Pochi poeti sono riusciti a condensare nella propria opera una quantità di vita vissuta così massiccia come Umberto Saba nel Canzoniere, il libro di tutta una vita e, insieme, il libro di tutta la sua vita. È suggestiva la definizione coniata da un commentatore d’eccezione, il tesista Carimandrei, di «romanzo della vita»[1. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, Milano, Mondadori, 2001, p. 145.]; la giustapposizione di letteratura e vissuto, trasposizione e realtà, crea un amalgama coagulato molto difficile da polarizzare.
Qualcosa, evidentemente, sappiamo con certezza della vita del poeta, e certi elementi, situazioni, personaggi del Canzoniere possono senz’altro essere sovrapposti ad altrettanti elementi, situazioni e personaggi della biografia del loro autore. Laddove, tuttavia, identificazioni e riconoscimenti risultino più ardui, sarebbe opportuno accontentarsi dei personaggi ricreati nel testo, limitandosi a osservare quei tratti che li contraddistinguono e li rendono inconfondibili, senza la pretesa di individuare un originale che, in virtù di un’esistenza biologica o esterna, sia più autentico. D’altra parte l’uomo Saba visse una vita singolare, ma certamente non straordinaria: quello che semmai fu straordinario è la massa enorme di esperienze, sentimenti e miserie che prima s’è sedimentata nel suo animo e poi è zampillata così felicemente dalla sua penna, creando un monumento la cui compattezza non deve ingannare. La capillare organizzazione, tutta volta a fornire l’impalcatura di una costruzione maestosa quale è il Canzoniere, non deve farci dimenticare che questa fu un’opera tenacemente perseguita e costruita in itinere, strada facendo, sorta di eccezionale diario di bordo di un mozzo che praticò sempre il piccolo cabotaggio e anche sulla terraferma navigò a vista. È il miracolo di una poesia che, nutrendosi delle contingenze che giorno dopo giorno le hanno fornito sostentamento, ma subito digerendole, sublima ogni suo elemento costitutivo in un tutto unico e compatto, come in un perfetto federalismo testuale: così il Canzoniere è, contemporaneamente, sé stesso e tutte le sezioni che lo compongono, dalle Poesie dell’adolescenza e giovanili in poi.
Nessuna lettura aprioristica e univoca è possibile né necessaria dei grandi personaggi, come Lina e l’io lirico, che innervano con la loro presenza l’opera tutta, ma una lente con gradazioni di volta in volta parzialmente diverse, uno sguardo duttile e attento alle piccole differenze, che sappia cogliere un’evoluzione e una vicenda in perenne divenire. Talvolta si rendono necessari dei carotaggi a profondità diverse, campionature prelevate a una o due sezioni di distanza l’una dall’altra, che permettano di leggere in diacronia uno stesso personaggio, una medesima situazione. È proprio quello che si cercherà di fare in questa sede: attraverso due testi che si rivelano particolarmente emblematici, La gatta e Carmen, analizzeremo l’evoluzione del personaggio di Lina dalla solarità di Casa e Campagna all’atmosfera più densa di sfaccettature di Trieste e una donna, facendo opportunamente reagire le liriche prescelte con altre testimonianze, poetiche e prosastiche, dell’opera sabiana. Di altri testi ci si potrebbe servire per giungere, forse, ai medesimi risultati, ma questi due sembrano particolarmente eloquenti: da una parte la presenza di un animale e dall’altra quella di Carmen possono bastare, per il momento, per dimostrare il carattere schiettamente e tipicamente sabiano di questi testimoni, e per metterli obbligatoriamente in rapporto con altre, fondamentali liriche del Canzoniere. È soprattutto attraverso l’analisi delle costanti e degli archetipi sabiani che possono meglio risaltare quelle sottili differenze che la compattezza dell’insieme può talvolta dissimulare, ma che a uno sguardo più attento svelano il sofferto continuum della vita, i suoi picchi e le sue depressioni, sempre filtrati attraverso la ri-creazione poetica.
I 13 versi della Gatta, come spesso accade nella sezione del Canzoniere Trieste e una donna, sono articolati su tre strofe di lunghezza differente (tre, nove, e un verso ciascuna); il metro prevalente è l’endecasillabo (sono tali otto versi su tredici), mentre i rimanenti cinque versi si suddividono tra i «compagni dispari», per dirla con le parole di Pier Vincenzo Mengaldo[2. P. V. Mengaldo, Attraverso la poesia italiana, Roma, Carocci, 2008, p. 178.]: quattro settenari (vv. 6, 7, 9 e 13) e un novenario (v. 12). Pur non essendo individuabile uno schema rimico definito, è tuttavia presente una lunga sequenza di rispondenze foniche che fornisce una solida impalcatura sonora a tutto il testo. Oltre all’assonanza tra «magra» del primo verso e «consacra» del v. 3, e alla facilissima rima a distanza «amore» del v. 2 / «cuore» del v. 5 (il tutto è giocato anche sull’iterazione della «r»), risulta evidente la cura sabiana per creare compattezza fonica nella seconda strofa: dal v. 4 prende avvio una lunga catena fonica che gioca di volta in volta con rime, consonanze o assonanze («tenerezza» al v. 4, «carezza» al v. 6, «perfetta» al v. 7, «gatta» al v. 8, «ragazza» al v. 9, «pazza» al v. 12 e, infine, ancora «ragazza» al v. 13). Gli unici due versi che non partecipano a questo gioco di rispondenze intervengono tramite la tonicità della «à»: così «cercavi» del v. 10 e «aggiravi» del v. 11 si inseriscono nel gruppo dei versi che li circondano, dall’ottavo fino alla fine della lirica, che battono tutti sulla medesima vocale tonica. Saba agisce da musicista navigato, creando un’atmosfera di luce e di freschezza, donando ai suoi versi un’ariosità che pervade la maggior parte della lirica e dà corpo fonico alle immagini di giovinezza e vitalità che dominano la seconda parte del testo.
Sempre nella consapevolezza che la struttura strofica tripartita non sia un semplice espediente grafico ma investa e influenzi la portata semantica della lirica[3. «Come spesso nella sezione giovanile di Trieste e una donna del Canzoniere (…) la struttura è costituita di due strofe più brevi che ne inquadrano una più lunga, la prima fungendo da proemio o avvio, la seconda da sviluppo narrativo, la terza da conclusione, magari sentenziosa, o da conciliazione» (ibidem).], ci pare opportuno suddividere ulteriormente, sulla base di alcuni elementi contenutistici che ci affretteremo a chiarire, il testo in due sezioni, collocando una demarcazione a cavallo tra i versi 8 e 9 («come te questa tua selvaggia gatta / ma come te ragazza»). Otteniamo, così, una prima sezione che potremmo definire “osservativa”, collocata nella contemporaneità della scrittura e caratterizzata da forme verbali all’indicativo presente, in cui, dopo la descrizione della stagione degli amori di una gatta (vv. 1-3), viene apostrofato un tu femminile non esplicitamente identificato (vv. 4-6); a partire dal nono verso si apre una seconda sezione memoriale ed evocativa, contrassegnata da forme verbali all’indicativo imperfetto (non ostano, in questo senso, gli ultimi due verbi della poesia, entrambi terze persone singolari del presente indicativo del verbo essere: quello del dodicesimo verso, essendo inserito in un discorso diretto dipendente da «dicevano», rimane confinato nella sfera temporale del passato che caratterizza la seconda strofa, mentre l’ultimo verso appartiene a quel folto gruppo di clausole sabiane di carattere gnomico e latamente riassuntivo e fa, in qualche modo, gruppo a sé), in cui il tu della prima parte del testo viene inquadrato nella propria giovinezza e parallelamente paragonato alla gatta.
Sebbene, come abbiamo detto, l’identità della donna cui il poeta si rivolge nel corso di tutta la poesia non venga esplicitamente dichiarata, tuttavia precisi riferimenti e rimandi intertestuali[4. Analizzeremo più avanti quelle che possono essere considerate delle parole tematiche circa il personaggio di Lina, quali «consacra» e «selvaggia».] e una dichiarazione contenuta nell’autocommento di Storia e cronistoria del Canzoniere[5. «Con “L’appassionata”, “La bugiarda” e “La gatta”, il poeta ritorna a Lina»: U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 152.] ci inducono a darle un nome ben preciso: si tratterebbe di Lina, moglie del poeta e protagonista, assieme a Trieste, dell’intera sezione[6. «Trieste è la città, la donna è Lina», sonetto 12 di Autobiografia, v. 5, in U. Saba, Canzoniere, introduzione di N. Palmieri, Torino, Einaudi, 2014, p. 252.]. In effetti, potremmo essere scettici, come faremo spesso in queste pagine, e diffidare delle parole di Carimandrei, non sempre lucidissimo nel commento del Canzoniere, ma l’analisi di molte liriche della medesima sezione sembra fornire risultati discretamente solidi; cerchiamo, dunque, di individuare quelle che possono essere considerate delle vere e proprie parole chiave, dei topoi che caratterizzano le varie epifanie del personaggio di Lina in questa zona dell’opera sabiana e lo rendono, come dice il poeta stesso, riconoscibile.
Al verso 3, «male che alle tue cure la consacra», la donna assume le sembianze di una sacerdotessa di cui la gatta costituisce una sorta di animale sacro; proprio il verbo in fin di verso s’inserisce in quello che potremmo definire campo semantico della sacralità, portando in scena l’alone mistico e quasi ieratico che costantemente avvolge Lina nel corso di tutta la sezione[7. Citiamo soltanto alcuni esempi dei moltissimi disponibili: «Tu hai come il dono della santità», «o devota», «o pura / sempre quanto la più giusta creatura» in L’appassionata; «Io credo / pure alle tue bugie. / Hanno più religione delle mie / verità», «più pura / ti vedono nel male gli occhi miei» in La bugiarda; «al tuo santo coraggio» in Carmen.] e che rappresenta il polo positivo delle numerose e insanabili aporie[8. Possiamo leggere, a titolo d’esempio, dei versi emblematici delle aporie di Lina, in cui compaiono ancora degli elementi lessicali provenienti da quello che abbiamo chiamato campo semantico della sacralità, in L’appassionata: «Tu hai come il dono della santità. / Nacque con te, ti segue ove ti porta / la passione, / fa dei peccati tuoi opere buone, / d’ogni giudizio ti rimanda assolta».] che la contraddistinguono.
Lo stesso Carimandrei si pronuncia su questo testo senza mostrare un grande apprezzamento:
La gatta è solo una graziosa poesia una delle più facili scritte dal Nostro. La donna vi è nuovamente paragonata a un animale, ma con una convinzione, un calore molto minori di un tempo. Non si può non pensare, per contrasto, alla lunga cagna di A mia moglie[9. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 153.].
Se è vero, come dice Carimandrei, che qualsiasi similitudine tra Lina e un animale non può che rimandare, agli occhi del lettore di Saba, ad A mia moglie, capostipite e somma testimonianza dello zoomorfismo morale e psicologico di molti personaggi del Canzoniere, bisogna anche riconoscere che evidenti e importanti sono le differenze tra la poesia in questione e l’illustre precedente contenuto in Casa e Campagna; e sono differenze il cui riconoscimento, lungi dal costituire un’operazione di capziosità critica, getta miglior luce sul significato dei singoli testi e chiarisce l’evoluzione diacronica del personaggio di Lina nel passaggio da una sezione all’altra. Detto in poche parole, le conclusioni cui perviene Saba alias Carimandrei in Storia e cronistoria sono, se non errate, quantomeno parziali, e noi abbiamo il dovere di rettificarle.
Una prima, fondamentale differenza tra i due testi è ravvisabile già in una zona liminare, ovvero nel titolo: se la lirica contenuta in Casa e campagna era direttamente intitolata a Lina, ora è invece l’animale a rivestire il ruolo eponimo. Lo scarto sarebbe trascurabile, se si arrestasse al fattore tutto sommato secondario e superficiale della titolazione; ma così non è e, come vedremo, esso si colloca molto più in profondità. In A mia moglie, la struttura interna delle sette similitudini tra Lina e i vari animali risulta del tutto speculare rispetto a quella della Gatta: qui la donna viene in qualche modo retrocessa in secondo piano e degradata a secondo termine di paragone di cui il determinato è l’animale[10. Riportiamo a titolo esemplificativo la prima similitudine che si incontra leggendo il testo di A mia moglie ai vv. 1-2: «Tu sei come una giovane, / una bianca pollastra», e quella che troviamo in La gatta ai vv. 7-8: «Ai miei occhi è perfetta / come te questa tua selvaggia gatta».]. Cerchiamo, allora, di capire quali motivi stiano alla base di questo importante cambiamento.
È superfluo ricordare quali siano i presupposti esistenziali e morali che in A mia moglie innervavano l’analogia Lina-animali, e quale ruolo ricoprano, nell’assiologia sabiana, l’animalità e, in misura molto simile, la fanciullezza[11. Sempre in A mia moglie, leggiamo ai vv. 74-75 delle parole emblematiche: «Tu questo hai della rondine: / le movenze leggere; / questo che a me, che mi sentiva ed era / vecchio, annunciavi un’altra primavera», in cui l’io lirico oppone – e sarà un topos in tutta la sua poetica – la propria vecchiezza alla carica vivificante di cui si fa portatrice Lina.]: aderenza alla naturalità dell’esistenza, assenza di sovrastrutture sociali e culturali, sguardo dal basso che coglie l’archè della vita, spontanea e quasi sorgiva verità – verità, si badi, non onestà[12. Si ha la sensazione che Saba intenda per «onestà» un atteggiamento consapevole, perseguito, quasi razionalistico, tanto da farne il caposaldo di un lucido progetto poetico enunciato nel manifesto Quello che resta da fare ai poeti (1911), in cui scriverà le celeberrime parole «Ai poeti resta da fare la poesia onesta», mentre la «verità» non può prescindere, al contrario, dall’inconsapevolezza, dall’involontarietà di chi ne è portatore. ] – che permette ad animali e fanciulli di essere privi di quelle impalcature che imbrigliano l’umanità adulta sono soltanto un elenco provvisorio delle prerogative di entrambe le categorie. Ebbene, in A mia moglie questi valori accomunavano Lina alle «femmine di tutti / i sereni animali»[13. U. Saba, A mia moglie, vv. 12-13 e, ancora, vv. 84-85.], e soltanto grazie a essi la moglie del poeta poteva distinguersi da tutte le altre donne[14. «Così se l’occhio, se il giudizio mio / non m’inganna, fra queste hai le tue uguali, / e in nessun’altra donna»: U. Saba, A mia moglie, vv. 15-17 e, poco diversamente, negli ultimi versi della poesia.]. In questa poesia Saba oppone due gruppi esistenziali intrinsecamente differenti: da una parte sta chi, come Lina e come le femmine degli animali, possiede quelle caratteristiche di verità che abbiamo evidenziato; dall’altra, invece, tutto il resto del mondo, e in particolare quella categoria cui avrebbe dovuto naturalmente appartenere anche Lina: le donne. Non è, infatti, casuale il termine che Saba utilizza per designare le consimili della moglie: «femmina», con la sua biologica oggettività, non veicola alcun fattore connotativo, risultando un termine tanto asettico quanto neutro. «Donna», invece, si colloca su un piano differente: comunemente è donna soltanto la femmina dell’Uomo che abbia superato una certa età, o che, al massimo, possegga certe caratteristiche di maturità che la possano rendere tale. Se è vero, dunque, che animali e fanciulli rappresentano in Saba la stessa faccia della medaglia dell’opposizione tra verità e menzogna o artificio, ecco che, allora, Lina poteva distinguersi dalle donne perché priva di quel pulviscolo che intorbida, con la crescita, l’originaria limpidezza dei fanciulli, che è come dire la naturale, istintuale limpidezza degli animali. La Lina di A mia moglie era, se non anagraficamente, almeno ontologicamente fanciulla, così come ontologicamente assimilabile agli animali.
Evidentemente qualcosa in La gatta e, in generale, in Trieste e una donna, è cambiato: se in A mia moglie il poeta ritraeva Lina dal vivo, in presa diretta, nella nuova poesia non è più la Lina attuale, coeva alla scrittura, a essere assimilata alla gatta, bensì la Lina ragazza o, meglio, l’immagine di Lina da giovane che si è sedimentata nella sensibilità del poeta e che apparirà più volte nel corso dell’opera sabiana: «Ai miei occhi è perfetta / come te questa tua selvaggia gatta, ma come te ragazza / e innamorata»[15. Il corsivo è nostro: U. Saba, La gatta, vv. 7-10.]. È la congiunzione avversativa «ma», non per caso collocata in sede incipitaria all’interno del verso, in una posizione dunque di primaria importanza, a costituire il perno semantico fondamentale per la comprensione del testo e a inaugurare quella che abbiamo definito la seconda sezione della lirica[16. Effettivamente la congiunzione «ma» si staglia con inaspettata pregnanza semantica dopo i versi 7 e 8 («Ai miei occhi è perfetta / come te questa tua selvaggia gatta»), che sembravano poter costituire la conclusione sentenziosa della lirica; il fascino di questa poesia deriva anche dal fatto che essa sembra esser stata scritta a braccio, come un discorso improvvisato, e sicuramente quel «ma» riveste un ruolo di primaria importanza in questo senso, dando a chi legge la sensazione di un’estemporanea e improvvisa volontà di rettificare quanto appena detto.]; a questa semplice congiunzione Saba affida il compito di esprimere le profonde differenze che intercorrono fra la Lina precedente e quella attuale, e sta a noi decifrare quanto il poeta cela dietro un discorso apparentemente piano e che anche l’autocommentatore Carimandrei pare passare sotto silenzio. È noto il doloroso retroterra biografico che sta alla base della nuova raccolta e che, inevitabilmente, ne influenza i testi: tra Casa e campagna e Trieste e una donna c’è stata la crisi matrimoniale del 1911, il rapporto tra il poeta e la moglie non è più quello di qualche anno prima, come radicalmente differente è la personalità che Lina assume agli occhi di Saba, intrisa di contraddizioni, passioni forti, ambivalenze, mentre l’atmosfera di Casa e campagna era serena, solare, quasi idillica[17. Ci conforta nelle nostre considerazioni Fulvio Senardi: «La breve raccolta Casa e campagna (1909-1910), la terza del Canzoniere, fotografa quell’impareggiabile momento, la gioia di un nuovo nido e mette in opera grazie ad essa uno sguardo fresco, capace di riscoprire il mondo e di ribattezzarne le cose, quasi a ripetere il miracolo della creazione»: F. Senardi, Saba, Bologna, Il Mulino, 2012.]. Se ci fosse permesso esprimerci con parole più quotidiane del dovuto, diremmo che nella nuova raccolta Lina è cresciuta, acquisendo da una parte quei contorni più definiti che la renderanno sempre riconoscibile all’interno del Canzoniere[18. «La figura di “Lina la cucitrice”, di “Lina dal rosso scialle”, il lettore del Canzoniere (…) può incontrarla spesso nelle raccolte anteriori a Trieste e una donna. Ma quella figura non aveva ancora, o appena, una personalità propria; era come l’eco di un caro nome ottocentesco, che si ripercuoteva nell’anima del giovane Saba. (…). È solo a partire da Trieste e una donna che Saba tratteggia con amore (…) quella che, tra le figure femminili del Canzoniere è, se non la sola, certo la più importante, la dominante, la regina (…). Nel libro che stiamo esaminando, la città e la donna assumono, per la prima volta, i loro inconfondibili aspetti; e sono amate appunto per quello che hanno di proprio e inconfondibile»: U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, op. cit., pp. 146-51.], ma distaccandosi dall’altra da quell’aderenza ai valori primigeni della natura, comuni agli animali e ai fanciulli, che l’avevano caratterizzata nella silloge precedente. Questa nefasta, nell’assiologia sabiana, crescita di Lina è evidenziata proprio dall’analogia con un animale che Carimandrei bolla come ennesima riproposizione del motivo di A mia moglie, senza tuttavia sottolinearne la fondamentale collocazione nel passato, come se quel «ma» non ci fosse e non cambiasse di segno il senso di tutta la poesia.
Analizziamo ora una seconda parola tematica, «selvaggia», del verso 9, che percorre il Canzoniere come un fil rouge[19. Altre occorrenze dello stesso termine o di strettissimi sinonimi si trovano anche in raccolte successive: «o selvaggia» è l’apostrofe che il poeta rivolge al v. 4 alla donna protagonista della poesia omonima nella sezione Parole; «gatto in vista selvatico» è invece il fanciullo di Vecchio e giovane in Epigrafe.]; ai fini della nostra dimostrazione analizzeremo soltanto l’unica occorrenza anteriore a La gatta. «Selvaggia mamma» viene definita Lina al v. 19 di A mia figlia, ultima lirica di Casa e campagna; alcuni, tra cui Carimandrei, hanno voluto vedere in questo tipo di aggettivazione un’anticipazione della personalità che Lina avrebbe assunto in Trieste e una donna[20. Scrive Carimandrei nella sezione di Storia e cronistoria del Canzoniere dedicata a Casa e campagna: «L’attributo di selvaggio dato alla donna è il secondo emistichio dell’ultimo verso, accennano a quello che sarà il “clima”, lo sfondo naturale del suo prossimo libro: Trieste e una donna».]. Noi riteniamo, invece, che tale aggettivo sia, più che una sorta di prolessi della raccolta successiva, un lascito dell’aderenza di Lina con gli animali che aveva costituito il punto culminante della raccolta che il poeta si stava accingendo a concludere: d’altra parte, l’aggettivo «selvaggio» si adatta perfettamente alla connotazione del mondo animale, immune dalla civilizzazione che allontana l’Uomo dallo stato di natura[21. «Stato di natura» pare, probabilmente, un sintagma appartenente al dibattito culturale sette-ottocentesco, ma siamo certi che questo parziale anacronismo non infici il nostro discorso, e che chi legge abbia compreso cosa intendiamo.] e che costituisce, per Saba, un inesorabile allontanamento dalla verità. Se le cose stessero come dice Carimandrei, allora ci troveremmo davanti a due concezioni diverse dello stesso aggettivo, utilizzato prima in un’accezione e dopo in un’altra[22. In sostanza, all’altezza di A mia figlia, «selvaggia» costituirebbe, come abbiamo detto, un’anticipazione della personalità della Lina di Trieste e una donna, riferendosi alle ambivalenze, alla crudeltà, all’incostanza e alla ferinità che la caratterizza in questa raccolta, mentre in La gatta, essendo riferito all’animale stesso che, come ormai abbiamo chiarito, costituisce un’incarnazione della Lina precedente alla scrittura della poesia, farebbe riferimento a quei valori positivi che ormai la donna ha perduto agli occhi del poeta. È evidente, allora, che, se così stessero le cose, ci troveremmo davanti a un’oscillazione semantica che renderebbe difficile individuare una costante nell’utilizzo dello stesso aggettivo, il quale invece dimostrerà successivamente una portata semantica sempre piuttosto definita e riconoscibile.]; potrebbe anche darsi che il poeta vari a suo piacimento la densità semantica del termine, e tuttavia esso resiste al passare degli anni e al parziale mutare della poetica, riferendosi sempre a personaggi portatori di quei valori propri anche degli animali (alla protagonista di Donna, colta, come la Lina della Gatta, nella fanciullezza, e al giovinetto di Vecchio e giovane), rendendo dunque improbabile l’oscillazione semantica che, sola, giustificherebbe l’osservazione di Carimandrei.
È presente, infine, un ulteriore rimando intertestuale che è utile discutere per concludere il discorso sulla Lina di questa poesia e dell’intera sezione. Il poeta, in quella che abbiamo definito la seconda sezione del testo, descrive i connotati di Lina da ragazza: tra questi spiccano l’aggettivo «innamorata» al verso 10, l’atteggiamento descritto tra il secondo emistichio del verso 10 e il verso 11 («che sempre cercavi, che senza pace qua e là t’aggiravi»), e la diceria riportata nel discorso diretto che chiude la seconda strofa: «è pazza».
È opportuno a questo punto dare un’occhiata a un testo che precede di poco La gatta, Città vecchia, in cui nella seconda strofa, immersa nella caleidoscopica parata delle «creature della vita / e del dolore»[23. U. Saba, Città vecchia, vv. 17-18.], compare «la tumultuante giovane impazzita / d’amore»[24. Ivi, vv. 15-16.], ulteriore rappresentante di quella giovinezza i cui valori fanno tutt’uno con quelli dell’animalità[25. Molto sarebbe da dire anche su un ulteriore rappresentante di tali valori, designabile, non troppo precisamente, come popolo, intendendo con questo termine i rappresentanti più umili della società o, detto con le memorabili parole di Saba, «tutti / gli uomini di tutti / i giorni».]. Ebbene, tutte le prerogative della giovane sono possedute anche dalla Lina ragazza: il fondamentale, ormai lo sappiamo, aggettivo «giovane» viene sostituito dal sinonimo «ragazza»; l’asciutto e teatralmente efficacissimo «tumultuante» lascia il posto alla perifrasi «che sempre cercavi, / che senza pace qua e là t’aggiravi»; infine, il sintagma «impazzita d’amore» viene scorporato, confluendo da una parte nell’aggettivo «innamorata» e, dall’altra, nell’attributo della pazzia contenuto nel discorso diretto al penultimo verso.
Il quadro è, a questo punto, abbastanza completo per procedere a una provvisoria conclusione: tutta una serie di osservazioni ci hanno portato a considerare uno speciale rapporto, che va nella direzione di un progressivo allontanamento da tutta una serie di valori positivi, tra la Lina protagonista di Trieste e una donna in generale, e della Gatta in particolare, e quella che veniva descritta nella raccolta precedente, Casa e campagna. Che tale allontanamento possa essere assimilato a una sorta di crescita, per cui avremmo da una parte una Lina ontologicamente fanciulla, e dall’altra una Lina adulta, abbiamo cercato di dimostrarlo nelle pagine precedenti. Ma, a ben vedere, un’altra considerazione può aiutarci ad avvalorare quanto detto finora; focalizziamo ancora la nostra attenzione sulla zona liminare dei titoli delle due raccolte. Con Trieste e una donna, in effetti, è elevata al rango di protagonista Lina stessa, ma vi viene definita, non a caso, «donna», mentre in A mia moglie, l’abbiamo già sottolineato, dalle donne era fermamente distinta. Non si creda, dato il lavoro di cesello che Saba opera anche sui titoli delle singole raccolte (e qui ci troviamo, forse, davanti al caso più emblematico di tale labor limae, dal momento che il titolo definitivo, avvertito probabilmente più affine al contenuto dei singoli testi, fu coniato soltanto in un secondo momento, mentre al suo primo apparire la raccolta fu pubblicata come Coi miei occhi), che sia un cambiamento estemporaneo e privo di significato; è questa, crediamo, un’ulteriore controprova delle conclusioni cui siamo pervenuti analizzando La gatta. Lina è ormai una donna, ha istituzionalizzato il proprio ruolo all’interno della società, diventando madre oltre che moglie, si è sporcata le mani. Attorno al suo personaggio rimangono residui di quella sacralità che l’aveva caratterizzata in precedenza, ma ora essi entrano in rotta di collisione con altre e più complesse prerogative, vengono problematizzati e, laddove – in realtà molto spesso – si manifestano, l’atmosfera che li circonda non è più quella idillica di un tempo, ma una molto più cupa e dolorosa. «Son due razze in antica tenzone»[26. Ultimo verso del terzo sonetto di Autobiografia.], dice Saba riferendosi al padre e alla madre; in antica tenzone sono anche, per usare le sue bellissime parole, le due sfere, quella dell’innocenza più pura, della sacralità più inviolabile da una parte e della crudeltà più compiaciuta dall’altra, che convivono all’interno del personaggio di Lina, rendendolo veramente riconoscibile nel corso di Trieste e una donna.
Il «romanzo della vita»[27. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 145.] prosegue, e con esso la tenace volontà del poeta di registrare nei propri versi ogni singolo sentimento, «anche (specialmente) doloroso»[28. Ibidem.], rendendo la propria poesia uno scandaglio esistenziale di fondamentale importanza per comprendere sé stesso e la propria vita. Pur non essendo individuabile uno sviluppo narrativo canonico[29. Lo stesso Carimandrei, all’inizio della sua discussione di Trieste e una donna, si scaglia contro i romanzi in versi, dicendo che «se egli (Saba) avesse pensata una cosa simile, sarebbe stato un cialtrone, e noi non ci occuperemmo oggi di lui»; semmai, l’autocommentatore definisce i componimenti della sezione «poesia d’occasione», intendendo in tal modo evidenziare quell’organico collegamento fra letteratura e vissuto, senz’altro più importante in Saba che in molti altri poeti, che renderebbe quantomeno di difficile interpretazione le liriche di Trieste e una donna senza una conoscenza della biografia dell’autore.], è comunque evidente che il sostrato biografico che sta alla base di Carmen[30. I due testi sono separati unicamente da La fanciulla, dal titolo emblematico; è possibile che Saba, sempre attentissimo all’ordo carminum, abbia voluto frapporre una lirica la cui protagonista è perfetta rappresentante di quella giovinezza di cui abbiamo molto parlato, con un intento scopertamente antifrastico rispetto ai due testi che la circondano, entrambi incentrati sulla figura di Lina. Per quello che ci riguarda, ci limiteremo a mettere in evidenza un aspetto che può rivelarsi utile per il nostro discorso: importante elemento lessicale presente in La fanciulla è «primavera», in chiusura del primo verso, in evidente contrasto col titolo della lirica inaugurale di Trieste e una donna, L’autunno, chiaramente dedicata a Lina. È ormai pienamente istituzionalizzata nella tradizione letteraria la metafora delle stagioni dell’anno per quelle della vita umana: Lina è entrata in una fase esistenziale autunnale («è l’autunno, è la stagione in vista / sì ridente, che fa male al mio cuore», recitano i primi due versi della seconda strofa di L’autunno), è, come abbiamo detto nelle pagine precedenti, diventata ontologicamente adulta, mentre la fanciulla della lirica omonima costituisce una sorta di personificazione della primavera («Chi vede te vede una primavera», si legge al primo verso). Non crediamo che ci sia bisogno di ulteriori parole per chiarire l’evoluzione del personaggio di Lina in questa sezione del Canzoniere, tanto più se si considera la posizione incipitaria, e dunque latamente proemiale, di L’autunno nella propria silloge.], di poco successiva alla lirica appena analizzata, è ancora la crisi matrimoniale e la temporanea separazione tra il poeta e la moglie del 1911.
La lirica conta 31 versi totali, tutti endecasillabi, articolati in 6 strofe di lunghezza diversa: 4, 7, 7, 9, 2 e 2 versi ciascuna. Molte le rime, anche se, come in precedenza, non è individuabile un preciso schema rimico: «te» del v. 1 è in rima, a distanza, con un altro «te» al v. 11, «me» del v. 14, e «José» del v. 15; «amore» del v. 2 rima con «ardore» del verso successivo; rima a distanza molto importante semanticamente è quella tra «onestà» del v. 4, «crudeltà» del v. 7, e «verità» del v. 18; sono in rima baciata «affanno» e «vanno» nei primi due versi della seconda strofa; altra rima baciata è quella tra «invisa» del v. 8, «incisa» del v. 9, e «uccisa» del v. 10; rime baciate anche quelle tra «figlia» ed «esiglia» ai primi due versi della terza strofa, e «canto» e «santo» dei vv. 16 e 17; rima a distanza quella tra «lontana», «vana» e «popolana» dei vv. 19, 23 e 24; rime baciate tra «ritorno» del v. 20, «soggiorno» del v. 21, e «giorno» del v. 22, e «stesa» e «chiesa» dei vv. 25 e 26; ancora rima baciata tra «entrata» del v. 27, «ammalata» e «amata» dei due versi successivi; infine, da notare l’assonanza tra «grido» e «sorriso» agli ultimi due versi della poesia.
Tornando al contenuto della lirica, osserviamo subito un elemento, che approfondiremo in seguito, in comune tra La gatta e Carmen: si ha, infatti, la sensazione che anche in questa lirica compaiano due diverse dimensioni temporali, una collocata nella contemporaneità e in cui vengono tematizzati situazioni e sentimenti contingenti, e un’altra collocata nel passato e in cui vengono rievocati eventi trascorsi e sublimati attraverso il ricordo, tutto filtrato dalla memoria letteraria. Le prime due strofe sono interamente collocate nel presente e documentano la difficile situazione familiare del poeta: sono limpidi, in questo senso, numerosi indizi, come l’appello all’onestà di Lina del terzo verso («più nulla chiede che la tua onestà»), il riferimento alla lontananza della moglie dei versi 5-7 («senza la tua gaia crudeltà. (…) Con l’immagine tua dovunque incisa»), e quello alla solitudine dell’io lirico del verso 8 («Con la mia solitaria anima invisa»), parole abbastanza chiare e che non crediamo abbiano bisogno di un’esegesi più approfondita. E, tuttavia, non sarà questo il tema centrale della lirica, ma si verificherà presto un brusco stacco temporale che metterà fra parentesi, relegandolo al ruolo di semplice occasione, il presente. Nella terza strofa verrà introdotta una diversa dimensione temporale che farà cambiare rotta a una lirica che ormai sembrava avviata verso una descrizione elegiaca della solitudine del poeta, mutandone il tono e l’argomento. Tuttavia, mentre in precedenza abbiamo avuto buon gioco a individuare un punto del testo che fungeva da spartiacque tra le due dimensioni, in questa lirica esse non saranno nettamente separate, ma si confonderanno e sovrapporranno all’interno delle singole unità metriche, rendendo parzialmente più complessa e, probabilmente, meno solida la nostra operazione interpretativa.
È nella terza strofa che avviene il fondamentale passaggio dalla dimensione osservativa a quella evocativa, introdotta al verso 14 («con la musica ancora vieni a me»). Il riferimento, esplicitato poco dopo e d’altra parte già presente nella fantasia uxoricida dell’io lirico della seconda strofa («ho sognato pur io d’averti uccisa / per l’ebbrezza di piangere su te»), è a due opere molto amate da Saba: la Carmen di Merimée, novella pubblicata nel 1845, e soprattutto quella di Bizet, opera lirica messa in scena per la prima volta a Parigi il 3 marzo 1875. Due liriche precedenti a questa[31. Ci riferiamo all’Intermezzo a Lina, che si colloca in posizione intermedia tra Casa e campagna e Trieste e una donna, costituendo un vero e proprio anello di congiunzione tra le due raccolte e documentando una fase ibrida, diciamo così, del personaggio di Lina, e a L’autunno, lirica inaugurale della silloge che stiamo analizzando.] e un’esplicita dichiarazione di Carimandrei[32. «In “Carmen”, una poesia che si rivolge al personaggio descritto da Merimée e cantato da Bizet, il paragone Carmen-Lina (non sappiamo se obbiettivamente esatto, ma caro al poeta) è evidente, sebbene sottaciuto»: U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 153.] ci autorizzano a identificare Carmen con Lina. D’altra parte, c’è anche un altro chiarissimo indizio sulla corrispondenza biunivoca tra Lina e Carmen: nella sua tesi di laurea, Jacopo Galavotti mette in evidenza le varianti testuali tra la pubblicazione di Poesie nel 1911 e la prima edizione del Canzoniere del 1921.
In particolare, è molto interessante l’iter variantistico che interessa una lirica di Versi militari, Durante una marcia: nell’edizione del 1911 si leggeva, al primo verso dell’ultima terzina, «Io penso, Carmen, le bellezze tue», mentre nel ’21 «Io penso, Lina, le bellezze tue». In quella lirica Carmen-Lina interveniva come una sorta di deus ex machina a sublimare la squallida atmosfera della vita militare che circondava l’io lirico durante il servizio di leva. Nell’edizione che sarà definitiva, poi, Saba restaura il nome proprio originale: «O canta, Carmen, le bellezze tue»[33. U. Saba, Durante una marcia I, v. 12.]; oltre alle altre modifiche testuali, di cui ci occuperemo a breve, quello che conta è l'”antichità” dell’identificazione – quasi, diremmo, dell’intercambiabilità – tra la moglie del poeta e la bella gitana, che agisce già fin dalla preistoria dell’immaginario sabiano, fornendo le coordinate che la governeranno per alcune sezioni e diverse liriche, fino a quando qualcosa di decisivo non cambierà.
Prendiamo, dunque, per buono questo provvisorio punto di partenza, l’identificazione Carmen-Lina. Il riferimento musicale ci dice molto della Lina di Trieste e una donna: nell’opera di Bizet, la bella zingara donava il proprio amore prima a don José, suo futuro carnefice, poi a Escamillo, macchiandosi dello stesso peccato della Lina reale. Su queste basi, dunque, l’analogia tra Carmen e Lina, di cui viene allusivamente descritto il tradimento, sembra essere pertinente; tuttavia, tale analogia si basa su presupposti diversi rispetto a quella contenuta nell’Intermezzo a Lina[34. Nel corso di queste pagine abbiamo fatto riferimento a un campo semantico che abbiamo provvisoriamente definito della sacralità; anche nell’Intermezzo a Lina sono presenti numerosi elementi lessicali perfettamente ascrivibili a quest’ambito: «pia» del primo verso, il riferimento alla «santità» del tu femminile del verso 6, quello alla sua «grazia» del verso 8, e, infine, alla «purità» del verso 52. Anche sulla base di tutti questi elementi ci sembra opportuno identificare il tu di questa poesia con Lina; tanto più che numerose altre considerazioni ci aiutano a confermare il nostro discorso di queste pagine. Per esempio, è molto interessante ciò che il poeta chiede alla propria interlocutrice all’inizio della terza strofa dell’Intermezzo: «dove andò la tua vita di fanciulla?», e, in modo molto simile, all’inizio della quarta strofa: «dove andò la tua vita di ragazza?». Evidentemente già a quest’altezza ci si rende conto che il personaggio di Lina sta cambiando, allontanandosi inesorabilmente da quello che era nella silloge precedente; a ben vedere, anche in questa poesia si alternano costantemente le due diverse dimensioni temporali del presente e del passato, del ricordo di quanto è stato e non è più, e della descrizione della situazione attuale. L’ultima strofa si apre, per l’appunto, con l’avverbio di tempo «ora», che introduce tutta una serie di considerazioni sul presente che riaffermano l’aderenza di Lina con Carmen, già presagendo certe caratteristiche che il personaggio assumerà in Trieste e una donna (paradigmatici i riferimenti ai «vezzi», al «fuoco di cui ardi», alla «voluttà»).], prima lirica in cui compariva il personaggio plasmato da Merimée. Carmen è, come la Lina di Trieste e una donna, un personaggio dalle numerose sfaccettature e dalle insanabili aporie, si presta a varie interpretazioni e può costituire, e di fatto costituisce per Lina, un termine di paragone da punti di vista anche antitetici. Essendo un personaggio così complesso, è ovvio che Saba possa utilizzarlo in chiavi di volta in volta molto diverse, privilegiandone ora un aspetto ora un altro: all’altezza dell’Intermezzo è la Carmen positiva, diciamo così, a costituire il doppio di Lina, tant’è che una sola pagina più tardi, in L’autunno, è evidente il rammarico per il distacco tra la moglie e la sua nemesi letteraria[35. Leggiamo dalla prima strofa di L’autunno: «Che succede di te, della tua vita, / mio solo amico, mia pallida sposa? / La tua bellezza si fa dolorosa, / e più non assomigli a Carmençita». Si capisce che quelle caratteristiche che nel testo appena precedente motivavano l’analogia Lina-Carmen sembrano essere, a quest’altezza, venute meno.]. Qualche lirica dopo, però, troviamo questo testo, intitolato direttamente a Carmen, in cui l’analogia tra la zingara e Lina viene riproposta, ma declinata diversamente: qui è, come già anticipato, la Carmen dell’indomabile sensualità, della ferinità sessuale e dei tradimenti a costituire il doppio della donna, e su queste basi l’assimilazione può ancora funzionare.
Se volessimo individuare un punto della poesia che costituisca, come il «ma» di La gatta, un perno semantico all’interno del testo, esso si collocherebbe al quattordicesimo verso, e in particolare nel tu sottinteso cui l’io lirico si rivolge. Crediamo che il fascino di questa poesia risieda anche nell’indeterminatezza, o meglio nell’ambivalenza interpretativa cui dà luogo: anche dando per scontata, e scontata non è, la perfetta aderenza tra Carmen e Lina[36. In questa sede stiamo dando per scontata la perfetta aderenza tra Lina e Carmen; tuttavia, questa è soltanto una proposta interpretativa che si basa sia su certe osservazioni intertestuali già messe in evidenza sia su un’esplicita dichiarazione contenuta in Storia e cronistoria, che ha, francamente, un peso molto minore delle prime. La nostra proposta non pretende di essere univoca né totalizzante, ma, a nostro avviso, si rivela efficace soprattutto nell’analisi delle ultime strofe della poesia, dove la presenza sottaciuta del personaggio di Lina risolve numerosi problemi. In ogni caso potrebbe anche darsi la possibilità che in questa lirica Saba parli semplicemente del personaggio letterario di Carmen, senza cioè farne un uso metaforico, di secondo grado, e che quindi la gelosia di cui si fa menzione nella seconda metà della terza strofa sia un sentimento tutto quanto metaletterario, rivolto a chi, come Bizet e, prima di lui, Merimée, aveva cantato Carmen. Ci troveremmo allora davanti a una sorta di ovazione letteraria tributata a due dei padri putativi del Saba poeta. Però questa proposta non ci convince del tutto, e preferiamo portare avanti l’interpretazione da cui siamo partiti nella nostra analisi, nella convinzione che essa riveli le sue potenzialità in modo particolare nelle ultime pagine del nostro discorso.], qual è la Lina apostrofata dall’io lirico? Le risposte che potremmo dare sono almeno due: da una parte, si può credere che, come ai versi precedenti, il riferimento sia alla Lina dell’oggi, che verrebbe in qualche modo rievocata dall’opera lirica di Bizet perché effettivamente coincidente con Carmen per i motivi che abbiamo detto; oppure, si potrebbe pensare che, come accadrà in seguito, a essere rievocata non sia la Lina attuale ma quella di un tempo, quella cioè che era la giovane protagonista di La gatta e che costituiva il doppio di Carmen nell’Intermezzo e in altre poesie (come Durante una marcia, appunto). Se il verso iniziale della terza strofa («incolpabile amica, austera figlia»), con i suoi aggettivi caratteristici della Lina di Trieste e una donna «incolpabile» e «austera», è facilmente collocabile nella contemporaneità della scrittura, già quello successivo presenta evidenti problemi interpretativi, poi acuiti dal prosieguo della lirica: in effetti, a essere in esiglio, parafrasando Saba, è tanto la Lina attuale, colei che è lontana dal nucleo familiare, quanto la Lina ragazza di cui abbiamo ampiamente parlato, ormai assente agli occhi del poeta. In ogni caso non dobbiamo crucciarci troppo per queste difficoltà, né cercare di dare a tutti i costi un volto ben definito a quel tu: come abbiamo già detto, è anche quest’ambivalenza a rendere affascinante Carmen, e forse a noi non resta che incarnare il «lettore ideale» descritto da Umberto Eco in vari capitoli di Sei passeggiate nei boschi narrativi e, in precedenza, in Lector in fabula.
Proseguendo nella lettura, un’altra domanda che dovremmo porci leggendo la terza strofa (vv. 15-18) è questa: se non degli amanti della donna, di chi è geloso l’io lirico? I due versi e mezzo in cui ciò viene dichiarato, dal secondo emistichio del verso 16 al verso 18, sono ancora un coacervo di reticenza: «di chi prima un canto / sciolse alla tua purezza ed al tuo santo / coraggio incontro alla tua verità». È evidente che si debba intendere quel «prima» in funzione avverbiale; e allora chi è che, in un passato non meglio definito, ha dedicato un canto alla purezza, alla «verità» di Lina? Non è altri, lo sappiamo, che Saba. Quello che il poeta dichiara di rimpiangere sarebbe, dunque, il sé stesso d’un tempo, colui che fu spettatore ammirato dell’aderenza di Lina con gli animali e coi fanciulli, protagonista di tante poesie. A ben vedere, il testo di Durante una marcia ci torna utile anche in questo caso: abbiamo già avuto modo di notare come nella prima edizione del Canzoniere del 1921 il poeta, all’inizio dell’ultima terzina, sostituisse il nome proprio «Carmen» con quello di «Lina», sciogliendo in qualche modo quell’affascinante identificazione della moglie col personaggio di Bizet. Tuttavia, in quella che sarà la versione definitiva, viene restaurata la lezione originale per quanto riguarda il nome, e parallelamente cambia anche qualche altra cosa di grande importanza. Leggiamo, dunque, le due versioni della terzina: «Io penso, Lina, le bellezze tue, / le grazie della tua svelta persona. / Il cielo senza mai piovere tuona» diventa «O canta, Carmen, le bellezze tue, / le lodi in coro della tua persona. / Il cielo, senza mai piovere, tuona»[37. U. Saba, Durante una marcia I, vv. 12-14.]. Evidentemente, con l’introduzione di un lessico tutto afferente all’ambito semantico musicale (prima «canta» e poi «in coro»), la presenza di Carmen, personaggio d’opera, si rendeva più opportuna e significativa di quella di Lina. Ecco, dunque, che Lina (perché a questa altezza dire «Carmen» o dire «Lina» è praticamente la medesima cosa) viene evocata attraverso la musica, e non esclusivamente attraverso un’operazione del pensiero dell’io lirico, e torna a indossare la maschera di Carmen, a celarsi sotto il suo rosso scialle. Dobbiamo fare anche un’altra precisazione: sebbene tutte queste modifiche testuali Saba le metta in atto ex post, dobbiamo attenerci allo stadio esistenziale che sottostà a quella particolare dimensione narrativa; potrebbe sembrare un’osservazione superflua, ma forse non è così: a essere evocata dalla musica, sotto lo scialle di Carmen, è una Lina che ancora non era diventata moglie del poeta, anteriore addirittura a Casa e campagna, una Lina, dunque, più fanciulla, più «ragazza» che mai.
A questo proposito si possono agevolmente notare alcune rispondenze fra il testo definitivo di Durante una marcia e Carmen: anche qui, in effetti, abbiamo un lessico di tipo musicale («con la musica ancora vieni a me», «di chi prima un canto / sciolse alla tua purezza»), e anche qui la dimensione evocativa viene sdoganata proprio dalla musica. «Con la musica ancora vieni a me», «di chi prima un canto / sciolse alla tua purezza»: grazie alle acquisizioni che ci ha permesso l’analisi di Durante una marcia, risulta evidente che anche qui la musica riporta alla mente del poeta la moglie, ancora sotto le sembianze di Carmen, in uno stadio esistenziale anteriore alla crisi matrimoniale e alle tappe della vita che ne hanno minato la perfetta aderenza alla bella gitana.
Tornando alla poesia, se in precedenza avevamo detto che, per la prima parte della terza strofa, era possibile che la dimensione evocativa si esercitasse anche sul presente, dal momento che interlocutrice del poeta poteva essere anche la Lina del doloroso hic (anzi, dell’illic) et nunc, ora invece, leggendo i versi che seguono, si rende evidente il fatto che l’attenzione dell’io lirico è senz’altro rivolta al passato.
Le ultime tre strofe, allora, rievocano quel tempo in cui Saba conobbe Lina rimanendone folgorato dalla «verità» (è questo un termine di una pregnanza semantica talmente densa, soprattutto se confrontato con quello, importantissimo in Saba, di “onestà”, che sarebbe possibile esaurirne la discussione in poche pagine). E, tuttavia, occorre fare delle distinzioni, perché le varie dimensioni temporali di cui abbiamo parlato si riverberano anche in questi ultimi versi: se il primo verso della quarta strofa («né tu forse da me vivi lontana») contiene ancora un “tu” collocato nel presente (è ancora la Lina attualmente lontana dagli affetti familiari), si ha poi la sensazione che al verso successivo Saba passi sotto silenzio lo scarto tra il presente e il passato, tra osservazione ed evocazione. L’«amor tuo» di cui si parla sarebbe, allora, quello di Lina per Saba, collocato nel passato e cui il poeta ritorna con l’immaginazione (anche in La gatta la Lina ragazza veniva emblematicamente definita «innamorata»). A ben vedere, anche nei primi tre versi della poesia («Torna la mia disperazione a te; dopo aver tanto errato, oggi il mio amore / torna al tuo fiero mutevole ardore») si parlava di un ritorno; lì, però, era un viaggio totalmente diverso, nel presente e non verso il passato, era la disperazione di Saba, frutto della difficile situazione familiare, a tornare al «fiero mutevole ardore» della moglie, conditio sine qua non della Lina del presente. Ora, invece, ci troviamo davanti a un viaggio del tutto immaginativo e rivolto verso il passato: non per niente, al terzo verso della strofa Saba dice, proseguendo nella sua metafora letteraria, di non cercare Carmen a Siviglia, dove senz’altro la troverebbe (avrebbe potuto dire «non cerco a Trieste il tuo soggiorno»: sarebbe stata la medesima cosa, anche da un punto di vista metrico). Non è, fuor di metafora, la Lina di oggi che Saba ricerca, bensì una Lina metafisica, quella che non esiste più, colei che si identificava già con Carmen, ma su basi totalmente differenti. Ecco, allora, che partono gli imperfetti del ricordo, e il riferimento a Firenze non potrebbe essere più chiaro.
Sappiamo che Saba trascorse a Firenze un paio d’anni, dal 1905 al 1907, assieme all’amico Giorgio Fano; questi era allora fidanzato con la sorella minore di Lina, e proprio in quegli anni il poeta iniziò la propria corrispondenza epistolare con la futura moglie. È quindi Firenze, per Saba, il teatro del primo incontro a distanza con Lina; possiamo, dunque, capire perché il poeta possa identificare Lina con una «popolana / di Firenze», in assenza di una conoscenza dal vivo. Un’ulteriore prova che in questi versi si stia effettivamente parlando di Lina si ricava da una prosa sabiana del 1957, Come di un vecchio che sogna, che ripercorre fiabescamente il primo incontro tra il poeta e Lina; qui, con un elemento lessicale esattamente corrispondente al «popolana» di Carmen, si dice che Lina «non portava in testa il cappello delle signorine, ma lo scialle delle popolane»[38. È ovvio che l’osservazione sullo «scialle delle popolane» non è un’estemporanea aggiunta descrittiva volta a rendere più visivamente concreto il personaggio; sebbene grande bozzettista, qui Saba sembra disinteressato a realizzare un ritratto esteticamente fruibile da parte del lettore. Il suo intento è di stampo, diciamo così, ontologico: non è tanto lo scialle a costituire l’elemento semanticamente più pesante, bensì la seconda parte del sintagma «delle popolane». Abbiamo già sfiorato, alla nota 25 di questo lavoro, un ulteriore rappresentante, nell’assiologia sabiana, di quell’aderenza alla verità di cui sono portatori soprattutto animali e fanciulli, ovvero il popolo; ecco che ora si chiude il cerchio: dopo esser stata paragonata ad animali e fanciulli, a Lina mancava forse soltanto quest’ultima assimilazione.] (e lo scialle, lo sappiamo, è anche il capo d’abbigliamento caratteristico di Carmen).Che poi Carmen fosse positivamente presente già allora è evidente dal cromatismo delle tende che l’apparizione di Lina solleva: il giallo e il rosso sono i colori, come dice Carimandrei, della copertina di Coi miei occhi alla sua prima pubblicazione, ma anche «i colori di Carmen»[39. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 145.].
Il riferimento a quella prosa è fecondo anche per le due strofe finali: negli ultimi versi viene ripercorso il primo incontro di persona tra il poeta e Lina, mentre la strofa precedente ci aveva raccontato di quello a distanza. Quando Fano gli parlò dell’infelice situazione della cognata, si dice nella prosa, «una voce interna gli (a Saba) disse: tu devi guarire quella donna»[40. U. Saba, Come di un vecchio che sogna, in Id., Tutte le prose, op. cit., p. 1104.], e nella poesia, sulla stessa lunghezza d’onda, l’io lirico afferma: «Parevi stanca, parevi ammalata»[41. U. Saba, Carmen, v. 28.]. Ancora, sia nella prosa che nella poesia si parla di un riconoscimento tra i due futuri sposi nonostante la mancanza di conoscenza effettiva: nella prima, Saba «non conosceva, non aveva mai veduto la Lina», eppure «capì – sentì – subito che quella, o nessun’altra, era la moglie», mentre nella seconda si legge «ma t’ho riconosciuta, io che t’ho amata». Infine, sia nella prosa che nella poesia viene descritto il sorriso che seppe guadagnarsi Saba: Lina, nella testimonianza prosastica, «rispose sorridendo» e, poco dopo, rivolgendosi a Linuccia, Saba scrive «da quel sorriso (…) sei nata, alcuni anni dopo, tu figlia mia», mentre in Carmen l’ultimo verso recita «mi sono meritato un tuo sorriso».
È probabile che tutti questi indizi, presi singolarmente, non costituiscano una base particolarmente solida, ma la loro densità in due testi così brevi pare giustificare quanto scritto, rendendo plausibile l’identificazione di Carmen con Lina. Quello che ci premeva dimostrare è, in ogni caso, l’importanza della figura di Carmen nell’iconografia sabiana; è evidente che l’analogia tra Lina e la bella gitana deve piacergli molto, se resiste così a lungo e percorre più sezioni del Canzoniere. Sono soprattutto i cambiamenti cui va incontro questa stessa analogia, che via via muta coordinate, a dirci molto sull’evoluzione di un personaggio come Lina. In definitiva, è come se il rosso scialle di Carmen si modellasse sul corpo di Lina, assecondando ogni suo movimento e adattandosi alla sua personalità.
(fasc. 16, 25 agosto 2017)