Il teatro in Pasolini: la soglia della contraddizione

Author di Mark Epstein

Il teatro di Pasolini viene identificato da molta critica soprattutto con la sua produzione più tarda, con i pezzi cui in genere ci si riferisce con il termine di tragedie “borghesi”[1]. In realtà, la produzione teatrale dell’autore inizia già in età giovanile, e non cesserà sino alla morte, nonostante esibisca intensità piuttosto variabili. Non solo il teatro, ma anche i suoi espedienti sono componenti importanti sia della produzione artistica sia della prassi pedagogica del Pasolini giovane (si potrebbe parlare di prassi “teatrale”), durante il suo periodo friulano[2]. E Pasolini si occuperà di teatro in modalità diverse lungo tutto l’arco della sua produzione artistica. Stefano Casi ha scritto il volume sinora più documentato e incisivo sulla successione dei vari “teatri” del poeta, dove analizza i collegamenti tra i vari periodi[3].

L’intenzione di questo saggio sarebbe, invece, quella di esplorare le diverse funzioni che Pasolini intende assegnare al teatro, anche se in certi casi si tratta più di intenzioni, aspirazioni e fini progettuali che di realizzazioni pienamente compiute.

Da un lato, il teatro è collegato a forme di interazione con l’altro che saranno, a mio parere, fondamentali durante tutto l’arco della vita e dell’opera dell’autore. Tra questi includo: il rapporto dialogico-maieutico con l’altro, che sia in contesti esplicitamente pedagogici, in contesti di produzione artistica e rapporto con lettori, spettatori, ascoltatori, o in contesti pubblici (istituzionali, politici, mediatici ecc.); il focalizzare l’attenzione dell’altro sul mondo sociale e culturale come prodotto di fenomeni di genesi storica; l’opposizione sempre più pronunciata (soprattutto, in modo crescente, nell’ultimo decennio di attività) a forme artistiche chiuse (siano esse poetiche, letterarie, cinematografiche, teatrali ecc.), non tanto per ragioni formalistiche o avanguardistiche, ma piuttosto perché, come nell’istanza del momento della “sintesi” nel processo dialettico, è spesso occasione di illusioni, che un artista sia giunto a qualcosa di definitivo, di non superabile, dogmatico, eterno. Di conseguenza, questa chiusura può essere intesa come forma, non sempre cosciente, di imposizione all’altro, sull’altro, e di cristallizzazione di ogni futuro rapporto. In altre parole, è il processo di “negoziazione” della norma con lettori e spettatori, piuttosto che la loro accettazione passiva (consumo irriflesso di norme formali acquisite, dominanti e non contestate) o il loro rigetto ma spesso in modo semplicisticamente negativo (di rigetto, non-identificazione, e via dicendo, per alcuni lati rappresentato dall’effetto di straniamento di Brecht), che costituisce un’occasione reale di partecipazione, riflessione e crescita.

Dall’altro lato, ritroviamo esplorazioni specifiche del mezzo teatrale in rapporto alle proprietà materiali degli altri media che Pasolini esplora dopo quelli letterari: cinema innanzitutto, ma in parte, ad intermittenza, anche la pittura. Nel Manifesto per un nuovo teatro, al punto 37, iniziando la rassegna/discussione dei vari “riti” collegati al teatro, Pasolini specificamente scrive che i segni del teatro, come nel caso del cinema, sono gli stessi segni della realtà (e, infatti, questo paragrafo come ottica semiologica, rete concettuale e vocabolario potrebbe benissimo far parte dei saggi contenuti in Empirismo eretico). A differenza del cinema, però, il teatro ha appunto una fondamentale componente rituale, relata all’idea di codici e di norme della vita e realtà sociali. Pasolini, di conseguenza, afferma che «Il rito archetipo del teatro è dunque un RITO NATURALE»[4].

Queste esplorazioni sono anche collegate con le sue riflessioni sulla lingua, come è chiaro da vari suoi interventi, ma soprattutto dal Manifesto per un nuovo teatro. Ed è appunto nel contesto della questione del rapporto tra presenza fisica e gestuale e presenza linguistica che il “teatro di parola” di Pasolini si presenta come alternativa alle dicotomie teatrali dominanti, che lui passa in rassegna: la principale essendo tra teatro della chiacchiera (borghese, tradizionale, conservatore) e teatro del gesto o dell’urlo (antiborghese, avanguardista). Dove nel primo il linguaggio è presente ma quasi solo in maniera conformista, nel secondo (che è per molti versi speculare al primo) il linguaggio tende ad essere ridotto al minimo o eliminato (l’“urlo”, appunto). Invece, il “teatro di parola” vuole coscientemente ridurre al minimo tutto l’apparato materiale scenico, ed esaltare il lato della lingua, della parola appunto, nei confronti della quale la presenza fisico-corporea degli attori funge soprattutto da interprete-supporto. Non è certo un caso che una parte centrale e consistente del Manifesto sia dedicata a riflessioni linguistiche, sulla presenza di una norma condivisa per l’italiano scritto, ma non per l’orale, e dei paradossi e fortissimi problemi che ciò comporta per gli attori e la credibilità della loro dizione: i punti da 21 a 35 si può ben affermare che siano tutti dedicati a riflessioni su questi argomenti, in rapporto alle varie forme di teatro e ai loro rispettivi pubblici.

Questa attenzione al linguaggio, in realtà, oltre a proporre delle minime basi e considerazioni materiali e linguistiche necessarie alla fruibilità e plausibilità delle interazioni “teatrali”, è preliminare alla proposta centrale di Pasolini per questo nuovo teatro (il cui destinatario/pubblico dovrebbe essere costituito da gruppi della borghesia avanzata, è lecito ipotizzare prevalentemente intellettuali), e cioè che sia luogo di presa di coscienza, dialogo e dibattito, reso possibile anche in base a e grazie a una “sospensione della norma”, per cui, sebbene essendo teatro, il nuovo teatro di Pasolini (che Pasolini propone debba costituire un “RITO CULTURALE”) cercherà di muoversi dalla compartecipazione rituale al dialogo/dibattito critici:

Negli spettacoli del teatro di Parola, seppure si avranno molte conferme e verifiche (non per nulla autori e destinatari appartengono alla stessa cerchia culturale e ideologica) ci sarà soprattutto uno scambio di opinioni e di idee, in un rapporto molto più critico che rituale[5].

Dialogo, quindi, soprattutto come occasione di confronto, dibattito e interazione sui problemi, che porta anche allo spostamento/riduzione di ciò che sarebbe propriamente lo “spazio teatrale”:

Il teatro di Parola ricerca il suo «spazio teatrale» non nell’ambiente ma nella testa.

Tecnicamente tale «spazio teatrale» sarà frontale: testo e attori di fronte al pubblico: l’assoluta parità culturale tra questi due interlocutori, che si guardano negli occhi, è garanzia di reale democraticità anche scenica[6].

Il sottolineare lo spostamento dal rapporto rituale a quello critico fa parte di una costante attenzione, pedagogica ma in senso anche fortemente politico, allo smantellamento del conformismo, della sedimentazione del dato per scontato, ai vari tipi di chiusura formale, dalle forme artistiche alle istituzioni dell’interagire umano, quando sono visti non tanto come passaggi temporanei, quasi pause, in un processo di costruzione e confronto continui, quanto cristallizzazioni nello statico, espresse appunto nel senso più autoritario e repressivo da un sostantivo politico come “stato”. L’inizio del Manifesto è dedicato e si concentra proprio sui fraintendimenti ed errori cui può portare questo tipo di assunto irriflesso e acritico, in questo caso come poteva essere collegato a “nuovo”, tanto più quando canonizzato e incensato dalle varie forme di avanguardismo e modernismo (l’imperativo poundiano “Make it New”, che all’orecchio estremamente attento di Pasolini avrà molto probabilmente avuto echi delle dinamiche consumiste sempre più dominanti):

Il teatro che vi aspettate, anche come totale novità, non potrà mai essere il teatro che vi aspettate. Infatti, se vi aspettate un nuovo teatro, lo aspettate necessariamente nell’ambito delle idee che già avete; inoltre, una cosa che vi aspettate, in qualche modo c’è già. […] Ma le novità, anche totali, come ben sapete, non sono mai ideali, sono sempre concrete. Quindi la loro verità e la loro necessità sono meschine, seccanti e deludenti: o non si riconoscono o si discutono riportandole alle vecchie abitudini.

Oggi, dunque, tutti voi vi aspettate un teatro nuovo, ma tutti ne avete già in testa un’idea, nata in seno al teatro vecchio[7].

In questa apertura Pasolini in qualche modo delinea il rapporto paradossale, ma necessario, che intrattiene con “la tradizione”. Nel Manifesto dice che salterà a piè pari la tradizione borghese del/nel teatro, ma poi in realtà, discutendo della distinzione tra i vari riti nella loro funzionalità ai vari tipi di teatro, elencandoli (prima come fondamento materiale-“naturale” il rito naturale, poi il rito religioso – delle origini –, il rito politico – del teatro greco classico della democrazia ateniese –, il rito sociale – che coincide con il teatro borghese dell’intervallo storico durante il quale questa classe aveva in qualche modo, in senso lukàcsiano, ancora un ruolo storicamente progressivo –, il rito teatrale –che congiunge il teatro della chiacchiera con quello dell’urlo o del gesto, che, sebbene superficialmente antitetici, sono due facce del teatro borghese nella sua fase di declino/degrado, forme diverse di autocompiacimento tautologico – e finalmente il rito culturale del “teatro della parola” proposto dal poeta) esamina i vari periodi del teatro borghese, anche se in modo critico, e non come una continuità lineare. Quindi Pasolini propone un conciso, serrato, ma pregnante percorso genetico-materialista della storia del teatro. Ma lo propone proprio per poter affrontare in maniera ancora più lucida i compiti di un teatro del presente, che affronta questo presente (nonostante le diffuse mis-interpretazioni in senso contrario, a mio avviso ci sono pochi artisti e pensatori meno passatisti, ma anche meno utopici, più disperatamente concentrati sul presente, di Pasolini) con un minimo di illusioni.

Il “salto” che compie lo fa quando dice che manterrà come punto di riferimento il teatro del rito politico greco, per poi passare alla sua proposta. Questo salto è comunque coerente sia rispetto alla proposta del “teatro di parola” (teatro del dialogo, dibattito, problematico, che affronta in maniera democratica i problemi della polis contemporanea), sia rispetto alle opere effettivamente scritte in questo periodo dall’autore, o molto direttamente ed esplicitamente come nel caso di Pilade, o riguardo a quelle che vengono classificate sotto la rubrica di tragedie borghesi, come Orgia, Affabulazione, Porcile, Calderon, e infine Bestia da stile, e anche rispetto ai parecchi film di argomento vicino alla cultura greco-classica come Edipo re, Medea ecc. (che, tra l’altro, indipendentemente dai giudizi sulla loro riuscita in termini estetici e di ricezione, smentiscono l’ipotesi di George Steiner sull’impossibilità della produzione di tragedie nella cultura contemporanea borghese, e, a loro modo, confermano il giudizio di Lukàcs sul contemporaneo borghese come invece, sommamente, tragico). Bisogna ricordare anche che, ricongiungendo la sua proposta contemporanea al teatro politico ateniese, Pasolini compie due operazioni: da un lato si ricollega alle “origini”, soprattutto della cultura occidentale; dall’altro, proponendo specificamente il genere tragedia, radica ancora di più il teatro nelle sue origini, tramite i riti dionisiaci, che si collegano specificamente al rito religioso, e al sacro, movimento/tema che Pasolini sottolineerà con sempre maggiore frequenza nell’ultimo decennio di attività; un sacro materialista, però, che riguarda il rispetto per l’esistenza altra dall’umano, in qualsiasi forma, da contrapporre all’abuso sempre più incontrollato, irriflesso, totalitario, del consumismo neocapitalista a lui contemporaneo.

È un salto che a suo modo interrompe anch’esso la continuità “normalizzante” e lineare di un modo di concepire il teatro del presente, e che quindi contribuisce alla “sospensione della norma” da parte del pubblico potenziale che potrebbe assistere a tali realizzazioni. E questa attenzione per il collegamento alle origini materiali-storiche è non solo una costante del pensiero e della prassi pasoliniane, ma è collegata in maniere importantissime alla sua interrogazione del rapporto tra razionalismo e irrazionalismo in arte, alla specificità dell’apporto individuale di ogni artista all’opera d’arte, che Pasolini disamina discutendo l’apporto specifico di metodologie e vocabolari della Stilkritik[8] come utili strumenti diagnostici, che aprono alla ricchezza delle problematiche, dove le categorizzazioni semplificanti e generiche del realismo socialista (di ascendenza (neo)staliniana), invece, tendono a semplificare, a chiudere, e a omettere/trascurare la componente individuale[9]. E, discutendo di questi argomenti, Pasolini usa appunto l’analogia della trasformazione delle Erinni in Eumenidi.

Questa transizione gioca un ruolo molto importante all’interno di Pilade, tragedia che mette in forse un anestetizzante e conformistico autocompiacimento della “transizione alla democrazia” (Pasolini polemizza indirettamente sia con l’autopercezione di una gran parte delle élites che furono responsabili della transizione dal regime fascista a quello post-resistenziale sia con l’uso piuttosto mitologico “occidentale” delle origini della “democrazia”), esibendola come una transizione tutt’altro che democratica, giusta o compartecipativa. E questo in parte appunto perché queste medesime élites non hanno saputo/voluto considerare l’ineliminabile sfondo materialista, l’origine imprescindibile, delle stesse Erinni. La problematica è collegata in maniera forte alla distinzione che il poeta compie tra un razionalismo formalistico e superficiale (rappresentato in maniera abbastanza esemplare da un certo tipo di razionalismo francese conformista[10], che Pasolini ci mostra con grande ironia nell’episodio, poi escluso dalla versione definitiva di Uccellacci e uccellini, L’aigle) che non riesce ad includere il momento dell’irrazionalità nella propria autopercezione e autocomprensione/autoanalisi, e invece un razionalismo che riesce a includere e a riflettere sulle proprie origini materiali, quindi un razionalismo sì, ma che è tanto più forte proprio perché riesce a basarsi su una filosofia materialistica, naturalmente non di stampo meccanicista.

Questa stessa interrelazione fra trasmissione culturale e rapporto politico, sociale, umano, affettivo e culturale tra generazioni, con le origini della democrazia nella Grecia classica, Pasolini lo ribadisce in un saggio a mio avviso fondamentale, da leggere in collegamento con le Lettere luterane, e cioè Prologo: E. M., dove parla delle tre generazioni (della Resistenza, degli anni ’50 e poi del 1968) come di quelle degli Ateniesi, dei Salamini e dei Lacedemoni[11].

L’altro collegamento molto importante al periodo della Grecia classica è costituito dal fatto che Pasolini ricorda come in parte lo stimolo che gli venne per la redazione di queste tragedie fu dovuto alla lettura dei dialoghi socratici platonici. Come Stefano Casi giustamente sottolinea, Pasolini non intende tanto collegarsi a dialoghi platonici dal forte o esplicito contenuto politico quanto piuttosto a quelli che più evidentemente esibiscono l’interazione dialogico-dialettica come prassi che in sé aiuta lo sviluppo di democrazia, introspezione e autocoscienza, e quindi di coinvolgimento e di compartecipazione[12].

Riprendendo le riflessioni citate sopra riguardo allo “spazio teatrale” e al tipo di semiologia sulla quale il teatro si fonda, vorrei aggiungere un paio di riflessioni scritte relative al rapporto fra teatro e cinema, così come ai tipi di pubblico che in qualche modo presuppongono (nel corso di riflessioni sui concetti di “folla” e “massa”):

Il pubblico del cinema è «massa»; infatti esso è irrappresentabile se non nelle statistiche o nei rendiconti, e obbedisce a regole reattive medie, identificate per astrazione. Al contrario il pubblico del teatro è «folla», perché cade sotto il dominio della percezione dei sensi, obbedisce a regole reattive concrete, direi fisiche. Perciò il cinema può essere medium di massa; il teatro no, mai, anche se si rivolgesse a «folle» enormi[13].

Pasolini poi prosegue nell’elaborazione ulteriore delle caratteristiche che il cinema condivide con il teatro e di quelle che, invece, distinguono i due media artistici:

Cinema e teatro sono degli infiniti piani sequenza, naturalistici, perché della realtà hanno anche la durata. Il naturalismo è vanificato, nel cinema, dal montaggio che fa del tempo ciò che vuole. Nel teatro il naturalismo è vanificato dalla parola, la quale, anch’essa, è fuori dal tempo, in quanto ne è comunque interpretazione.

Se io dovessi decidermi a fare qualcosa per il teatro, come autore o regista punterei tutto sulla parola. Ma con ciò non potrei assolutamente escludere che il gesto e l’azione siano importanti nel teatro come nel cinema: solo che si pongono in una sorta di contraddizione simmetrica: nel cinema è il linguaggio scritto-parlato che è un linguaggio integrante (integra, cioè, il linguaggio puro della presenza fisica e dell’azione), mentre a teatro è il linguaggio puro della presenza fisica e dell’azione che integra il linguaggio scritto-parlato[14].

Ancora più importanti le riflessioni sul rapporto tra linguaggio della poesia e linguaggio del teatro, visto che, intenzionalmente, Pasolini la sua proposta di teatro nuovo la fonda sulla parola e sul dialogo. E, vedendo le opere stesse, si capisce che, spesso, come nel caso del cinema non raramente si trattava di “cinema di poesia”, per quel che riguarda il teatro non raramente si tratta di “teatro di poesia”:

Il linguaggio della poesia è un linguaggio a parte. Sua caratteristica interna e permanente è la diacronicità. Perciò un poeta è sempre ritardato o anticipato rispetto la circostanza storica e in genere il suo tempo. Ma se la diacronicità caratterizza tutto il linguaggio della poesia, costituendo, del linguaggio della poesia, una storia particolare, in ogni letteratura – tale diacronicità è tipica anche di ogni poesia singola. Il tempo della poesia è il remoto, l’imperfetto o il futuro: l’azione epica, l’azione evocata o l’azione predetta. Il passato prossimo è impossibile (così com’è tipico nell’uso odierno dell’italiano): il presente è possibile come drammatizzazione del passato, ossia come presente storico. Anche il presente del diario non è che una finzione: in realtà già l’animo del poeta è rievocante. Si direbbe insomma che la poesia deve reggersi sul mito del tempo: stendere un velo di tempo sulle cose dette, o passato o futuro. In tale diacronicità si può capire la sua tendenziale metastoricità, altrimenti di tipo ambiguamente spiritualistico. Si capisce che la sua irrazionalità (che si concreta nel mito del tempo) è tale solo apparentemente: non è che una rievocazione o una predizione logica ellittica. L’intuizione non è che qualche salto del pensiero logico. Ecco perché ogni atto poetico o genericamente intuitivo è sempre riconducibile a un’ideologia razionale.

La lingua del teatro è invece una lingua per definizione sincronica: le evocazioni e le predizioni sono possibili ma devono essere fatte apposta. Si può avere un teatro (in versi) tutto scritto nel linguaggio della poesia: ma il punto di partenza, esplicito o implicito, rappresentato o alluso, è sempre sostanzialmente sincronico con gli altri linguaggi di un dato momento storico. Ci sono, tuttavia, dei casi in cui non solo il linguaggio della poesia, bensì l’intero sistema dei sublinguaggi, non sia sincronico, in una lingua storica. Per esempio, nell’italiano moderno c’è un sostanziale salto diacronico: quello tra i «segni grafici» e i «segni orali»[15].

Ed è questo aspetto sincronico che si collega anche al ruolo politico del teatro per Pasolini, al suo ruolo dialogico propedeutico a costruzioni e interazioni con fini più istituzionali, anche se non intesi in senso dogmatico. In questi stessi dialoghi con i lettori, ricordando gli orrori del regime dei colonnelli in Grecia, specificamente nel caso di Panagulis, Pasolini ricorda il teatro greco di Euripide[16].

Questi aspetti delle differenze tra poesia e cinema si ripercuotono poi sul modo in cui Pasolini ripensa lo “spazio teatrale” che, appunto nel periodo tra il rito religioso e il rito politico, ha origini e conserva le valenze di uno “spazio sacro”. Nella citazione riportata sopra riguardo allo “spazio teatrale” Pasolini sottolineava come, da un lato, ciò che contava fosse in realtà meno l’ambiente che la testa, quindi un teatro mentale o delle idee, in rapporto diretto col dialogico. Dall’altro, quando parla del “guardarsi negli occhi” tra pubblico e spettatori, Pasolini sembra avvalersi delle caratteristiche materiali di compresenza fisica delle parti, per in qualche modo “sospendere” il muro del sipario, del limite sia materiale che rituale ed intrinseco all’“immaginario” teatrale fra palcoscenico e platea. Si tratta, quindi, di una sospensione fondamentale di una norma del willing suspension of disbelief (e cioè il modo in cui volontariamente sospendiamo aspetti del nostro senso critico, della valutazione del reale, per entrare negli universi immaginari della fiction) dove l’intenzione dialogica soprassiede al rito preesistente.

Queste riflessioni credo siano parte molto importante di un altro pezzo pasoliniano, poco discusso, ma penso fondamentale da questo punto di vista: Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo[17], che si può dire è sia meta-teatrale (con riflessioni su quasi tutti i tipi di problematiche teatrali, meta-teatrali, linguistiche ecc.) che dedicato in parte appunto a meditazioni/variazioni sugli spazi teatrali. Gli spazi contemplati sono sia stratificati nella dimensione verticale (quindi, per esempio, sotto il palcoscenico centrale, dove dovrebbe avere “luogo” il sogno con protagonista Gadda, c’è una camera abitata da una delle famiglie che erano state fonte di irritazione per Gadda nella sua vita reale) che in quelle orizzontali e “diagonali”, secondo una logica approssimativa di centro-periferia (un po’ come i grandi circhi con più piste); bisogna sottolineare che si tratta appunto di un “progetto” pasoliniano, e che la trama e le indicazioni scenografiche sono solo tracciate schematicamente. Lo spettacolo è sia reale che simbolico, sia teatrale che meta-teatrale, quindi già orientato nella direzione della compresenza del livello “artistico” e “meta-artistico”/critico che sarà caratteristico dell’ultimo periodo di attività di Pasolini, che è anche fortemente intermediale (quindi La divina mimesis, Bestia da stile e Petrolio tra le opere più significative ed esemplari). Il progetto è, quindi, pensato come intrico di rapporti contradditori/conflittuali. Al centro, per esempio, quello tra il Gadda reale, biografico, e l’attore che lo rappresenta, tra il Gadda autore e il Gadda attore, tra il Gadda della “biografia normale”, introverso, schivo, e il Gadda che esibisce pubblicamente i suoi sogni, la parte più privata di sé (molto probabilmente qui Pasolini pensava anche già a un collegamento con Calderón, e la sua opera più famosa, La vida es sueño). Ma il progetto contempla anche un pubblico interno allo spettacolo, composto di attori quindi, o la scena della vita “normale” della famiglia tipo che fa imbestialire Gadda, e via dicendo.

Oltre alle tangenti spaziali che si potrebbero immaginare anche come in qualche modo circensi, è di nuovo il dato della sincronicità del teatro che viene sottolineato da Pasolini, e quindi il reticolato di rapporti contradditori rappresentati/esistenti in simultanea. E a contribuire al contemporaneo contradditorio ci sono anche i termini e gli oggetti dell’Italia del 1965 (il pezzo è datato 1965, e siamo quindi nello stesso periodo di Uccellacci e uccellini e di Empirismo eretico): ad esempio, il termine ring usato per il palcoscenico centrale del sogno di Gadda, e il juke-box, oggetto simbolico quant’altri mai, situato al centro dello stesso palcoscenico (e che troviamo per esempio anche nella scena del ballo al bar in Uccellacci e uccellini). Termini, oggetti, forme di cultura e interazione della sempre più egemone società di massa consumistica (entrambi, non casualmente, termini inglesi, già sintomi della soffocante, strisciante, stritolante egemonia dell’impero statunitense).

Lo spazio teatrale dunque (o in questo caso gli spazi teatrali) viene concepito come stratificato, sovrapposizione di realtà e rito, e la linea reale/simbolica tra platea e palcoscenico, che divide normalmente (!) il pubblico dallo spettacolo, diventa la soglia della contraddizione tra pubblico e privato, reale e fittizio, quotidiano e immaginifico, concreto e sognato. In conclusione del progetto, Pasolini torna alle sue riflessioni sulla lingua e l’influenza che esercita sul teatro: l’impossibilità di una “lingua parlata media”. Il Gadda fittizio della pièce anticiperà in sogno i diversi pezzi che sarà a costretto a interpretare (magari anche nudo in alcuni), ma nella parte conclusiva del progetto il poeta pensa anche a un sogno, senza soluzione di continuità, che contiene rappresentazioni di pièces di Shakespeare, d’Annunzio, Pirandello e De Filippo, ognuna rappresentata con una “soluzione linguistica diversa”. Ma Pasolini sottolinea soprattutto l’intrico e l’intreccio con la quotidianità che irrompe (in altre parole lo “spazio” della fiction teatrale verrebbe, nel progetto, costantemente “invaso”, o messo in rapporto simultaneo e diretto con gli spazi del “reale” circostante), e quindi «L’impossibilità che risulterà sarà quella di un teatro normale. Con la conseguente critica esplicita alle strutture della società italiana»[18].

Lo spazio teatrale, quindi, come spazio/soglia della contraddizione, ma anche, e non da ultimo, dell’agone, della lotta: per questo è significativo che Pasolini abbia scelto il termine descrittivo ring, dal pugilato: perché infine sussistono sempre delle questioni fondamentali per Pasolini, e cioè le conseguenze etiche, politiche ed estetiche di questo intreccio di contraddizioni:

Per questo dicevo che poteva finire con l’urlo del juke-box (come possibile pronuncia comune futura), sotto l’epigrafe macchiavelliana «Chi vince, in qualunque modo abbia vinto, non prova mai vergogna» (riportata da Zeffirelli nel programma della sua Giulietta e Romeo)[19].

Da notare l’uso del termine “urlo” per il juke-box, che ci ricollega al teatro avanguardistico “anti-borghese” dell’epoca, influenzato/ispirato soprattutto da correnti come il Living Theatre, di origine statunitense.

L’importanza di questa “riduzione” spaziale diventa esplicita nel film che Pasolini in qualche modo dedica al teatro, teatro modificato in teatro di figura, ed è già resa esplicita come indicazione per la messinscena di Bestia da stile, e cioè in Che cosa sono le nuvole?: «Il palcoscenico dev’essere ridotto alle dimensioni di quello dei teatri dei pupi (due o tre metri per due)»[20]. Come in Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo, abbiamo la rappresentazione e la riflessione critica sul pubblico e i suoi rapporti con la rappresentazione, abbiamo l’idea del rapporto tra sogno e rappresentazione («noi siamo IN UN SOGNO DENTRO UN SOGNO»), quindi anche meta-teatro e/o meta-cinema (come, anche se seguendo percorsi diversi, in Uccellacci e uccellini); e quindi, seguendo le provocazioni/scandalo della “sospensione della norma”, mettendo lettori/spettatori/ascoltatori in una situazione interrogativa rispetto alla rappresentazione e ai suoi rapporti col reale. Come il sogno è il risultato e in qualche modo il distillato di molte esperienze di vita, distillato all’interno del mondo psicologico individuale, e poi diventa una ri-proiezione, modificata dall’immaginazione, di un possibile derivato da quelle esperienze, l’enfasi di Pasolini sull’aspetto della “riduzione spaziale” in qualche modo sottolinea questo passaggio in maniera analogica negli universi delle fiction artistiche. In maniera importante, il riferimento al sogno ci collega alle riflessioni dell’autore sui rapporti tra storia, conformismo e “pretesti” per la vita, e quindi anche ai rapporti tra (sospensione) della norma ed elaborazione dei “possibili”, dei rapporti tra realtà e possibilità, e incapacità sia nell’analisi della realtà che nell’elaborazione delle possibilità:

Io potrei dire che la Storia ha avuto inizio nel momento in cui l’uomo ha smesso di vivere soltanto ed è cominciato a vivere attraverso dei pretesti. Ciò era inevitabile, nel distinguersi dallo stato animale ecc.: ma nel momento in cui il vivere ha cominciato a investirsi o tradursi totalmente in una qualsiasi interpretazione della realtà, è certamente cominciato al posto di un sogno innocente, un sogno orribile: al posto di un sogno fatto di visioni, un sogno di pretesti, ossia di scuse per poter vivere, per riempire comunque la vita: che così si è cominciata a presentare come un vuoto (mentre è evidentemente un tutto). Gli anni, i giorni, i minuti, hanno cominciato a chiedere, a pretendere di essere «riempiti», cioè di essere vissuti come adempimento di certe regole: la fraternità umana se ne è ferocemente nutrita. La vita, sotto sotto, nei vari momenti del sogno storico, continuava naturalmente ad avere certe sue «qualità» reali. Mai, mai una volta gli uomini hanno cercato veramente di capirle. Essi le trasformavano subito nei pretesti che «fanno sognare dentro un sogno» ossia riducevano la vita (irriducibile per definizione) a una «qualità di vita». In che cosa consiste questa «qualità di vita»? Innanzitutto essa si presenta come una serie di doveri: le comunità, le società, le istituzioni, i diritti non sono che una specie di gioco che distrae da quella vita che non è scissa mai, in alcun modo, dalla morte[21].

Vediamo quindi che Pasolini, “riducendo” lo spazio scenico, e facendo anche quello che per le scenografie si chiama appunto “riduzione”, ci ricollega al “vas di riduzione” di Petrolio, e all’uso del vocabolario della riduzione nella Divina mimesis. Infatti, uno dei titoli considerati da Pasolini per il romanzo era appunto Vas; un titolo che rimanda alla frase biblica, e poi dantesca, “vas d’elezione”, per San Paolo, figura alla quale Pasolini dedica un altro progetto rimasto incompiuto, e che l’autore capovolge scatologicamente (si ricordino i molti riferimenti scatologici in Petrolio anche al “Merda”) nella figura materiale che diventerà poi il titolo del romanzo incompiuto, Petrolio appunto, che è, proprio biologicamente, la “riduzione” effettuata dalla morte sulla vita, petrolio poi usato strumentalmente e consumisticamente nel neocapitalismo come fonte di energia; lo stesso vale per l’operazione della digestione sul cibo, che produce risultati scatologici “ridotti”[22]; figure retoriche, ma appunto materialistiche, nei vari sensi del termine, e che sono tra gli esempi più lucidi e riusciti del nuovo figuralesimo materialista, stratificato, pasoliniano.

La sincronicità della rappresentazione teatrale, rispetto alla diacronicità della poesia, non va quindi assolutamente confusa con una mancanza di riflessioni su temi della genesi storica (vedi appunto l’origine fossile, stratificata, del petrolio e dei suoi depositi sotterranei), e quindi anche delle genesi dei conformismi, in parte risultato delle norme diventate abitudini, avulse dal contesto che ha dato loro origine, ed eventualmente vissute come automatismi accettati per conformismo irriflesso, risultato del “logorio” storico, se vogliamo (propedeutici al nuovo totalitarismo consumista).

In Che cosa sono le nuvole? questa “riduzione” non è limitata agli spazi, ma il fatto che il teatro sia un teatro di pupi, quindi dove gli esseri umani sono ridotti a marionette e, in conseguenza delle reazioni del pubblico, vengono spazzati dallo spazio della rappresentazione e ridotti a “monnezza”, fa parte delle dinamiche sulle quali il regista insiste: a conclusione del film, c’è forse uno dei più struggenti e profondi riferimenti al “sacro”, inteso materialisticamente, in tutta l’opera pasoliniana (la cui semplicità riesce pienamente proprio per come ci si è arrivati): il momento, cioè, in cui le marionette (classica la scelta di Ninetto per esprimere questo momento di meraviglia), che giacciono sulle loro schiene rivolte verso il cielo, ormai a tutti gli effetti disumanizzate completamente, integrate, “ridotte” pienamente al deposito rifiuti in cui si trovano, rimosse dal consorzio umano, si stupiscono in modo quasi mistico della presenza, e dell’“essere” delle nuvole.

Nel passo che ho citato sopra – sulla storia, i sogni, i pretesti, e i doveri – è chiaro che ci si riferisce a una serie di norme sovrapposte a qualcosa di materiale/naturale che è il fondamento di possibili collegamenti alla “vita”, ma una “vita” che penso non sia da intendere in senso semplicemente “vitalistico”, ma invece come la base materiale imprescindibile dalla quale hanno origine le nostre specificità corporali, i nostri appetiti, impulsi, istinti e via dicendo. Sì, in parte, dal punto di vista genetico/storico questa è anche un’origine, ma si tratta di un fondamento materiale permanente e imprescindibile, che ha e avrà sempre questo ruolo: le sovrapposizioni sociali, normative, istituzionali, culturali, e rituali diverse, e diversamente stratificate e interrelate a seconda del momento storico, sono, sì, distintive e specifiche degli esseri umani come animali sociali e politici, ma la base materiale/naturale rimane imprescindibile come fondamento.

Quando nel Manifesto Pasolini inizia l’elenco della serie di riti che si succedono storicamente con il “rito naturale”, nel contesto di una descrizione delle interazioni quotidiane, lo fa a mio avviso per dei motivi ben precisi. Vuole affermare quanto sia importante la ritualità (che può essere vista come l’instaurazione cosciente e partecipata di convenzioni), e quindi la convenzionalità, nei rapporti umani. E altresì affermare quanto sia irriflessa questa normalità di molte convenzioni nel quotidiano, della quale tende appunto a sfuggirci una serie di presupposti e assunti che in genere accettiamo automaticamente e consideriamo in qualche modo “eterni” (dove appunto l’autocoscienza evocata in molti eventi rituali intersoggettivi, intesi come tali, è assente). Parlando di realismo, Pasolini ha sempre criticato il Naturalismo come movimento che tende a rendere a-problematico questo tipo di normatività irriflessa. L’aggettivo “naturale” in Pasolini va quindi trattato con cautela, e non è affatto necessariamente positivo.

A mio avviso, l’importanza data sia alla componente rituale sia al linguaggio e al dialogo nella proposta del “teatro di parola” fa parte del tentativo di affrontare questa normalità scontata, irriflessa, e di metterla in discussione, di sospenderla, appunto anche entro la modalità del “canone sospeso”.

Il teatro da un certo punto di vista rappresenta “l’esibizione di sé”, o forse meglio la “messa in pubblico”, e la formalizza, ne fa uso per un’opera d’arte. Ciò che intendo sottolineare è anche questo maggiore grado di “coscienza di sé” che è collegato con la “messa in pubblico”. In contesti della vita quotidiana, per esempio quando un calciatore “fa scena” dopo il contatto/fallo di un avversario, usiamo aggettivi come “teatrale” per questo tipo di comportamento. Ovviamente, nel caso del teatro come mezzo e forma artistica, sono molti i “sé” che vengono messi in scena: l’autore, i personaggi, e gli attori, e il tutto ha fini che non sono, direttamente, di tipo utilitario (nel caso del calciatore, per ottenere qualche vantaggio dall’arbitro). Ma appunto la complessità dei rapporti tra testo teatrale, messa in scena del pezzo, autore, personaggi fittizi, attori e spettatori, all’interno di uno spazio simbolicamente delimitato ma che confina con quello, altrettanto reale e compresente, degli spettatori, a mio avviso, proprio per queste caratteristiche materialistiche, mette in evidenza il rapporto tra soggetti, tra io e altro, le problematiche sia dell’intersoggettività che della socialità. E quindi focalizza in grado più elevato l’attenzione cosciente di ogni singolo proprio sulle norme, i sottintesi, le reciprocità, le aspettative “contrattuali”, di queste interazioni.

Ma la parte preliminare, “l’esibizione di sé”, che in un modo o nell’altro è sempre parte costitutiva di tutte le nostre interazioni sociali e pubbliche, del rito naturale appunto, rappresenta una zona ambigua e complessa dove si trovano misti elementi più trasparenti ad altri più opachi. Mi sembra anche per questo molto comprensibile la ragione del perché Pasolini abbia scelto questo mezzo artistico piuttosto che altri, per puntare in modo scandaloso e maieutico sull’uso della parola e del dialogo. Proprio perché, a causa della natura materiale e semiologica del mezzo, esso ci fa pensare al rapporto tra realtà e finzione, tra vero e mascherato, in modo immediato, sincronico, fisicamente presente, più di altri mezzi (nel caso del cinema assistiamo a una proiezione ed “entriamo” in uno spazio che fisicamente è rappresentato in altre dimensioni, mentre a teatro lo spazio della scena e quello del pubblico fanno, materialmente, parte di un medesimo spazio; nel caso della lettura il fatto di “entrare” in uno spazio immaginario dovrebbe essere evidente). Ed è anche per tutta questa serie di motivi che il poeta vede il teatro come un mezzo potenzialmente forte e costruttivo per affrontare i molti meccanismi del conformismo proto-totalitario nel suo presente.

Ed è in rapporto a questa “esibizione di sé”, ma per fini direi pedagogici, interattivi e dialogici, non esibizionistici e narcisistici (come invece molta critica li ha interpretati), che vedrei il rapporto con i molti momenti sacrificali o cristologici nelle opere di Pasolini. Non solo quelli più ovvi come in Accattone o a suo modo in La ricotta, ma anche per esempio nell’uccisione/sacrificio del corvo in Uccellacci e uccellini (dove però ovviamente il legame non è solo o tanto con un simbolismo cristiano che c’è soprattutto nell’episodio francescano, quanto verso il classico e antropologico, come nel rapporto tra ostia e capro espiatorio), o nel sacrificio dei pupi in Che cosa sono le nuvole? Il mettere in gioco sé stessi (come, indirettamente, tramite la figura del corvo in Uccellacci e uccellini), un po’ come la strategia della non violenza, è un modo particolarmente efficace, disarmante, aperto, di iniziare un rapporto con altri non o meno ambiguo, più esposto, e che per primo intraprende il rischio dell’essere rigettati dall’altro; ma, proprio perché intraprende questo rischio, è molto più probabile che incontri perlomeno l’interesse e la disponibilità dell’altro, se non anche il suo rispetto e la sua ammirazione. È una messa in gioco che spesso può contare sull’empatia dell’altro. E, nel mio modo di leggere la biografia e l’opera dell’autore, la vediamo praticata dai primi tempi dell’insegnamento fino al cosciente “scandalismo maieutico” dei suoi interventi pubblici dopo gli anni ’60, e anche in molti dei suoi saggi, per esempio anche nei dialoghi con i lettori.

Questa stessa messa in gioco di sé la vediamo in Pasolini già dagli esordi pedagogici e teatrali, in Friuli, dove appunto il poeta e intellettuale mira a stabilire dei dialoghi reali con i suoi allievi, tra l’altro facendo ricorso proprio alle risorse dell’attore e alla messinscena di rappresentazioni teatrali originali con i suoi allievi, come I fanciulli e gli elfi, minimizzando gli effetti distorcenti delle istituzioni in cui opera e delle circostanze storiche di acculturazione e alfabetizzazione (relative anche ai rapporti dialetti/lingua), o loro mancanza, che deve affrontare[23].

La “sospensione della norma” (focalizzare l’attenzione degli spettatori sulle norme implicite che adottiamo nei riguardi degli altri, sulle loro ricadute sia intersoggettive sia psicologiche individuali), nelle opere e proposte teatrali di Pasolini, è quindi propedeutica a una serie di passaggi dialogico-dialettici, tra immedesimazione ed estraneazione, avvicinamento e presa di distanza prospettica, che consente di esaminare meglio i problemi, i rapporti tra sé e altri come nuclei di socialità non costretta, autoritaria, conformistica, violenta, passiva, ma propositiva e costruttiva, aperta appunto e non chiusa, o con pretese di soluzione o chiusura assolute. Penso che sia in questo senso, oltre che a causa della situazione storica del teatro italiano, e più in generale del teatro occidentale contemporaneo all’autore, che Brecht non è più attuale per Pasolini, sebbene ne recepisca in profondità la lezione. La Verfremdungseffekt brechtiana è tutto sommato unidirezionale, mira a creare nel pubblico un’analisi distaccata, non preda di manipolazioni emotive. Ma questo significa spesso la quasi eliminazione o depauperazione dei momenti emotivi, soprattutto di condivisione sociale delle emozioni che, come nel caso del rito appunto, costituiscono una parte vitale e imprescindibile della convivenza sociale. Il dialogismo bidirezionale di Pasolini, di un razionalismo sì, ma fondato sul materialismo, mira invece piuttosto a creare nel pubblico, nei dialoganti, una forma di introspezione[24], un’analisi di sé che consenta la comprensione e, se necessario, il superamento delle ragioni per le proprie emozioni, ma non la loro eliminazione. Questa tensione pedagogica esiste dunque sia in Brecht che in Pasolini, e in entrambi è congiunta alla poesia e alla politica, ma nel primo tende spesso a forme piuttosto rigide o si potrebbe quasi dire “prussiane” di distanziamento, mentre in Pasolini si attua tramite, nella e con la “sospensione della norma”. In Pasolini troviamo significativamente una maggiore messa in gioco di sé stesso e, anche per questo, la sua strategia di “sospensione della norma” vuole intenzionalmente prendere in considerazione l’empatia e l’apertura esistenziale dell’altro.

A mio avviso questa è anche una delle (molte) ragioni dell’avversione di Pasolini all’avanguardismo superficiale del Gruppo 63, che cerca di creare un distacco massimo tra autore/artista e opera, mentre al contrario per Pasolini la coimplicazione dell’autore nell’opera è, anche politicamente, dialogicamente, essenziale (e ciò vale a maggior ragione per quello che riguarda l’esegesi e l’interpretazione delle opere degli altri). Semplificando al massimo, si potrebbe dire che per Pasolini (e per molta della migliore critica filologica alla quale, su parecchie questioni, Pasolini si sente vicino) lo scrivere come autore ha anche profonde ripercussioni e responsabilità, non solo sociali, politiche, professionali, ma anche, e forse soprattutto, etiche (anche se non di un’etica autoritaria e normativa), mentre per molti autori dell’avanguardia lo scrivere è quasi solo tecnica, e lo scrivere non implica affatto responsabilità etiche nei riguardi di chi legge, vede ecc. La fiction degli autori dell’avanguardia (a mio avviso evidentemente completamente illusoria) è che l’opera “si” scrive in modo impersonale, asettico, tecnico, mentre per Pasolini l’opera è sempre imprescindibilmente legata all’autore (un autore esistenzialmente molto specifico).

La “sospensione della norma”, e cioè la possibilità di riflettere sui fondamenti, le motivazioni, e le ricadute effettive di specifiche norme, pratiche, abitudini sociali, che è resa possibile in maniera particolarmente efficace in rappresentazioni artistico-fittizie, in cui il singolo può esperire le potenziali conseguenze di molte norme e interazioni ma senza subirne le conseguenze materiali effettive e spesso irreversibili che avrebbero nel reale, è poi stata formalizzata in varie pratiche pedagogiche con il nome appunto di role-playing, la cui efficacia ed effettiva dialogicità e “presa” pedagogica ovviamente dipende molto dai singoli partecipanti, e dalle situazioni concrete.

In qualche modo si può affermare che l’estraneazione in Pasolini è già una componente interna ai personaggi delle sue tragedie borghesi, che anche per questo sono appunto tragedie:

[I personaggi delle mie tragedie sono] piccolo-borghesi piuttosto ignoranti, privi di una ideologia contestatrice e rivoluzionaria, immersi nel loro stato borghese fino agli occhi, contemporaneamente parlano un linguaggio, quello della poesia, che è cosciente, e sono continuamente illuminati dalla coscienza di ciò che essi stessi sono. E questo implica, appunto, lo sdoppiamento: sono contemporaneamente piccolo-borghesi incoscienti e anime coscienti poeticamente. […] Si sdoppiano, si estraneano a sé stessi e parlano come se avessero la coscienza dell’autore che li fa parlare[25].

Casi nota come i personaggi nelle tragedie di Pasolini non condividano solo un linguaggio ma anche una consapevolezza e, visto che non sono affatto pensati come naturalistici, possano al limite essere in qualche modo interscambiabili a questo livello. Ma fa parte appunto delle intenzioni di Pasolini evitare questa mimesi di superficie, per lo stesso motivo che lo induce a minimizzare tutti gli apparati scenici del teatro tradizionale. Ed è quindi il testo, la tensione tra linguaggio, (auto)coscienza (o meno), e norme (“sospese”), piuttosto che l’intreccio e il succedersi di “eventi”, ad avere il ruolo centrale in queste tragedie[26].

I modi di indurre o di invitare il pubblico a condividere questa “sospensione della norma” nelle opere teatrali del poeta sono molteplici. Nelle tragedie borghesi in senso stretto questa partecipazione avviene sia grazie all’“auto-estraneazione” che citavo sopra sia grazie alle tematiche che ruotano attorno alle profonde incongruenze tra ruoli familiari e sociali, aspettative di comportamento e azione, e percezione di sé dei personaggi e dei loro contrasti (Affabulazione, Orgia e Porcile), come spesso una profonda alienazione dai propri fondamenti animali/materiali (il tema della sessualità e della corporeità essendo tra quelli più dominanti).

In Pilade la tematica politica riconduce alle tragedie greche classiche, ma qui c’è nel personaggio principale scelto, eccentrico alla tradizione, in combinazione con un’allusività allegorica al trascorso fascista, una problematizzazione ulteriore di ciò che la democrazia debba o intenda rappresentare, e di quale sia il rapporto di una norma condivisa e costruita in partecipazione con le fondamenta naturali delle nostre nature individuali (collegato al rapporto della trasformazione delle Erinni in Eumenidi), e quindi relativa anche ai giochi di potere riguardo all’inclusione/esclusione nella/dalla comunità.

In Calderon, invece delle norme politiche, legali e costituzionali, è il costante mutamento di periodo storico dell’ambientazione scelto per il personaggio di Rosaura, oltre che la costante sospensione tra sogno e realtà, che dovrebbe indurre gli spettatori ad esami più approfonditi dei rapporti fra i traumi e i dilemmi dei personaggi e le circostanze storiche e sociali in cui sono calati.

Finalmente in Bestia da stile, che è senza dubbio la più stratificata e la più palinsestica delle tragedie dell’autore, la sospensione avviene in molti modi: tra elementi autobiografici di Pasolini ed elementi politici e storici più generici; tra poeta ceco e poeta cieco; tra varie convenzioni di genere (teatro classico, medievale, popolare e altri generi e media artistici); tra elementi poetici e lirici, e riflessioni meta-teatrali, non solo con le allusioni allo skaz e alle scuole linguistiche di Praga e Mosca e a Jakobson (allusioni che torneranno in Petrolio per esempio con Propp e altri), ma per esempio negli episodi V e VI del pezzo, dove sono incluse addirittura opere e loro critiche da parte di individui di classe diversa, e rispettive valutazioni (forme di “sospensione del canone” affini per vari motivi all’episodio L’aigle in Uccellacci e uccellini); e di nuovo forme di sdoppiamento, tra Jan e la sorella per esempio, che diventeranno sempre più importanti nelle opere più tarde di Pasolini, come La divina mimesis e Petrolio, ma che, come si vede dalla citazione appena riportata relativa ai suoi personaggi, Pasolini aveva ben chiare già per le tragedie più prettamente borghesi. Il titolo stesso non è solo polemico nei riguardi di chi voleva ridurlo a semplice accidente individuale collegato alla macchina del marketing stilistico (neo)capitalista, ma racchiude in sé i due estremi del percorso esistenziale e artistico: la bestia (che appunto Pasolini accetta pienamente come fondamento animale materiale degli esseri umani) e lo stile, che a varie riprese Pasolini ha indicato, nella forma della Stilkritik spitzeriana (sebbene recepita criticamente e con molta cautela), come lo strumento più preciso per passare da una valutazione generica e approssimativa di stampo marxiano delle opere artistiche (interpretate e valutate nel “tipico” e nella media nel migliore dei casi) all’interpretazione e valutazione della quidditas individuale di opere specifiche di autori specifici (e dell’ineliminabile fondamento “irrazionale” che inevitabilmente contengono).

Conclusioni

Con questo saggio ho inteso esplorare la contraddittorietà dello “spazio” teatrale pasoliniano (tra spazio materiale reale e spazio simbolico – in tempi classici anche sacrale –, tra spazio materialmente concreto e irriducibile e invece spazio simbolico “ridotto”; ed evidenzio di nuovo l’importanza delle osservazioni di Pasolini sullo “spazio teatrale” nel Manifesto, e la sua per molti versi “riduzione” nella testa dello spettatore), di come sottolinei un contradditorio status di “soglia” tra testo e rappresentazione, tra pubblico, autore e attori, e ciò che questo implica per una concezione più ampia di “dialogo” nel modo in cui è concepito dal poeta. Questa soglia permette a Pasolini di esplorare aspetti dell’intermedialità che non sono accessibili tramite altri mezzi artistici. E permette anche di esplorare il rapporto, sempre contradditorio e conflittuale, tra autobiografia, esperienza individuale, realtà politica, culturale e sociale ed espressione, linguistica e non, come “messa in pubblico” e “messa in forma”, che però, soprattutto nel Pasolini più tardo e ancora più complesso, sono da intendere solo come temporanei punti di “condensazione” (“riduzione”), e non come pretese di chiusura (soprattutto formali, ma, parzialmente, anche filosofiche o concettuali).

Riferimenti bibliografici a opere di Pasolini:

  • Un paese di temporali e di primule, Parma, Ugo Guanda, 1993;
  • Saggi sulla Letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999;
  • Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999;
  • Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, con due scritti di B. Bertolucci e M. Martone e un saggio introduttivo di V. Cerami, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2001;
  • Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due interviste a L. Ronconi e S. Nordey, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2001.

Riferimenti bibliografici a opere su Pasolini:

  • S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005;
  • M. Epstein, Pasolini: lingua, materialismo e razionalismo, in Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Intellettuali, scrittori, amici, a cura di A. Favaro, Avellino, Sinestesie, 2011;
  • A. Felice, Pasolini maestro di teatro-scuola. L’unicum de “I fanciulli e gli elfi”, in Pasolini e la pedagogia, a cura di R. Carnero e A. Felice, Venezia, Marsilio, 2015.
  1. In questo saggio uso abbastanza frequentemente delle parole all’interno di virgolette doppie, come appunto il “borghesi” cui questa nota si riferisce. L’uso di queste virgolette vuole sottolineare che l’autore con si identifica pienamente con un uso normativo referenziale del termine, ma invita il lettore a leggerlo con attenzione critica e scettica (in modo analogo alla “sospensione della norma”, appunto).
  2. Cfr. A. Felice, Pasolini maestro di teatro-scuola. L’unicum de “I fanciulli e gli elfi”, in Pasolini e la pedagogia, a cura di R. Carnero e A. Felice, Venezia, Marsilio, 2015.
  3. Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005.
  4. P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999, vol. II, p. 2497.
  5. Ivi, pp. 2486-87. Nella nota al testo, Pasolini aggiunge quanto segue: «Non è detto, certo, che gli stessi gruppi culturali avanzati siano qualche volta scandalizzati e soprattutto delusi. Specie quando i testi siano a canone sospeso, cioè pongano i problemi, senza pretendere di risolverli».
  6. Ivi, p. 2500.
  7. Ivi, p. 2481.
  8. Nell’opera di Pasolini questo termine viene usato come riferimento abbreviato all’ermeneutica di impostazione stilistica e filologica, stilcritica, di Leo Spitzer, che, secondo Pasolini, lo distingue, grazie all’utilità dei suoi metodi specifici, da altri grandi filologi che Pasolini pure ammirò molto, come Gianfranco Contini ed Erich Auerbach.
  9. Cfr. P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., vol. II, pp. 2294 e sgg. (La reazione stilistica) e P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, con due scritti di B. Bertolucci e M. Martone e un saggio introduttivo di V. Cerami, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2001, vol. II, pp. 2915 e sgg. Per una discussione più esaustiva, cfr. M. Epstein, Pasolini: lingua, materialismo e razionalismo, in Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Intellettuali, scrittori, amici, a cura di A. Favaro, Avellino, Sinestesie, 2011, pp. 63-76.
  10. Per importanti riflessioni sul razionalismo rimando il lettore ai saggi indicati alla nota precedente. L’episodio L’aigle costituisce anche una presa in giro del critico francese Michel Cournot, esempio tipico di questo razionalismo di facciata che aveva stroncato Il Vangelo secondo Matteo.
  11. Cfr. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, Mondadori, 1999, pp. 242-56 (Prologo: E. M.).
  12. Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, op. cit., pp. 176 e sgg.
  13. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1255.
  14. Citazione dal testo per il programma di sala per una riduzione teatrale fatta da studenti di teatro di Uccellacci e uccellini, presentato alla conferenza stampa: Da tecnica audiovisiva a tecnica audiovisiva, 7 ottobre 1967. In P. P. Pasolini, Per il cinema, op. cit., vol. II, p. 2783.
  15. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1054-55.
  16. Ivi, pp. 1151-52.
  17. Cfr. P. P. Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due interviste a L. Ronconi e S. Nordey, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2001 (Progetto di uno spettacolo nello spettacolo), pp. 237-41.
  18. P. P. Pasolini, Teatro, op. cit., p. 241.
  19. Ibidem.
  20. P. P. Pasolini, Teatro, op. cit., p. 1196. Cfr. anche S. Casi, I teatri di Pasolini, op. cit., pp. 206-208 per una discussione dei rapporti tra Che cosa sono le nuvole? e il teatro e il cinema pasoliniani.
  21. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 223-24.
  22. Questa insistenza di Pasolini sulla scatologia va intesa, a mio avviso, come intenzionale capovolgimento del télos, della “struttura” e dell’ideologia oltremondana dell’escatologia (tipica solitamente solo di universi religiosi). Dove nell’escatologia si tende a un fine salvifico, dommatico, eterno e immutabile (quindi a una costante posticipazione verso il futuro), la scatologia, come momento “ridotto” del figuralesimo materialista pasoliniano, insiste sul percorso genetico da origini specifiche sino al presente. E insiste sull’analisi di questo presente, e dei suoi aspetti anche valoriali.
  23. Cfr. P. P. Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Parma, Ugo Guanda, 1993. Soprattutto i saggi raccolti sotto il titolo Dal diario di un insegnante: Scolari e libri di testo, Dal diario di un insegnante, Scuola senza feticci, e Poesia nella scuola (pp. 267-83) reperibili anche (tranne Dal diario di un insegnante) in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 50-80.
  24. “Introspezione” è una delle parole chiave, assieme a “scandalo”, che ricorre nei saggi sull’educazione inclusi in Paese di temporali
  25. P. P. Pasolini, Teatro, op. cit., pp. 327-28, dal dialogo-dibattito al Teatro Gobetti, Torino, 29 settembre 1968 (voluto come parte della regia e rappresentazione di Orgia).
  26. Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, op. cit., pp. 199-200.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)