Dal desiderio di transculturalità all’autotrascendenza. Un percorso nell’opera di Pasolini tra viaggi e teatro

Author di Lisa El Ghaoui

La produzione teatrale di Pasolini degli anni Sessanta va letta alla luce dei vari saggi, articoli e dichiarazioni sul teatro che permettono di inserirla in un discorso più vasto, in cui le nozioni di transculturalità, transmedialità e transumanizzazione sembrano sbocciare e germogliare sul terreno fertile delle transformazioni radicali che colpiscono la società italiana in quegli anni. Non precisamente formulate in questi termini, dato che essenzialmente posteriori all’opera di Pasolini, queste nozioni sono intimamente connesse tra di loro perché interrogano e rimettono in discussione i rapporti fra lingua e cultura, tradizione e progresso, inclusione e diversità, in un contesto di post-colonizzazione e, più generalmente, di globalizzazione. Il prefisso “-trans” indica un’idea di attraversamento, di passaggio da una condizione a un’altra, ma anche di superamento di un limite, alludendo quindi, implicitamente, alla fine di questo stesso limite, e rimettendo così in discussione i concetti stessi di cultura, linguaggio e umanità. Questo fenomeno di attraversamento può essere inteso in senso “orizzontale”, riferendosi alla definizione della “transculturalità”[1] come concetto di antropologia culturale definito prima da Fernando Ortiz[2] e poi da Wolfgang Welsh[3] ‒ scambi, rapporti, contributi reciproci tra due o più culture d’orizzonti diversi, senza alcun rapporto di dominazione, nella prospettiva di creare nuovi incroci, nuove forme culturali fluide o “camaleontiche”, che possono attuarsi in “ibridazioni” (Néstor García Canclini), métissages (Serge Gruzinski), créolisations (Édouard Glissant) ‒, ma anche, nello specifico dell’opera di Pasolini, in senso “verticale”, con il superamento del significato stesso di cultura (e di umanità) che sembra trovare, nello spazio simbolico ed “eterotopico” del teatro, un felice (e insieme tragico) laboratorio.

Partendo dalla definizione “orizzontale” del concetto di “transculturalità”, che analizzeremo nei testi legati ai vari viaggi di Pasolini sulle “lunghe strade di sabbia”, vicine e lontane, che permettono di mettere in luce i legami che uniscono la situazione italiana a quella degli altri “meridioni”, mostreremo come il teatro di Pasolini, definito come “rito culturale”, manifesti un’impasse ideologica, un’impossibile transculturalità, e dia il via a fenomeni di transumanizzazione e auto-trascendenza intese come ultime ricerche di senso.

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Con lo sguardo da antropologo che ha assunto nei confronti della realtà sin dalle sue prime produzioni, Pasolini ha tentato di fare del proprio mito privato (il suo amore viscerale per il mondo contadino, le periferie, il sottoproletariato) una specie di modello transculturale, cercando in varie zone del mondo, con una nostalgica rassegnazione, forme di disperata vitalità ai margini dell’omologazione culturale e del capitalismo dilagante. Se la realtà italiana funziona come paradigma, le altre realtà incontrate, nei suoi numerosi viaggi, si manifestano come diversità radicali, indebolendo così l’utopia di una possibile “transculturalità”, ma conferendo allo stesso tempo alla diversità un valore assoluto che si esprime attraverso un linguaggio universale (forme di oralità primitive, linguaggio della fisicità). Possiamo, quindi, individuare un triplo movimento nel modo in cui Pasolini si confronta con altre culture, geograficamente vicine o lontane: ricerca di similitudini, rivelazione di totale alterità e riconoscimento di modalità d’espressione comuni.

Per quanto riguarda la ricerca di similitudini, il punto di partenza è la scissione “neocapitalista” fra Nord e Sud Italia che Pasolini interpreta come un sintomo di quello che succede a livello globale tra nazioni avanzate e nazioni sottosviluppate. Le prime tappe del suo pensiero “panmeridionale”[4], per riprendere il termine usato da Giovanna Trento per descrivere il modo in cui la questione meridionale si espande nella poetica pasoliniana su scala mondiale, si possono individuare nel libro-quaderno di viaggio L’odore dell’India, che Pasolini scrive nel 1961. Per cogliere e rappresentare la realtà indiana, egli ricorre infatti a numerosi rinvii al Meridione italiano, creando dei ponti tra l’emigrazione interna italiana degli anni ’50 e quella indiana («Sundar viene da Haiderabad, dove ha famiglia; cerca fortuna a Bombay come un ragazzo calabrese cerca fortuna a Roma»)[5] o ancora individuando caratteristiche comuni legate al problema della disoccupazione: «Gli indiani si alzano, col sole, rassegnati, e, rassegnati, cominciano a darsi da fare: è un girare a vuoto per tutto il giorno, un po’ come si vede a Napoli, ma, qui, con risultati incomparabilmente più miserandi»[6].

Se da un lato questi parallelismi permettono al lettore di rappresentarsi il diverso, e quindi di rapportare la diversità a qualcosa di conosciuto, dall’altro permettono anche di accentuare la gravità della situazione italiana. Cancellando simbolicamente le frontiere, l’India diventa il Sud Italia, quel “terzo di mondo”, la metà dell’Italia. In effetti, se dovessimo eliminare le indicazioni topografiche, risulterebbe difficile individuare quali testi si riferiscono ai territori italiani e quali a quelli indiani: i tuguri romani hanno esattamente le stesse caratteristiche delle baraccopoli indiane e, implicitamente, degli altri ghetti, favelas, slums, bidonvilles del resto del mondo. A Roma i «tuguri si contano a decine. Si acquattano in prati e marane tra gli squarci della città, si stendono lungo gli argini di ferrovie e terrapieni, si aggrappano ai muraglioni degli acquedotti, per chilometri e chilometri»[7]; a Bombay troviamo «il solito ammasso informe di casupole male addossate l’una all’altra, di vicoli sconci e di bazar, allineati lungo una storta strada centrale, oltre i cunicoli aperti degli scoli»[8]. Pasolini usa la parola “tugurio” non solo per indicare abitazioni anguste e squallide, ma anche per evidenziare il fatto che certe zone del mondo sono state del tutto ignorate, dimenticate dal progresso: «non per nulla si tratta di ‘tuguri’ cioè di abitazioni tipiche di popoli a uno stadio preistorico»[9].

Oltre alle abitazioni, anche gli individui di questi territori geograficamente lontani ma culturalmente vicini si ricongiungono grazie alle numerose similitudini. I ragazzi indiani sono descritti essenzialmente come corpi randagi, ricoperti di stracci e fango («I loro stracci li avvolgono completamente, incerati di sporcizia. Il loro sonno è così fondo che sembrano dei morti avvolti in sudari strappati e fetidi»)[10], esattamente come quelli delle periferie italiane: «c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini […] erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta, trovata chissà dove, come un piccolo selvaggio»[11].

Queste forme di vita ancestrali, preistoriche, sono al contempo eterne (perché hanno attraversato le epoche senza evolvere) e improvvisamente effimere (perché minacciate dalla ruspa del progresso). Le persone incontrate formano un numero indefinito di anime vagabonde, disincarnate, ricoperte di lenzuola funebri («sudari strappati e fetidi») simili a cadaveri in divenire o superstiti di una grave catastrofe: «questa enorme folla vestita praticamente di asciugamani, spirava un senso di miseria, di indigenza indicibile, pareva che tutti fossero appena scampati a un terremoto, e, felici per esserne sopravvissuti, si accontentassero dei pochi stracci con cui erano fuggiti dai miserandi letti distrutti, dalle infime catapecchie»[12]. Disumanizzati quindi, ma con la capacità di trascendere la propria condizione, in qualche modo di “trasumanar”, perché felici. Se il viaggio in India di Pasolini risale al 1961, questa immagine metaforica del terremoto sembra anticipare simbolicamente il cataclisma culturale e antropologico che colpirà l’Italia qualche anno dopo. Questi scampati allegorici diventano figure di sopravvivenza, di resistenza all’interno di un mondo in piena mutazione, portando con sé ‒ loro malgrado ‒ la forza rivoluzionaria del passato. È molto probabile che queste visioni siano rimaste impresse nella mente di Pasolini, motivando le scelte di corpi, tessuti e spazi nei suoi primi film: visi scarni, spazi aperti (deserti, campi), catapecchie ricoperte di polvere, abiti fatti con lenzuola o stracci. Pensiamo, ad esempio, al protagonista di La ricotta, che indossa, durante tutto il film, un lenzuolo bianco intorno ai fianchi come gli uomini indiani («hanno uno straccio bianco che avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e qualcuno, un altro straccio intorno al capo»[13]); tra l’altro, è come se le numerosissime occorrenze del termine “stracci” presenti nell’Odore dell’India prendessero forma, dando un nome al protagonista, Stracci appunto.

Riferendoci alle eterotopie descritte da Foucault, questi spazi relegati ai margini della città, lasciati all’incuria, potrebbero rientrare nella categoria delle “eterotopie di scarto”, ma anche di crisi e di deviazione, poiché diventano luoghi di malavita e alienazione:

I ragazzini correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano, come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la cassettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano[14]// Mi è capitato spesso di cogliere qualcuno cogli occhi fissi nel vuoto, immobile: i sintomi chiari di una nevrosi nel volto. Pareva quasi che avesse ‘capito’ l’insopportabilità di quell’esistenza[15].

I termini legati al campo lessicale della malattia (cecità, agitazione, sintomi, nevrosi) ci riportano, inoltre, alle eterotopie biologiche che Foucault ha individuato nelle società primitive:

Le società primitive hanno come anche noi, d’altronde, dei luoghi privilegiati, sacri o interdetti, ma questi luoghi privilegiati o sacri sono in generale riservati agli individui in crisi biologica […] queste eterotopie biologiche, queste eterotopie di crisi stanno scomparendo sempre di più, sono sostituite da eterotopie di deviazioni; i luoghi, cioè che la società organizza ai suoi margini, nelle spiagge vuote che la circondano, sono riservati piuttosto agli individui il cui comportamento è deviante rispetto alla media o alla norma richiesta[16].

L’aggettivo “primitivo” va qui intenso sia in senso evoluzionistico, come sinonimo di ‘selvaggio’ («termine usato per descrivere le prime popolazioni umane e le loro usanze, o per designare le società e le istituzioni contemporanee che si pensava fossero ferme a uno stadio di primordiale sviluppo»[17]), sia in senso etimologico dal latino primitivus, ‘primo in ordine di tempo’ (forma originaria, più antica). In questo modo, la transculturalità si presenta anche sotto il suo aspetto “transtemporale”, creando un ponte fra epoche diverse, tra presente e passato, mito e Storia. Non a caso, i ragazzi indiani descritti da Pasolini possono essere vestiti «come antichi greci» o «come nella Bibbia»[18], fantasmi insomma di epoche remote, morti e intatti come alcune periferie o paesini.

A partire dai viaggi che Pasolini realizza in Africa, la reversibilità o descrizione speculare tra Meridione e Terzo mondo può definirsi in termini di “panafricanismo” o meglio di “negritudine”. In un testo pubblicato su «Vie Nuove» nel 1961, egli spiega: «Cosa sono l’Africa, l’India, gli stati sudamericani, il Medio Oriente, se non il prodotto di questo contrasto, di questo squilibrio? Bandung è la capitale di tre quarti del mondo: è la capitale anche di metà Italia»[19]. L’allusione a Bandung[20] è presente in un altro testo scritto lo stesso anno, La Resistenza negra, in cui Pasolini spiega come debba essere interpretata la parola “Africa”, non solo in quanto realtà culturale e geografica, ma come condizione socio-economica universale:

Il concetto ‘Africa’ è il concetto di una condizione sottoproletaria estremamente complessa ancora inutilizzata come forza rivoluzionaria reale. E forse si può definirlo meglio, questo concetto, se si identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. […] Il concetto ‘Africa’ comprende il mondo del sottoproletariato “consumatore” rispetto al capitalismo produttore: il mondo del sotto-governo, della sotto-cultura, della civiltà pre-industriale sfruttata dalla civiltà industriale[21].

Il transculturalismo pasoliniano va quindi inteso in senso bi-direzionale. Infatti, come spiega Peter Kammerer a proposito del film documentario Appunti per un’Orestiade africana (1970), «Pasolini gira il suo film ‘italianizzando’ l’Africa e ‘africanizzando’ l’Italia” […] La negritudine trapiantata in Italia corrisponde alla tragedia greca trapiantata in Africa»[22]. Numerosi sono i testi e gli interventi che confermano questo fenomeno di vasi comunicanti e la presenza costante nell’immaginario pasoliniano della cultura/condizione africana. Emblematico e centrale il testo La Guinea, in cui appare appunto il concetto di negritudine («La Negritudine/ è in questi prati bianchi, tra i covoni/ dei mezzadri, nella solitudine/ delle piazzette, nel patrimonio/ dei grandi stili – della nostra storia.»[23]) e dove la terra africana assume connotati italiani: «La Guinea… polvere pugliese o poltiglia/ padana»[24]. Una “lunga strada di sabbia” sembra quindi congiungere metaforicamente questi vari territori, dove la terra si fa sottile, polverosa come dopo un terremoto. Allo stesso modo, una piccola città dello Yemen potrà essere descritta come una «Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e la Giudecca», e i napoletani come membri di una tribù ribelle che preferisce estinguersi piuttosto che lasciarsi contaminare dalla modernità:

Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù[25], che anziché vivere nel deserto o nella savana come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso […] di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quello che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità. […] È un rifiuto sorto dal cuore della collettività […] una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto[26].

Un altro dei numerosissimi esempi, questa volta iconografico, si trova all’interno del piccolo album Iconografia ingiallita (per un “Poema fotografico”)[27] in cui una fotografia della piazza della chiesa di Casarsa viene posta accanto a una fotografia di un gruppo di bambini africani. La Chiesa è chiusa, la piazza deserta, senza un’anima viva, segni evidenti della fine di un’epoca. Interessante invece il titolo che Pasolini ha dato alla seconda immagine: “paesaggio africano”. Eppure, ad essere in primo piano sono i corpi minuti di bambini scalzi, in semicerchio, con i visi chiusi e magliette troppo grandi, sporche e stracciate. Il paesaggio è il loro corpo, il loro sguardo assente.

Pasolini spiega spesso in termini di attrazione fisica il modo in cui si confronta con certi luoghi. E questa forma di attrazione ha dato origine a numerosi parallelismi tra spazi (che siano naturali o architettonici) e corpi. Scrive nell’Odore dell’India: «Non nascondo la mia attrazione per queste città morte e intatte, cioè per le architetture pure. Spesso le sogno. E provo verso di esse un trasporto quasi sessuale»[28]. Nel documentario Le mura di Sana’a, girato nel 1970, ribadisce lo stesso concetto di passione irrazionale che lo lega a certe forme di città, vivendo come un dramma personale la distruzione del mondo antico «ossia del mondo reale, in atto dappertutto»[29]:

Di che passione si tratta? Mah… Di un desiderio diventato addirittura quasi patologico, tante sono state le delusioni che mi hanno esacerbato in questo periodo. Il desiderio di conservare certe forme della vita del passato. E non è tanto che io mi riferisco ai monumenti, alle moschee, grandi palazzi, le porte, no quello che mi stava più a cuore, in questi viaggi era proprio il tipo di città, la configurazione urbanistica, le strade, i cancelletti, i Muccioli, e piccole casette sorte a difesa dei campicelli di viti, abitate normalmente dalla povera gente… Ecco questo mi interessava. E tutto ciò, in un disegno che va scomparendo dalla faccia della terra, che in Italia è scomparso quasi completamente eccettuato in certi paeselli sui picchi degli Appennini o sui monti (…) Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare [30].

I numerosi attraversamenti, travasi, le corrispondenze tra culture, spazi e corpi, se da una parte permettono a Pasolini di proporre una forma di lettura trasversale, transtemporale, transculturale delle problematiche italiane, di interrogarsi sulla questione dell’identità (e di conseguenza dell’esclusione e del razzismo), evidenziano anche i limiti della nozione stessa di transculturalità. Infatti, Pasolini si focalizza maggiormente sul fenomeno di “deculturazione” (distacco, perdita parziale o totale della propria cultura originale) senza vedere la possibilità di una “neoculturazione” positiva (creazione di nuovi fenomeni culturali). La transculturalità dovrebbe, infatti, sboccare su una sintesi creativa, sull’acquisizione di una cultura diversa e nuova, sulla creazione di nuove identità culturali ‒ è su questo punto che si distingue dall’interculturalità e dalla multiculturalità ‒, ma la nuova identità culturale che si afferma in Italia negli anni ’60 è soltanto quella dell’omologazione: «Per molti secoli, in Italia, queste culture sono state distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi ‒ quasi di colpo, in una specie di Avvento ‒ distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere»[31]. La nuova cultura viene quindi intesa essenzialmente in termini di perdita, perdita di identità culturali, perdita di linguaggi (l’omologazione è anche ‘discorso unico’, dal greco ὁμο– ‘omo-’ e λόγος ‘discorso’), perdita di senso. La prospettiva di una sintesi creativa è comunque presente nell’opera di Pasolini, soprattutto nel suo cinema (pensiamo all’uso di maschere, trucchi, tessuti, gioielli, appartenenti a culture ed epoche diverse, stratificazioni anacronistiche, accostamenti incongrui su personaggi cross-border in Medea, Porcile, Edipo Re per esempio), ma il risultato è straniante. Gli attori sembrano indossare tracce di culture che non capiscono, non sanno interpretare, ed è come se la presenza di questi simboli culturali rafforzasse l’inafferrabile alterità del corpo, e più generalmente della diversità.

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Per lottare contro questo fenomeno di deculturazione, Pasolini propone, con il suo Teatro di Parola, di rimettere al centro del dibattito la nozione stessa di cultura. Prima di tutto definendo il suo teatro, nel Manifesto per un nuovo teatro (1968), come un rito culturale che nasce e opera totalmente nell’ambito della cultura, sottolineando così l’impossibilità di assimilare il linguaggio teatrale a un medium di massa. Scegliendo poi un pubblico colto (i gruppi culturali avanzati della borghesia) e stabilendo un’«assoluta parità culturale» tra autore, attori, spettatori. Il campo d’intervento diventa quindi molto limitato, riducendo al minimo il concetto di transculturalità, perché si tratta di dialogare (senza nessun interesse mondano o spettacolare) con persone dello stesso livello culturale in un linguaggio che solo loro possono capire (esclusivamente poetico, evitando l’italiano standard, che, secondo Pasolini, in realtà nessuno parla). «Il mio modo di far teatro è una protesta democratica contro l’antidemocraticità della cultura di massa»[32]. Lo spazio della rappresentazione è anch’esso ridotto al minimo (come la “stanza scatola” di Orgia) così come l’identità dei personaggi che sono soltanto idee, poiché il Teatro di Parola ricerca il proprio spazio teatrale non nell’ambiente ma nella testa.

Ciononostante, ritroviamo una lettura transtemporale della realtà che permette di leggere il presente alla luce del passato, convocando i soliti miti dell’infanzia, della vita contadina, dei riti ancestrali. In effetti, scegliendo quasi esclusivamente lo spazio metaforico del sogno e del ricordo, Pasolini usa il teatro come momento di massima espressione della reminiscenza e dell’inconscio: desideri espressi e repressi, violenza fisica e psicologica, perversioni di ogni tipo si mescolano a visioni d’infanzia, tempi lontani, grandi prati e suoni di campane, voci senza parole e canti di uccelli. Ma queste visioni sembrano imbalsamate nel passato, chiuse nello spazio del linguaggio poetico, senza nessuna possibilità di incontro/scontro con il presente. Citiamo ad esempio un dialogo tra i due protagonisti di Orgia: «UOMO: Dove accadeva tutto questo? DONNA: Nel tuo stesso paese./ UOMO: Un paese di piste bianche di polvere? E di quegli alberi che ora non esistono più, i gelsi? E cigli con l’erba lunga, piegata dalla pioggia? Dove i fili di grano erano segmenti regnanti su ore, diciamo, di profughi risaliti su per la Dalmazia o la Catalogna, da due regioni bagnate dal mare?»[33]. Assieme alla polvere, come metafora di spazi e tempi che non esistono più, sono convocati miti e poeti cari (probabile il riferimento alla storia di Tisbe e Piramo attraverso la simbologia del gelso, come probabile l’allusione al Gelsomino notturno[34] di Pascoli, soprattutto nella nozione di “nuova felicità” che ritorna spesso in Orgia) e fatti storici del dopoguerra (i profughi sono quelli dell’esodo giuliano e degli anti-franchisti). Questi ricordi personali e i drammi storici partecipano alla riaffermazione di una rottura radicale tra passato e presente, che si esprime essenzialmente in termini di un’opposizione ossessiva tra voce e lingua. Infatti tutti i ricordi e i sogni evocati dai protagonisti di Orgia (e delle altre opere teatrali) sono uniti dalla stessa caratteristica, alludono a voci che non parlano:

Che le voci fossero/ modulate come in un rustico Medioevo, passato attraverso i buon senso dell’Ottocento, oppure fossero in lingua (una lingua male adottata), su questo punto non ci sono dubbi: NESSUNO PARLAVA”[35]/ […] erano soltanto voci. Esse, è vero, facevano il mio nome, e indicavano tutte le cose che ci circondavano e ci servivano, in quel mondo: MA NON PARLAVANO[36]/ […] com’era divino quel silenzio pieno di voci/ dove non era necessario conoscere/ dove, dunque, bastava unire la propria voce che non parlava, alle voci di tutti gli altri/ nella luce di una mattina, contro le pareti/ rosse alzate sulla prima rugiada alla luna dal sole[37].

La voce diventa la forma d’espressione comune di tutte le forze del passato, di tutte le culture subalterne e minoritarie, convocate nel teatro e ovunque nella poesia di Pasolini, che permette di accedere a quell’“Inespresso Esistente”[38] che precede ogni conoscenza. Ci sembra interessante, per illustrare la funzione centrale della voce nel Teatro di Parola, tornare a un brano dell’Odore dell’India che, tra l’altro, riassume perfettamente il triplo movimento di cui avevamo parlato nella prima parte della nostra analisi (ricerca di similitudini, rivelazione della diversità come valore assoluto e riconoscimento di modalità d’espressione comune). Pasolini è arrivato da poche ore in India. Delle voci di ragazzi attirano la sua attenzione:

Nella penombra dell’arco, si sente un canto: sono due, tre voci che cantano insieme, forti, continue, infervorate. Il tono, il significato, la semplicità sono quelli di un qualsiasi canto di giovani che si può ascoltare in Italia o in Europa: ma questi sono indiani, la melodia è indiana. Sembra la prima volta che qualcuno canti al mondo. Per me: che sento la vita di un altro continente come un’altra vita, senza relazioni con quella che io conosco, quasi autonoma, con altre leggi interne, vergine. Mi pare che ascoltare quel canto di ragazzi di Bombay, sotto la Porta dell’India, rivesta un significato ineffabile e complice: una rivelazione, una conversione della vita. Non mi resta che lasciarli cantare, cercando di spiarli dall’angolo di finto marmo della grande porta gotica”[39].

Osserviamo subito che la voce è intimamente legata alla diversità e alla dimensione trascendentale dell’esistenza. Infatti, oltre alla ripetizione dell’aggettivo “altro” («altro continente, altra vita, altre leggi interne»), che rappresenta la cultura indiana come totalmente diversa, notiamo la presenza di numerosi termini legati alla dimensione sacra e religiosa di questa stessa diversità. Il sostantivo “rivelazione”, emblematico perché spesso usato da Pasolini stesso per definire il modo in cui si pone nei confronti della realtà (pensiamo, ad esempio, all’uso che farà della panoramica nel proprio cinema[40]) va, in questo senso, interpretato come «fatto e atto per cui la divinità, direttamente o indirettamente, rivela sé stessa […] o verità non conoscibili all’uomo (di ordine soprannaturale) o conoscibili ma contenute nella rivelazione per renderle più certe»[41]. Un altro concetto interessante in questo brano, e che si ritrova in tutte le opere teatrali di Pasolini, è contenuto nell’aggettivo “ineffabile”, che si riferisce a ciò che non si può esprimere o manifestare con parole, e quindi all’impossibilità di trovare un linguaggio adatto per dire la realtà. Infine, con il termine “conversione”, anch’esso collegato al campo religioso, Pasolini allude a un mutamento radicale (di fede, opinione o ideologia), in questo caso, della vita stessa che si converte, passando (e questo ci riporta al concetto di attraversamento), in un’altra cultura. È, quindi, il canto che permette di accedere alla dimensione trascendentale dell’esistenza, in quanto espressività primitiva, sopravvivenza folcloristica, “medium” che nega, per essenza, ogni forma di omologazione, pragmaticità, funzionalità, modernità. Il canto si ricollega inoltre all’origine stessa della poesia, essendone anche sinonimo. Così, quel canto indiano ineffabile ha esattamente lo stesso effetto su Pasolini della parola dialettale “rosada”, che lo spinse a comporre le sue prime poesie in dialetto friulano:

la parola rosada che Livio aveva pronunciato parlando con un suo compagno […] risuonò in me come una parola d’una bellezza purissima, senza cromatismi, senza vivacità. Era divenuta, per un processo fulmineo di fossilizzazione, antichissima: mi aveva congiunto, in un tempo fittizio, poetico, assolutamente e gratuitamente antistorico, con le Origini: cristiane e italiane[42].

Il suono puro del canto o del dialetto provoca quest’attraversamento di epoche e culture, non permette di conoscere l’alterità, ma di tessere un filo conduttore tra passato e presente, e in qualche modo di procedere a una forma di ri-culturazione del presente, individuando nelle tradizioni, nei riti, nei dialetti, nei corpi una forza trascendente, che pone al centro di ogni discorso il tema della diversità.

Se Pasolini non può capire quel canto indiano né il significato della parola “rosada”, sa coglierne l’intenzione, la forza espressiva, creando, così, sottili intese affettive («significato ineffabile e complice») tra la sua poetica e le forme di espressioni orali più antiche. In questo senso, diventa emblematica la posizione che assume mentre ascolta quel canto: «non mi resta che lasciarli cantare, cercando di spiarli dall’angolo di finto marmo della grande porta gotica». In disparte, passivo e quasi impotente assiste alla rivelazione, rimanendo in qualche modo escluso. Dal punto di vista ideologico, questa posizione illustra quanto sia problematico il rapporto fra intellettuale e popolo, inscenando una forma di divisione o sconfitta, ma suggerendo soprattutto la necessità di rispettare “l’altro” senza cercare di conoscerlo o di “possederlo”. Pasolini torna su questo tema in Affabulazione, nell’episodio in cui l’Ombra di Sofocle spiega al padre che deve considerare suo figlio non come un enigma da decifrare ma come un mistero: «Tuo figlio è […] in un palcoscenico vivente,/ che ha per fondali paesaggi veri dell’alta Lombardia,/ e le mura della tua bella villa di campagna./ Egli si rappresenta a te./ Ma tu, anziché contemplarlo, lo insegui per prenderlo./ Ah, vecchia, maledetta abitudine al possesso!»[43]. Quindi, la diversità dovrebbe sempre rimanere un mistero e non un enigma da risolvere con la ragione, la cultura o la scienza. Solo in questo modo può essere preservata dall’omologazione. Anche in Pilade ritroviamo la stessa problematica quando il coro s’interroga sull’identità di Pilade:

CORO: Ma chi era Pilade? […]

VECCHIO: Oh uno Diverso, certo. Ma la sua Diversità, per noi, era come noi avevamo stabilito in cuore/ che la Diversità doveva essere. Ossia:/ noi vedevamo in lui uno di noi/ ‒ nient’altro che uno di noi ‒/ dotato di una misteriosa grazia. […]/ pensiamo che sia semplicemente, la sua natura,/ nata con lui, senza che gli costi nulla/ ‒ come nulla costa a noi la nostra. […]

CORO: Ma che cosa c’è invece in lui, ora, al posto/ di quella grazia che gli attribuivamo?

VECCHIO: La Diversità, appunto. Ma la vera Diversità/ quella che noi non comprendiamo,/ come una natura non comprende un’altra natura./ Una diversità che dà scandalo[44].

Ricorrendo di nuovo alla dimensione transtemporale della transculturarità, poiché questa pièce riprende personaggi della mitologia greca, Pasolini affronta un tema di estrema attualità: come lasciare che si esprima la diversità senza che sia repressa, normalizzata o tollerata? Oggi possiamo notare un vero e proprio recupero da parte dei media, della pubblicità, della politica di tale questione, che viene integrata ovunque come valore aggiunto, di cui è cancellata la dimensione scandalosa, che viene inserita nella norma, divenendo così un prodotto commerciale. Ma, se da una parte le differenze vengono accettate e valorizzate, dall’altra assistiamo a una nuova forma di mutazione antropologica, che non si limita a mode vestimentarie o a tagli di capelli, come nel caso dei ragazzi degli anni ’60 di cui parla Pasolini, ma arriva a una vera e propria trasformazione e “modellizzazione” dei volti e dei corpi grazie alla democratizzazione e alla banalizzazione della chirurgia estetica.

Com’è possibile, quindi, far esistere la diversità al di fuori della norma? È la domanda che fa da filo conduttore a Orgia, il cui protagonista, non sapendo come risolvere questo dilemma, ricorre al suicidio come ultimo scandalo. «Il suo suicidio ‒ scrive Pasolini ‒ è un po’ come quello dei bonzi, una protesta esistenziale: non ha altro da offrire che il proprio corpo, e lo getta in pasto agli altri, reso espressionisticamente ridicolo dal trucco e dai vestiti che indossa, come protesta esistenziale contro la normalità»[45]. Per Pasolini, la morte non è solo il termine ultimo della materia nella sua forma umana o animale, ma un «atto necessario all’espiazione del male, al rinnovamento della vita, si contrappone allo spettro della morte collettiva avvertita come fine davvero definitiva, estinzione della comunità contadina e assieme ad essa della memoria»[46].

La diversità sessuale esposta in Orgia è trasversale perché diventa l’emblema di tutte le diversità: etniche, religiose, culturali, fisiche («Negro, Ebreo, Mostro»[47]), «di coloro che la società esclude e mette nel ghetto»[48], ed è proprio l’immagine dei campi di concentramento che si trova nell’apertura del testo. Infatti, alla fine del prologo, il protagonista, dopo essersi presentato in una condizione postuma, fa un invito agli spettatori, sotto forma di ipotesi, che ricollega il suo destino a quello delle vittime della Shoah: se la sua vita fosse uno spettacolo, li inviterebbe a predisporsi alla rappresentazione adottando lo sguardo dei primi soldati che scoprirono i campi di concentramento («vi prego, siate come quei soldati, / i più giovani di quei soldati,/ che sono entrati per primi/ oltre i reticolati di un lager […]»). Uno strano invito, che si conclude con un’esortazione paradossale: «ed ora divertitevi». Divertitevi, quindi, davanti allo spettacolo di questo ridicolo corpo impiccato, godete e tremate davanti all’orrore, al sacrificio del diverso: «Ma la pace lascia sanguinanti tracce come la guerra./ Un’altra mostruosità/ inscena i suoi spettacoli/ al posto delle stragi»[49].

Con la condizione postuma del protagonista, che osserva il proprio cadavere impiccato, si manifesta un’altra specificità del teatro di Pasolini, ovvero il fatto di problematizzare il concetto di cultura all’interno degli stessi personaggi. Sono infatti quasi tutti personaggi ambivalenti, dall’identità confusa, “bi-polari”, vittime e carnefici, scissi e divisi, come l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, «sono dei piccoli borghesi piuttosto ignoranti, privi di un’ideologia contestatrice e rivoluzionaria […] ma costantemente illuminati dalla coscienza di ciò che essi stessi sono […]. Sono contemporaneamente piccoli borghesi incoscienti e anime coscienti poeticamente»[50].

Il tema dello sdoppiamento, dello straniamento, posto in modo eclatante e paradigmatico nel prologo di Orgia e presente nei vari giochi di specchi, inversione dei ruoli, confusione di generi e di sessi, non è soltanto l’espressione della dualità intrinseca all’essere umano o l’espressione di una profonda crisi biologica ed esistenziale, ma anche una forma di auto-trascendenza da intendere come risposta al sentimento di mancanza di senso, come una proiezione dell’esistenza umana al di là di sé.

Trascendenti sono infatti i personaggi pasoliniani, perché, da un lato, non sanno frenarsi, vanno oltre tutti i limiti (nel significato originario latino, trascendente è ‘colui che sale al di là’, che ‘passa il limite’); dall’altro, perché accedono a una forma di consapevolezza, di ascesa spirituale grazie all’esperienza del dolore o della morte. Ancorati alla loro “bassezza”, il loro spirito è comunque capace di elevarsi a un’“altezza” poetica. In questo senso, ci sembra interessante accostare il concetto di auto-trascendenza teorizzato dallo psichiatra e neurologo Viktor Emil Frankl (1905-1997)[51] a quello di “transumanizzazione” che sembra manifestarsi nei personaggi pasoliniani. Ed è proprio l’immagine dei campi di concentramento (che si ritrova anche in Porcile e Bestia da stile) che ci permette di avvicinare queste due figure. Frankl venne deportato, si ammalò di tifo, perse tutti i membri della famiglia, ma fu proprio durante quella terribile esperienza che nacque la sua intuizione ritenuta più significativa: l’importanza della ricerca di senso nel proprio vissuto, che definisce “autotrascendenza”. Frankl ritiene di poter cogliere l’uomo nella sua essenza nel momento in cui è «consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza»[52]:

Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può ‘avere’, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è[53].

L’unica possibilità di salvezza risiede nell’essere consapevoli che anche la sofferenza e la morte fanno parte dell’esistenza, per cui non sono prive di significato. «Ciò che Frankl mette a fuoco nel suo scritto è l’incredibile “forza di resistenza dello spirito” (una sorta di resilienza ante litteram) che, proprio nei momenti più difficili, permette alle persone di opporsi al proprio destino e – pur non potendolo mutare esteriormente – le rende capaci di dominarlo dall’interno»[54]. Anche se i testi di Frankl sono un inno alla vita, possiamo comunque interpretare in questa direzione il suicidio dei protagonisti di Orgia. Se la donna si suicida per puro dolore, «per anomia, per essere andata al di là dei limiti consentiti dalle leggi»[55], l’uomo lo fa per protesta, per fare «buon uso della morte». Quest’esperienza culmine gli permette di convertire una fatalità biologica in una scelta personale, di osservare, dalla sua posizione postuma, cosa provoca lo scandalo della diversità in una prospettiva più ampia ed elevata e di denunciare in modo radicale e definitivo le tendenze disumanizzanti del Nuovo Potere.

Riferimenti bibliografici a opere di Pasolini:

  • Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, a cura di Gian Carlo Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1996;
  • Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 1946-1961, vol. I, Milano, Mondadori, 1998;
  • Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 1946-1961, vol. II, Milano, Mondadori, 1998;
  • Saggi sulla Letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol. II, Milano, Mondadori, 1999;
  • Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999;
  • Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, vol. II, Milano, Mondadori, 2001;
  • Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2001;
  • Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, vol. I, Milano, Mondadori, 2003.

Riferimenti bibliografici a opere su Pasolini:

  • A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979;
  • N. García Canclini, Culturas híbridas. Estrategias para entrar y salir de la modernidad, México, Grijalbi, 1990;
  • M. Foucault, Des espaces autres [1967], in Id., Dits et écrits, tome IV, Paris, «Quarto» Gallimard, 2001; trad. it. e cura di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2004;
  • V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, Milano, Edizioni Ares, 2007;
  • Id., Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, Milano, Franco Angeli, 2012;
  • Id., Homo patiens. Soffrire con dignità, a cura di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 2007;
  • A. Ghirelli, La napoletanità, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1976;
  • E. Glissant, Introduction à une poétique du Divers, Paris, Gallimard, 1996;
  • S. Gruzinski, Les quatre parties du monde, Paris, La Martinière, 2004;
  • P. Kammerer, Pier Paolo Pasolini. Reisen in 1001 Nacht, Hamburg, Corso, 2011;
  • Id., Pier Paolo Pasolini. Afrika, letzte Hoffnung, Hamburg, Corso, 2012;
  • Id., Pasolini e l’Africa degli anni ’60, in «Altronovecento», n. 15, marzo 2014, trad. it. di M. Tombolato;
  • E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, Firenze, Le Lettere, Quaderni Aldo Palazzeschi, 1997;
  • F. Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco y el azúcar, La Habana, J. Montero, 1940;
  • Id., Cuban Counterpoint. Tobacco and Sugar, trad. dallo spagnolo di H. De Onis, Durham-Londin, Duke University Press, 1995;
  • Id., Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero, presentazione di C. Vangelista, introduzione di B. Malinowski, traduzione di A. Olivieri, Troina, Città aperta, 2007;
  • G. Pascoli, Antologia lirica, a cura di A. Vicinelli, Milano, Mondadori, 1963;
  • D. Reichardt e N. Moll, Italia transculturale. Il sincretismo italofono come modello eterotopico, Firenze, Franco Cesati Editore, 2018;
  • G. Trento, Pasolini e l’Africa. L’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazioni dell’Africa postcoloniale, Milano-Udine, Mimesis, 2010;
  • W. Welsch, Transculturality: The Puzzling Form of Cultures Today, in Spaces of Culture: City, Nation, World, a cura di M. Featherstone e S. Lash, London, Sage, 1999.
  1. Per una definizione approfondita del termine, rimandiamo alla voce Transculturalismo scritta da Dagmar Reichardt e Igiaba Scego in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti – Decima Appendice, vol. 2 (L-Z), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2020, pp. 649-52.
  2. Cfr. F. Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco y el azúcar, La Habana, J. Montero, 1940; trad. it. Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero, presentazione di C. Vangelista, introduzione di B. Malinowski, traduzione di A. Olivieri, Troina, Città aperta, 2007.
  3. Cfr. W. Welsch, Transculturality: The Puzzling Form of Cultures Today, in Spaces of Culture: City, Nation, World, London, ed. by M. Featherstone and S. Lash, London, Sage, 1999.
  4. Cfr. G. Trento, Pasolini e l’Africa. L’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazioni dell’Africa postcoloniale, Milano-Udine, Mimesis, 2010.
  5. Cfr. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, in Id., Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, cronologia a cura di N. Naldini, vol. I, 1946-1961, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1998, cit. a p. 1205.
  6. Ivi, p. 1217.
  7. P. P. Pasolini, I tuguri, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, 1946-1961, op. cit., cit. a p. 1464.
  8. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1217.
  9. P. P. Pasolini, I tuguri, op. cit., p. 1466.
  10. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1206.
  11. P. P. Pasolini, I tuguri, op. cit., p. 1466.
  12. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1203.
  13. Ivi, p. 1199.
  14. Ibidem.
  15. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1217.
  16. M. Foucault, Des espaces autres [1967, ma pubblicato per la prima volta nel 1984], in Id., Dits et écrits, tome IV, Paris, «Quarto» Gallimard, 2001. Per la traduzione italiana cfr.: M. Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2004, pp. 15-16.
  17. Definizione tratta dall’Enciclopedia Treccani cit., ad vocem.
  18. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1202.
  19. P. P. Pasolini, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, a cura di G. C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 147.
  20. Pasolini si riferisce alla conferenza di Bandung, che contribuì ad accelerare il processo di decolonizzazione, all’emergere di un nuovo gruppo di paesi, quel “Terzo Mondo” non compreso né nel blocco comunista né in quello occidentale. 
  21. P. P. Pasolini, La Resistenza negra, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1999, cit. alle pp. 2353-54.
  22. P. Kammerer, Pasolini e l’Africa degli anni ’60, in «Altronovecento», n. 15, marzo 2014, traduzione di M. Tombolato. Articolo consultabile anche sul sito www.fondazionemicheletti.it. Kammerer ha curato due volumi sui rapporti tra Pasolini e l’Africa: Pier Paolo Pasolini. Reisen in 1001 Nacht, Hamburg, Corso, 2011 e Pier Paolo Pasolini. Afrika, letzte Hoffnung, Hamburg, Corso, 2012.
  23. P. P. Pasolini, La Guinea, in Id., Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, con uno scritto di W. Siti, saggio introduttivo di F. Bandini, cronologia a cura di N. Naldini, vol. I, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2003, cit. a p. 1092.
  24. Ivi, p. 1086.
  25. Interessante tornare alla definizione del termine: «in senso moderno, gruppo etnico di dimensioni varie, i membri del quale parlano uno stesso linguaggio, hanno consapevolezza di costituire un organismo sociale ben determinato e politicamente coerente, e come tale riconosciuto dai gruppi vicini; la sua coesione ha quasi sempre carattere territoriale oltre che linguistico e sociale, in quanto il gruppo occupa permanentemente (se sedentario) o percorre periodicamente (se nomade) una regione geograficamente determinata, sulla quale afferma diritti tradizionali, riconosciuti dai gruppi etnici limitrofi; e ha molto spesso anche carattere genealogico, in quanto afferma la propria discendenza da un remoto capostipite comune, per lo più mitico. Di conseguenza, nell’uso antropologico il concetto di tribù non ha una connotazione precisa; normalmente lo si fa coincidere con la struttura della parentela o sue unità, quali la grande famiglia, la stirpe o il clan, il lignaggio, i segmenti o le sezioni, le fratrie o le classi matrimoniali; nell’etnologia evoluzionistica la tribù indicava uno stadio inferiore di organizzazione sociale e da tale uso deriva il senso spregiativo con cui la parola viene talora usata come di un tipo di organizzazione rozza e primitiva» (Enciclopedia Treccani cit., ad vocem).
  26. Dichiarazione rilasciata ad Antonio Ghirelli nel 1971, in seguito pubblicata in A. Ghirelli, La napoletanità, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1976, pp. 15-16. Ora in P. P. Pasolini, La napoletanità, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1999, cit. a p. 230.
  27. Cfr. P. P. Pasolini, Iconografia ingiallita (per un “Poema fotografico”), in Id., La Divina Mimesis, in Id., Romanzi e racconti, vol. II, 1962-1975, op. cit., cit. alle pp. 1144-45.
  28. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, op. cit., p. 1276.
  29. P. P. Pasolini, Pasolini racconta con rabbia l’assurda rovina di una città, in «Corriere della Sera», 29 giugno 1974, ora in P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, vol. II, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2001, cit. a p. 2108.
  30. Ivi, p. 3171.
  31. Testo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 24 giugno 1974, ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit.
  32. P. P. Pasolini, Appendice a Id., Orgia, in Id., Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due interviste a L. Ronconi e S. Nordey, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2001, cit. a p. 333.
  33. P. P. Pasolini, Orgia, op. cit., p. 252.
  34. Ovviamente nei Canti di Castelvecchio [1903], Milano, Rizzoli, 1983, p. 80: «È l’alba: si chiudono i petali/ un poco gualciti; si cova,/ dentro l’urna molle e segreta,/ non so che felicità nuova».
  35. P. P. Pasolini, Orgia, in Id., Teatro, op. cit., p. 253.
  36. Ivi, p. 254.
  37. Ivi, pp. 254-55.
  38. Cfr. P. P. Pasolini, Progetto di opere future, in Id., Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, vol. I cit., p. 1248.
  39. P. P. Pasolini, L’odore dell’India, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, 1946-1961, op. cit., p. 1201.
  40. «La panoramica ha un effetto di sacralità per il suo lento e progressivo moto di “rivelazione”. La panoramica, come si sa, è uno spostamento orizzontale della macchina da presa che, partendo da un’inquadratura iniziale, si ferma ad un’inquadratura finale dopo aver “esplorato” (come un occhio che si guarda in giro) un settore visivo. […] Quindi la panoramica acquista una comunione col mondo; nel fare ciò compie una rivelazione (la realtà che si dispiega davanti all’obiettivo della macchina da presa); ed infine nel rivelarsi mantiene il suo mistero (ad ogni frazione di realtà rivelata corrisponde un’altra frazione di realtà nuovamente esclusa dalla visione, quindi alla comprensione»: A. BERTINI, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 19-20.
  41. Definizione tratta dall’Enciclopedia Treccani, ad vocem.
  42. P. P. Pasolini, Razò, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, 1946-1961, op. cit., p. 1436.
  43. P. P. Pasolini, Affabulazione, in Id., Teatro, op. cit., cit. alle pp. 520-21.
  44. P. P. Pasolini, Pilade, in Id., Teatro, op. cit., cit. alle pp. 383-84.
  45. P. P. Pasolini, Appendice a Id., Orgia, op. cit., p. 327.
  46. E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, Firenze, Le lettere, Quaderni Aldo Palazzeschi, 1997, p. 98.
  47. P. P. Pasolini, Orgia, op. cit., p. 248.
  48. P. P. Pasolini, Appendice a Id., Orgia, op. cit., p. 341.
  49. P. P. Pasolini, Orgia, op. cit., p. 246.
  50. P. P. Pasolini, Appendice a Id., Orgia, op. cit., p. 328.
  51. V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, Milano, Edizioni Ares, 2007. L’esperienza vissuta da Frankl nei campi di concentramento è di fondamentale importanza per lo sviluppo del metodo della logoterapia, che ha introdotto per designare un’“analisi esistenziale” al confine tra psicologia e filosofia. La logoterapia intende guarire da un disturbo psichico che si esprime attraverso la “nevrosi noogena”, cioè attraverso un’alterazione dell’equilibrio che dipende dalla percezione significativa del sé, e precisamente dalla perdita del senso della vita.
  52. V. E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 13.
  53. V. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, a cura di E. Fizzotti, Brescia, Queriniana, 2007, citato in Id., L’uomo in cerca di senso, Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, presentazione di D. Bruzzone, Milano, Ed. Franco Angeli, 2017, p. 11.
  54. Ivi, p. 10.
  55. P. P. Pasolini, Appendice a Id., Orgia, op. cit., p. 327.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)