifici economici solo per apparire, per stare all’altezza dei vicini di casa o dei parenti, con uno stillicidio quotidiano di denaro che rese la sua infanzia un’infanzia senza divertimenti, senza giocattoli, senza vacanze. In un’intervista Gadda confessava che l’infelicità maggiore proveniva non soltanto dalla povertà della sua famiglia ma da una fasulla rappresentazione di agiatezza che la sua famiglia si ostinava a portare avanti: «Per quanto nei primi anni abbiamo avuto delle condizioni abbastanza buone, poi le cose si sono aggravate per errori economici di mio padre. Spendeva più di quanto potesse poi recuperare».
Spendeva per «non voler sfigurare» socialmente, che è una specie di motto della famiglia Gadda, al cui interno sembra svolgersi un micro romanzo sveviano: il padre di Carlo Emilio, Francesco Ippolito, aveva tentato di fare l’industriale della seta e aveva sposato la figlia del titolare dell’impresa serica Ronchetti & C., poi morta di parto; in tarda età decise di riammogliarsi con Adele Lerh, l’insegnante di francese della figlia di primo letto, un matrimonio che era stato pensato senza pargoli di mezzo, almeno stando ad alcune allusioni di Gadda che parla nella Cognizione del dolore di Don Gonzalo come figlio non voluto, una sorta di disubbidienza dei cromosomi, e altrove di una «cicatrice alla nascita». A causa di un avventato progetto di coltivazione del baco da seta proprio nel momento in cui cominciava la concorrenza giapponese, Francesco Ippolito ebbe un tracollo economico finendo degradato a magazziniere nella stessa ditta di cui era stato socio.
Nonostante ciò, e con tre figli da mantenere, fra il 1899 e il 1900 costruì per cinquantamila lire una villetta in Brianza, comprando oltretutto tre appezzamenti in tempi diversi, per cui li pagò molto di più del loro valore; seguì il progetto di un nipote, l’ingegner Paolo Gadda, appartenente al ramo fortunato della famiglia che aveva avuto in dote la casa avita di Rogeno, che si trovava poco distante: dietro la presenza di queste due famiglie, quella «sognata», ricca prospera felice, dei cugini, e quella derelitta e senza sorriso di Carlo Emilio (con una citazione virgiliana, «cui non risere parentes», accomunò se stesso al bambino Giacomo Leopardi e a tutti quei figli ai quali i genitori non hanno potuto o saputo sorridere), si intravede l’angoscia dei Gadda minori, costretti dal demone dell’emulazione a perpetuare, senza permetterselo, le fantasie da proprietari borghesi e a confrontarsi con dei cugini cui va tutto benissimo, che diventano dei modelli fastidiosamente insuperabili, come quegli zii che arrivano nelle nostre case e ostentano la loro salute economica, le vacanze esotiche, i vestiti firmati, e che sopportiamo come incubi notturni.
La madre lo volle ingegnere perché lo erano i cugini che con l’ingegneria avevano guadagnato molto (paradossalmente, l’essere bravissimo in matematica gli aveva nociuto)[28. Cfr. G. Contini, Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Torino, Einaudi, 1989, pp. 85 e sgg.]: un episodio terribile della sua infanzia è ricordato da Arbasino, quando cioè i genitori decisero di concedersi un gelato tutti insieme, ma, appena Carlo Emilio uscì dal negozio, sul suo cono cadde una cacca di piccione: «ormai la spesa l’abbiamo fatta», gli dissero i genitori[29. Cfr. A. Arbasino, L’ingegnere in blu, Milano, Adelphi, 2008.]. Non è un caso che Gadda spesso abbia scritto dell’educazione come di una forma sadica di violenza inaudita, con il sadismo del padre e della madre a fare da coro e, sopra di loro, il sadismo dei lari e dei penati, tanto che nelle lettere gli scappava di chiamare il padre con l’epiteto «marchese», un chiaro manzonismo tra i tanti che, però, identificava il padre della povera piccola Gertrude, poi Monaca di Monza, anche lei sottoposta a punizioni e umiliazioni. Gadda ha sempre deriso i «risparmi sacrosanti», la «famiglia parsimoniosa», «la recita sociale» cui bisogna sottostare, e maledetto l’ammaestramento al denaro come complesso di colpa, percependo profondamente, fin da bambino, che l’elemento economico coincide con quello affettivo, per cui alla condizione di miseria dei tre figli Gadda, alle loro ristrettezze o alla mancanza di mezzi corrispondeva una mancanza di affetto, perché il diktat sociale della villa, del far bella figura, dell’apparire era superiore alla loro felicità: le spese che sono la consolazione quotidiana del vivere erano considerate non necessarie, in nome degli alberi da mettere nel parco, del muretto da erigere, degli operai da chiamare.
Nel 1909 morì il padre, lasciandoli pieni di debiti, e venne messa un’ipoteca di diecimila lire per restituire alla sorellastra la sua dote: la madre, o meglio “La Signora”, come veniva sbeffeggiata dai contadini («la parola ha per me invece un valore dolorosamente ironico – affermerà Gadda ˗. Non ironico verso mia madre, ma ironico verso il destino»[30. C. E. Gadda, Per favore mi lasci nell’ombra, op. cit., pp. 154 e sgg.]), si rifiutò sempre di vendere. Avrebbe compiuto sacrifici su sacrifici per i lavori nella casa dei gelsi, incarnando lo spirito araldico della linea paterna. Gadda visse poi in camere d’affitto, non divenne mai proprietario di una casa così come non mise mai su famiglia: investì in titoli elettrici perdendo tutto, e solo l’ingresso alla RAI lo salvò dalla fame. Subito dopo la morte della madre, nel ’37, vendette la casa, rimettendoci, e lasciò definitivamente l’ingegneria, ma lo fece quasi di nascosto, come una congiura, dovendo poi convivere, angosciato, con i rimorsi[31. Cfr. F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’invenzione della realtà, Torino, Einaudi, 2001.]: soprattutto, iniziò a scrivere la Cognizione del dolore; «mi vendicherò», scrisse in una famosa lettera a Contini, il quale rintracciò in queste parole il primo nucleo del romanzo[32. C. E. Gadda, Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario, 1934-1967, Milano, Garzanti, 1988, pp. 56-57 e sgg.].
Il nucleo nevrotico invece, al di là dei fatti precipui o specifici, nacque dall’aver vissuto una condizione di rinunce, di parsimonia, di grettezza, di continuo stato d’ansia economico in nome dello sguardo degli altri e dell’ideale di una condizione sociale in realtà già perduta. Svendere la villa di Longone fu una sorta di profanazione, di blasfemia nei confronti delle memorie, perché lì vicino erano sepolti il padre, la madre, il fratello: fu però anche una piccola rivolta contro l’elemento per lui disgustosamente fallocratico del potere famigliare, che è come l’erezione continua dell’io, e tutta la sua scrittura sembra una reazione vendicativa dove da un lato si mostrano su un palcoscenico le proprie viscere e dall’altro le si nasconde, una sorta di censura infinita. In una lettera del ’39, scrivendo del trasloco e dei libri negli scatoloni, aggiunse questa frase (stava parlando del fratello Enrico, a cui pure dedicò nelle sue opere giaculatorie ed epitaffi continui, e lo disse come se fosse niente): «Regalata alla serva Maria la divisa (alta tenuta) di alpino del mio povero fratello morto in guerra, nel 1918 (…) se ne farà una sottana: dei pantaloni, un giubbetto per sua figlia dattilografa e self-made woman»[33. Ivi, p. 28.]. Non è la morsura fortissima del tempo che consuma, distrugge, per cui metti via, forse neanche è Charles Bovary che regala lo scialle della moglie suicida alla domestica: somiglia più a una seconda, inutile, uccisione d’un cadavere ancora caldo.
(fasc. 8, 25 aprile 2016)