Musica e narrativa: intervista a Filippo Tuena

Author di Claudio Morandini

La pubblicazione nel 2015 dei Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena presso il Saggiatore è un’ottima occasione per riprendere l’argomento del rapporto tra musica e narrativa che abbiamo già affrontato sul n. 3 di questa rivista, dialogando con Simona Carretta. Ispirato agli ultimi anni di vita di Robert Schumann e all’intreccio tra follia e ispirazione, quello di Tuena è un romanzo “musicale” non solo perché racconta la vita di compositori e il fervore di un ambiente di musicisti, ma anche e soprattutto perché nella musica, nella costruzione compositiva, trova una matrice fertile su cui adagiarsi. C’è materia sufficiente per una conversazione con l’autore, che ha cortesemente risposto alle nostre domande.

Claudio Morandini: Qual è la forma musicale che senti più affine, a cui ti ispiri più naturalmente nel costruire i tuoi romanzi? Conoscendo i tuoi titoli, verrebbe da rispondere subito: la Variazione. Hai confidato tempo fa (su Facebook, poi su Letteratitudine) di considerare «la forma delle variazioni la punta più alta della letteratura musicale ottocentesca e anche la più vicina alla narrativa». Hai spiegato così: «Che cos’è la narrazione se non la variazione di un evento preesistente che nelle mani del narratore assume una forma specifica e riconoscibile come originale di quel narratore? Stabilito questo assioma, ne cade che la realtà così come possiamo trasmetterla non è che una variazione dell’evento occorso». Questa è l’occasione per tornarci su con comodo.

Filippo Tuena: Sì, torniamoci con calma.

Primo punto. Per chi, come me, non lavora su opere d’invenzione ma su personaggi ed eventi storici, il modello è, inevitabilmente, quello della Variazione. Prendo un tema (ovvero un personaggio storico, possibilmente circoscritto a un evento particolare, piuttosto che all’intera sua vicenda biografica) e lo sviluppo, proprio come farebbe un musicista con un tema da variare. In poche parole, provo a raccontare quel personaggio, quella vicenda in maniera singolare – nel senso che cerco di renderla profondamente mia –, mantenendo punti fermi piuttosto rigidi. Proprio come fa il musicista col tema variato: mantiene il numero delle battute, la progressione degli accordi, la linea del basso, la melodia (ancorché spesso nascosta) e scrive qualcosa di nuovo, di originale. Racconta la “sua versione”, proprio come provo a fare io con la scrittura. Rispetto al tema, mantengo alcuni punti fermi: un’identità quasi assoluta con gli avvenimenti storici; il massimo che mi concedo è “il plausibile”; altrimenti mi attengo agli eventi e cerco di raccontarli utilizzando il mio vocabolario, la mia sintassi, sviluppando temi o argomenti che mi sembrano pertinenti con l’assunto. In qualche caso mi avvalgo di personaggi di fantasia – ma si tratta di eccezioni molto rare, dettate da circostanze particolari. Nei Memoriali, l’unico personaggio di fantasia è Katarina (la seconda dama di compagnia di Rosalie Leser) solo perché la prima dama di compagnia, Elise Junge, era morta negli anni ’70 e a me serviva un testimone di avvenimenti relativi agli anni ’90. Quanto ai fantasmi di Schumann, presenti sempre in quel libro, non posso ritenerli di fantasia. Appartengono a pieno titolo agli eventi storici, anche se è evidente che li ho raccontati in maniera personale.

Secondo punto. Nei miei libri c’è un momento iniziale di ricerca del materiale storico. Accumulo dati, notizie; memorizzo i fatti da narrare. Terminata questa fase, inizio a scrivere utilizzando una sorta di memoria individuale. Ho ricordo di quanto raccolto ma soprattutto cerco di scrivere l’effetto che le notizie raccolte hanno prodotto in me. Dunque, qualcosa di molto simile al lavoro che fa un musicista su un tema dato che poi viene variato.

Terzo punto. La forma delle Variazioni stabilisce un rapporto forte, un dialogo attivo, tra autore-esecutore e ascoltatore. Ti siedi nella sala da concerto e sai che, dopo aver presentato un dato tema, il compositore si applicherà a mostrarne tutti gli sviluppi, tutte le possibilità espressive. A quel punto diventi un ascoltatore partecipe, perché valuti, sulla base di quel tema precedentemente ascoltato, le capacità del compositore. La sua capacità di stupirti, la sua capacità di trovare nessi imprevisti a cui non avevi pensato. Ecco, mi piacerebbe che il mio lettore – pur conoscendo i personaggi storici, gli eventi che tratto – nel corso della lettura s’interrompesse e dicesse: “Ecco, a questo non avevo pensato. Dove mi sta conducendo adesso questo libro?”.

«La struttura del libro per me è il libro. È l’elemento fondante dal quale parto», hai scritto ancora su Letteratitudine. E struttura, nel caso dei Memoriali sul caso Schumann, significa sei monologhi in cui si alternano «diari, epistolari, memoriali, monologhi, scritture automatiche». Niente dialoghi e niente descrizioni, perché volevi che «il lettore sapesse meno delle voci narranti. E che le voci narranti ignorassero il lettore». Anche in questo approccio mi pare di vedere una sensibilità costruttiva da compositore, almeno nel senso classico del termine: che ne dici?

A prescindere da ogni altra considerazione sulle vicende narrate, sul perché se ne scelga una piuttosto che un’altra – a volte si tratta d’innamoramenti improvvisi; a volte di lontane passioni che giungono a maturazione – il vero argomento di un libro è la scrittura. Il modo in cui si racconta una storia. È questo che fa il libro. È questo che trasforma una passione in qualcosa di condivisibile. Spesso faccio il paragone tra scrittura e passione amorosa. T’innamori di una donna e subisci la trasformazione imposta da Eros: sconquasso, tremori, incapacità di esprimerti, turbamento. Ma, perché questa tua passione porti a una condivisione con l’essere amato, c’è bisogno di ordinarla in gesti e pensieri condivisibili. C’è bisogno di esprimerli in maniera compiuta, possibilmente attraente, e in modo che corrispondano al tuo essere, al tuo “profondo”. E, dunque, cosa fai? Ti proponi in maniera appetibile, corteggi, usi delicatezze, garbo, attenzioni e poi, certo, arti seduttive e, se non sei un seduttore seriale, metti in campo te stesso, cerchi di esporre anche i tuoi pensieri intimi: ti metti a nudo. Dunque, in questo caso, più che il compositore, mi ispiro all’innamorato che cerca di conquistare la sua bella.

È ovvio che, in questa ricerca di seduttività, è il modo di esprimersi che fa la differenza. Sono la scrittura e le strutture narrative che vengono messe in atto ad affascinare il lettore. Ed è quello il campo di battaglia tra scrittore e lettore. Soprattutto se, come nel mio caso, spesso la vicenda è nota.

Una domanda che mi capita di fare agli scrittori che si occupano di musica e ai compositori che bazzicano la letteratura, e sulla quale rimugino da tempo, è questa: che cosa, secondo te, la letteratura può “invidiare” alla musica, cioè può solo osservare dall’esterno, senza potervi accedere appieno? E che cosa la musica può “invidiare” alla scrittura?

La letteratura non può descrivere la musica. Può farlo la critica musicale, se il lettore è altrettanto esperto, se conosce tecniche compositive, strutture musicali – forma sonata; rondò etc. La letteratura può descrivere e raccontare le impressioni che un ascolto musicale produce. Non può descrivere la musica in quanto evento. Posso raccontare cosa ha spinto Schumann a comporre certe musiche; posso descrivere le impressioni che quelle musiche producono in me. Ma non posso descrivere quella musica. Rimane qualcosa d’inafferrabile.

Al contrario, la musica può invidiare alla letteratura la capacità che ha quest’ultima di fermare un ricordo; un sentimento; un fatto. Una citazione da Dante, una frase pronunciata da una persona amata, una lettera d’amore, una lettera d’addio si stagliano nella memoria come macigni. Riportano immediatamente a un tempo determinato, a una situazione ben chiara. Sono precisi, circostanziati e feroci. Un tema musicale, se pur ci riporta a memorie affettive, lo fa sempre in maniera velata, quasi eterea. Trasmette un qualcosa di perfettamente riconoscibile ma poco preciso nei termini nei quali compare. La musica è volatile, la scrittura è solida.

Ecco, se vogliamo solo la scrittura poetica mantiene la volatilità della musica. Ma io non scrivo poesie.

Certo, mi si potrebbe obiettare: cosa c’è di più solido degli accordi iniziali della Quinta di Beethoven? Ma, nel momento in cui li ascoltiamo, quegli accordi già svaniscono. La scrittura no, è sempre davanti a noi.

Colpisce, nei tuoi Memoriali, l’assenza della testimonianza di Clara Schumann, che incontriamo solo nelle pagine altrui. È un’assenza carica di senso, un silenzio che pesa sul romanzo e che hai voluto per creare un effetto. La sua è una voce fantasma (un “tema” fantasma, se vogliamo continuare il gioco delle analogie musicali).

Un’altra assenza di cui forse si lamenteranno i lettori meno disposti a lasciarsi sorprendere è quella di un narratore. Tu trascrivi, o fingi di trascrivere, le pagine di diario e le lettere dei personaggi coinvolti nelle vicende, senza il collante di quella voce di narratore che nei tuoi libri precedenti ha, invece, avuto un ruolo importante. «Un unico narratore presupponeva una conoscenza completa delle vicende e io invece volevo che si mantenesse il più possibile il dato frammentario e incompleto».

Ecco, queste assenze, questi silenzi mi pare assumano una funzione determinante nel tuo libro. E da qui scaturisce la domanda: quanta importanza ha per te, nella costruzione di un romanzo, nel dosaggio di pieni e di vuoti, lo spazio bianco, anzi la pagina bianca (che corrisponde in musica alla paura, al silenzio)?

Ho un assioma al quale mi attengo sempre, quando scrivo narrativa: lo storico deve comunicare tutto quello che sa; il narratore solo quello che serve. E, poi, una frase di Voltaire che recita più o meno così: vuoi annoiare qualcuno? Raccontagli tutto.

Dunque, le voci che conducono la vicenda, i protagonisti di un romanzo devono sapere poco. Devono avere degli impedimenti gravi. Nel caso dei Memoriali Rosalie Leser è cieca; Elise Junge è una dama di compagnia, quindi in qualche modo marginale ai protagonisti; Christian Reimers è altrove: a Bonn, a Londra, persino in Australia; Ludwig Schumann è recluso in un manicomio; Katarina è un’altra figura marginale, che non ha esperienza degli eventi scatenanti; Brahms, che forse saprebbe, è profondamente solo, anaffettivo. Rimane Clara, che nella realtà ha sempre cercato di nascondere le vicende dell’ultimo Schumann; ha sempre cercato di nasconderle persino a sé stessa. Poteva essere uno dei motivi del libro: convincere Clara a parlare. Ma a me non interessava affrontare questo corpo a corpo con lei; volevo indagare piuttosto come ci si pone di fronte a un evento di cui ci sfuggono le cause. Volevo analizzarlo attraverso figure che conoscevano, ciascuna, una parte della verità, il che vale ad affermare che non conoscevano la verità.

I tuoi romanzi sono il frutto della combinazione di un attento lavoro di documentazione e di una parte di reinvenzione. Come racconteresti la fase di documentazione? Precede del tutto la stesura del romanzo o procede in parallelo con essa?

In parte ho già risposto a questa domanda, ma penso che si possa aggiungere qualcosa di più. Dunque, sì, il lavoro di documentazione precede sempre la stesura del romanzo. Posso specificare che la documentazione che cerco è quasi sempre quella coeva agli eventi raccontati. Dunque, testimonianze dirette, diari, lettere. E, anche se consulto testi contemporanei, mi soffermo sempre più sulla documentazione che riportano che non sulle interpretazioni moderne che suggeriscono. Cerco di mettermi quanto più possibile nei panni di un osservatore contemporaneo ai miei personaggi. Con le dovute eccezioni. Nei Memoriali, per esempio, a un certo punto si parla del “dionisiaco” dei musicisti. Il redattore mi aveva suggerito un sinonimo, ritenendo “dionisiaco” un termine ormai passato per nietzschiano e quindi, sia pur di poco, posteriore alle vicende di Schumann. Ho preferito mantenerlo perché volevo che il lettore si riferisse proprio al pensiero di Nietzsche. Per contro, non ho prestato troppa attenzione alle ipotesi recenti sulle cause della malattia di Schumann. Se i contemporanei del compositore brancolavano nel buio a questo riguardo, mi sembrava necessario che anche il lettore non avesse dati più circostanziati di quanti ne avessero i protagonisti della storia.

Ricostruire un’epoca significa anche trovare una lingua che sia compatibile con quell’epoca, che non stoni, e allo stesso tempo non suoni troppo lontana dall’oggi, non respinga il lettore, non lo costringa a “tradurre”. Come hai trovato quest’equilibrio? Su Facebook hai confidato che «il problema… era creare una lingua ottocentesca convincente. Mi sono reso conto che diario ed epistolario funzionavano molto meglio di una narrazione tradizionale – ed è stato gioco forza rinunciare quasi del tutto ai dialoghi, alle descrizioni».

Il problema della lingua, al pari della struttura narrativa, è essenziale. Ricordo che, quando andavo a trovare Pontiggia – è stato lui a incoraggiarmi, ai miei esordi – con le prime pagine di un nuovo romanzo, aspettavo la frase decisiva, quella che mi spronava a continuare e che, se era il caso, mi riferiva quasi di sfuggita, con quel suo tono ironico ma severo: “Hai trovato la lingua. Vai avanti”.

Nel caso dei Memoriali potevo appoggiarmi alla narrativa romantica, a Hoffmann, per esempio. Al romanzo ottocentesco. Ho provato e devo ammettere che mi son trovato in difficoltà soprattutto nello sviluppo dei dialoghi. C’è un formalismo romantico che a me suona falso e che non riesco a ricreare senza apparire artificioso. M’era già successo in precedenza, con un racconto su Géricault, che risolsi in altro modo. Qui m’è parso che il ricorso al romanzo epistolare – dove il dialogo non può avvenire – perché è la sommatoria di brevi monologhi che si rispondono senza mai accavallarsi, o al memoriale – dove il monologo, la libera associazione sono la struttura portante dell’esprimersi – funzionassero meglio. Fossero più credibili.

Schumann è, a modo suo, un viaggiatore, un esploratore in campo musicale ma anche, a un certo punto della sua parabola verso la follia, di Uomini e paesi misteriosi (per usare un suo titolo), attraverso gli atlanti consultati compulsivamente. Colpisce questa affinità con altri tuoi personaggi (penso a Ultimo parallelo, ovviamente), che viaggiatori ed esploratori dell’estremo lo sono stati davvero. L’hai cercata, l’hai assecondata, questa affinità?

La coincidenza è più da riferire all’aggettivo “estremo” che al sostantivo “viaggiatore”. Nel senso che tutti i personaggi di cui ho scritto condividono questo piacere per il rischio estremo, per il raggiungimento del limite, ma non necessariamente un limite geografico. Per gran parte sono artisti – Michelangelo, Géricault – o musicisti – Reinach, Bix, Schumann – o scrittori – Hemingway, Puskin. L’unico vero viaggiatore è stato Scott. Ma tutti percorrono il sentiero rischioso che costeggia l’abisso.

Schumann è stato uno sperimentatore – noi adesso non ce ne rendiamo conto, perché tutta la musica romantica successiva ci ha in parte reso, direbbe Adorno, ascoltatori risentiti. Ma, se ci estraniassimo da tutto quel che è accaduto dopo e ascoltassimo Schumann con attenzione, ci renderemmo conto delle grandi intuizioni schumanniane. La forma breve, frammentaria di molte sue composizioni per pianoforte e per voce, per esempio, conduce direttamente alla musica del ’900. L’intreccio di temi, incessante come nel caso della sinfonia Renana, porta a Mahler, e non è un caso che sia stato proprio Mahler a curare una riedizione delle sinfonie di Schumann dove, curiosamente, toglie note anziché aggiungerne, come ci parrebbe ovvio. Ma quel toglierle serve a mostrare più chiaramente l’intreccio di temi di cui parlavo.

Vi è la sua passione per Bach, condivisa con l’amico Mendelssohn. Non erano tanti i musicisti dell’Ottocento che lo considerassero il padre della musica moderna.

Vi è poi l’aspetto letterario della musica di Schumann. Si badi, non musica a programma, ma musica ispirata dalla letteratura (ed è per questo che su Schumann si può lavorare in maniera letteraria, mentre la cosa non riesce altrettanto bene affrontando altri musicisti).

I viaggi immaginari, compiuti sugli atlanti che scarabocchiava durante il ricovero a Endenich, non sono poi così tanto distanti dalle fantasie che sono all’origine di tanta sua musica.

Percorreva sentieri che conducevano lontano. Ci si è perso.

(fasc. 8, 25 aprile 2016)