I paratesti della memoria sognante

Author di Roberto Deidier

«Quando sogniamo di sognare, siamo prossimi al risveglio», scriveva Friedrich Schlegel in uno dei suoi celebri frammenti apparsi nel secondo fascicolo di «Athenaeum»[1]. Era il luglio del 1798; il nostro maggior poeta e teorico della «rimembranza», in quel passaggio cruciale della modernità, era venuto al mondo da pochi giorni. Colui che si sarebbe variamente riverberato sulla scrittura di Bufalino, disseminandovi nel tempo le tracce inequivocabili di un rapporto improntato alla complessità, era dunque ben lungi dal disegnare quel sistema di veri e propri vettori che legano, nella sua visione, memoria, sogno, piacere, indefinito, lontananza. Chiunque si accosti allo scrittore ibleo non tarda a riconoscere che ciascuno di questi termini, preso di per sé, rappresenta a sua volta un sistema concettuale per nulla estraneo alle tematiche espresse da Bufalino di opera in opera; tutti insieme vanno a comporre un piccolo lemmario che dalle pagine dei Canti e soprattutto dello Zibaldone mette in azione una memoria in primis letteraria, che informa di sé la ricezione dell’esperienza, ne veicola la trasposizione sul piano delle metafore.

Come nella migliore tradizione siciliana, che immancabilmente dialoga con le culture di un intero continente, anche Bufalino non si sottrae al confronto; da autore che è anzitutto lettore, prende le sue accorte misure, ritaglia i suoi spazi di affinità o di distanza, reinventa un habitus e adotta categorie con cui rimescolare vita e scrittura, realtà e invenzione. È un tipico atteggiamento dello scrittore colto, consapevole di muoversi in territori “di secondo grado”; un po’ l’occulta, un po’ l’esibisce in un sapiente gioco di dosaggio delle citazioni, che resta con ogni probabilità, accanto alla modulazione della lingua, la sua cifra autoriale più vera. Del resto, una semplice parafrasi dai Fuochi fatui di Sbarbaro, in Diceria dell’untore («Poesia, altro vizio solitario» diviene nel romanzo «Pregare, altro vizio solitario»[2]) ci rimanda al senso autentico della fonte, al «vizio solitario» della poesia, ovvero della grande letteratura.

Dunque, scrivendo, Bufalino sa anche di ri-scrivere. È il suo lato sornione, quello da cui può affacciarsi l’ironia, ovvero l’esercizio del possesso come distacco, o del distacco come possesso. In gioco ci sono, ancora, il vissuto e la sua sublimazione o creazione lirica: «Niente poesia, niente realtà»[3]. Un sogno “di secondo grado”, avverte Schlegel, è già una consapevolezza: il risveglio non è lontano. E, se sogno e memoria percorrono trasversalmente l’intero impianto dell’opus di Bufalino, è altrettanto vero che il libro in cui questi vettori tematici si affrontano, s’intersecano come non mai in un incessante, ambiguo quanto fascinoso miraggio speculare resta Argo il cieco. È da qui, dopo gli incantamenti proustiani (e manniani) della Diceria, che si dovrà ripartire per un discorso più articolato sul rapporto e sulla funzionalità, oltre che tematica, dei percorsi onirici e mnestici di questa scrittura.

Argo il cieco, ovvero I sogni della memoria è il secondo romanzo di Bufalino a essere pubblicato presso Sellerio: il “finito di stampare” reca la data del dicembre 1984. In assoluta coerenza con quanto si era presentato nella Diceria, tre anni prima, anche questa edizione offre al lettore una fitta trama paratestuale, sostenuta dal titolo e dal sottotitolo (che la congiunzione disgiuntiva lascia piuttosto intendere come possibile titolo alternativo), a cui si aggiungono il risvolto di copertina, l’epigrafe iniziale, che di consueto rappresenta una forma di viatico, di chiave d’accesso e di lettura, infine l’auto-dedica. Con la sola eccezione del sottotitolo, tutti questi elementi sono già nel romanzo d’esordio e vengono a comporre un vero e proprio sistema, in cui la dominante − ciò che orienta il testo e ne determina, di conseguenza, struttura e interpretazione − sottintende, se non esibisce, una chiara matrice leopardiana. Non solo; attraverso Leopardi e i classici, tale matrice si lega, come si vedrà, all’idea stessa di poesia. Tra i due romanzi, infatti, nella vicenda bibliografica di Bufalino si colloca proprio la pubblicazione dei versi, lasciando intendere, in questo senso, una certa volontà progettuale e non il semplice caso. L’edizione, nel 1982, dell’Amaro miele per Einaudi risulta in linea con le dinamiche di simulazione e dissimulazione che l’autore mette in campo di opera in opera, confermandoci quanto il collante culturale sia dirimente nel rintracciare i profondi tratti identitari di queste scritture. Che la poesia, in Bufalino, debba intrecciarsi con la prosa è altresì testimoniato, oltre che dall’Amaro miele, dalla pubblicazione di due importanti traduzioni, con cui l’autore esibisce altri fondamentali tasselli della propria costellazione letteraria. Nello stesso anno dell’esordio, infatti, ancora Sellerio dà alle stampe le Controrime di Paul-Jean Toulet; e nel 1983, per Mondadori, appare l’opera che maggiormente segna il percorso di costruzione dell’identità autoriale di Bufalino, accompagnandolo e marcandolo fin dalla gioventù: nel febbraio di quell’anno, con una sua densa introduzione e un apparato di note ancora a sua firma, vede la luce il Baudelaire dei Fiori del male. Ho già indagato altrove l’estrema connettività fra i due generi[4], ma l’opportunità di rievocare quelle date, proprio tra il primo e il secondo romanzo, ribadisce un’evidenza intertestuale, certamente non solo a livello citazionale, quanto sul piano della fisionomia delle due voci narranti da un lato e del soggetto lirico dall’altro, e dell’autore che in esse si esprime o si cela.

La stessa tardività dell’esordio può aver imposto, per certi aspetti, l’urgenza di una chiara definizione di percorso, che da un lungo passato, com’è quello raccontato in queste prime opere pubblicate, giunge a estenuarsi in un presente ancora colmo di suggestioni. Senza ricorrere al realismo dell’esibizione diretta, Bufalino, nelle sue incessanti anamorfosi letterarie, nei suoi continui camouflages, comunica al suo «Hypocrite lecteur» il senso profondo di una fraternità, di una complicità che è anche una sfida di competenze.

Gli accessi ai due romanzi, dunque, sono inframmezzati da segnali che non possono essere ignorati e che, di necessità, dialogano tra loro, contribuendo, in ciascun libro e nel loro insieme, a quell’urgenza di marcare dei confini identitari, all’interno di uno speciale gioco di rispecchiamenti e divaricazioni tra umano e letterario. Più che mai, in Bufalino, le soglie testuali definiscono i termini e i modi entro cui la lettura si fa processo ermeneutico, stabilendo un asse interpretativo che possa prendere l’avvio da un preciso focus sui territori della tradizione e della sua assimilazione. A cominciare dal titolo, in cui la disgiunzione potrebbe non evidenziare un’alternativa ma anche valere il suo contrario, offrendo per questa via un rafforzativo, una specificazione in più: Argo il cieco ossia I sogni della memoria. Una memoria che sogna è una memoria che immagina, e questo segna, sul limine del romanzo, la possibilità di una «salvezza» per l’autore, il riconoscibilissimo G.(esualdo) che nella dedica rivolge a se stesso, su se stesso, le sue immaginifiche esplorazioni nel passato. Eppure quel titolo, nella sua stessa necessaria complessità, rappresenta già l’esercizio di una memoria letteraria, di un riferimento inequivocabile.

Nel momento stesso in cui la memoria fa la sua comparsa nel titolo, infatti, essa è già un agente implicito. Argo il cieco ovvero I sogni della memoria (con la vocale d’avvio del sottotitolo in maiuscolo, proprio a ribadirne la possibile alternativa e l’ulteriore portato informativo) presenta un deciso parallelismo lessicale e sintattico, che stabilisce una genealogia immediata; ci immette, cioè, nel sistema stesso della memoria letteraria e del suo funzionamento per un lettore eccezionalmente colto come Bufalino, di fatto ponendo lo scrittore − come in una sorta di autoinvestitura, di gioco al compiacimento − al livello di una competence alta, sicuramente all’altezza degli autori via via citati.

Come ogni pratica citazionistica, anche quella di Bufalino prende percorsi intertestuali diversi, giostrando con esibita sapienza e affettando una certa nonchalance: si procede dal richiamo per via diretta a quello più allusivo, fino alla citazione più criptica, che rappresenta una vera sfida per il lettore, spesso sottoposto, come i personaggi, a vere e proprie prove enigmistiche. La memoria letteraria agisce in modo pervasivo, dunque, determinando incontri e reazioni; eppure, nel titolo, il rimando è preciso. Proprio la congiunzione è il segnale che non lascia adito a fraintendimenti: Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia. Non è certo una sorpresa, Sciascia, modello pressoché insuperato di riscrittura. Quella parodia di conte philosophique, apparso nel 1977, non era soltanto lo specimine di un’opera che già voleva porsi “di secondo grado” rispetto all’originale di Voltaire, ma era anche il perfetto medium, quanto al titolo, per lasciar intendere una frequentazione francese condotta fin nelle stanze del contemporaneo, nota ai lettori di Sciascia e Bufalino, ma che vale la pena rievocare. Proprio Sciascia, ancora presso Sellerio e nella collana da lui stesso ideata e curata, «La civiltà perfezionata», aveva accolto nel 1979 un’opera in prosa del poeta Bonnefoy, edita in Francia nel 1967; testo complesso, di non immediata accessibilità, ibrido di intuizioni filosofiche e rivisitazioni di storia dell’arte («Luoghi o monumenti, affreschi e poesie si alternano in queste pagine. Non sono tra le più facili di Bonnefoy»[5], scriveva Mario Fusco). Il titolo è Une rêve fait à Mantoue, Un sogno fatto a Mantova. Per questa via, una semplice forma rinforzata di disgiuntiva diviene un esatto segnale, spia di un percorso intellettuale (e intertestuale) ben identificabile, lungo il quale l’originario rêve, «uno di quei bei sogni che si staccano a volte, con la precisione di un testo poetico, dai ciechi garbugli dell’inconscio»[6], si ripresenta nella specie di un’allegoria politica; quindi, in virtù delle sue applicazioni mnestiche e immaginifiche, trascende i suoi connotati in quelli di una vera e propria rêverie, un racconto che «si trucca di fiabe, e formicola di luminarie» per narrare «l’inverosimile vita»[7] a cui è indirizzata la conclusiva Preghiera, dietro le quinte:

Tu, poca, misteriosa vita, che posso dire di te? Se m’hai sempre esibito quest’aria di bambolina truccata; se non hai fatto mai nulla per persuadermi d’essere vera… Odiabile, amabile vita! Crudele, misericordiosa. Che cammini, cammini. E sei ora fra le mie mani: una spada, un’arancia, una rosa. Ci sei, non ci sei più: una nube, un vento, un profumo…

Vita, più il tuo fuoco langue più l’amo. Gocciola di miele, non cadere. Minuto d’oro, non te ne andare[8].

Sono subito identificabili, in questo brano, i processi retorici di antitesi, tipici della tradizione della lirica d’amore di stampo petrarchesco («la precisione di un testo poetico»), a cui si assimila il linguaggio formulare della fiaba («cammini, cammini»), nonché, sul piano della possibile cornice tematica, le metamorfosi di una vita proteiforme, che non procedono da una precisa trama mitologica quanto da una personale mitopoiesi. Infine, ampliando la rete tematica con una decisa proiezione interrogativa sulla natura delle cose terrene, emerge l’inquietudine metafisica sulla finitudine dell’esistenza umana, sulla caducità e fugacità del tempo, sulla loro vana illusorietà, tutto quanto viene a denotare, per l’appunto, i sentieri di un rêve pericolosamente esploso nei modi di una fantasticheria: La vida es sueño, un sogno la cui dinamicità nella creazione d’immagini, in Bufalino, è mossa da una fortissima energia mnestica e cangiante.

La pratica intertestuale ci consente, quindi, di stabilire il primato del sogno, essendo questo il termine di ricorrenza che unisce i tre titoli. È un primato semantico, ma anche di ordine strutturale. Che si tratti di visione, di utopia, di private proiezioni fantastiche, assestandosi il sogno su questi tre diversi assi, poco importa sul piano dell’esito; è sempre il sogno a costituirsi come il motore più autentico della diegesi. A patto di riconoscerne, però, una caratteristica fondamentale, per Bufalino: il sogno a cui si allude non rappresenta un’attività interna al sonno, ma è l’invenzione di un tracciato fiabesco. Insomma, per quest’autore la memoria non scaturisce dal sogno, ma crea sogni nel senso di favole illusorie, o si identifica con essi. Non è, dunque, spontanea o sensitiva, corporale, come in molti tratti della memoria proustiana, non possiede i suoi aspetti «crepuscolari»[9], legati ai momenti dell’addormentarsi o del risvegliarsi; non è, nell’accezione specifica, una réminescence. Bufalino tiene sempre all’erta il suo lettore sul fatto che la vita stessa, quella davvero vissuta e quella narrata, è in ogni caso un fatto «inverosimile», un processo mitopoietico messo in moto dalla mente, che in questo si associa alla memoria letteraria, ai travestimenti della tradizione.

È ancora il sogno che condiziona l’idea di memoria con cui Bufalino chiama il suo lettore a confrontarsi, soprattutto se, focalizzandoci su quel sottotitolo o titolo secondo, comprendiamo come quel genitivo abbia un valore duplice, mostrandosi in tutta la sua ambiguità dinamica: è soggettivo, infatti, poiché è la memoria a sognare, ovvero a intridere il sogno di «fiabe» e «luminarie», ma nel contempo è oggettivo, se quella stessa memoria, per il suo carattere di agente proteiforme, è anche sognata, ovvero rappresenta, di per sé, un sogno, nella fattispecie di un ricordo creato o distorto. Così, all’involontarietà proustiana, che determinava i processi del ricordo nel primo romanzo, si affianca in Argo il cieco un’altra specie di memoria, più volontaria: «uno scrittore infelice decide di curarsi scrivendo un libro felice»[10], incipit Bufalino, anche se quella felicità è inventata. Necessaria, come tutte le illusioni: che, in ogni caso, congiurano col ricordo a sottrarre il passato all’oblio, ad attualizzarlo, facendone un formidabile farmaco di fronte all’inevitabilità della morte, alla cancellazione definitiva. Come scriveva Franco Ferrucci, «Memoria e scrittura si aiutano a definirsi, muovendosi incontro dai rispettivi reami: il già trascorso per l’una, l’immediato fluire per l’altra»[11]. Solo inventando la memoria può imitare quella serie di reattività che sono tipiche della memoria involontaria: «terrore, credenza, gioia, dolore, desiderio, godimento ecc.»[12]. In definitiva, Bufalino sposta decisamente il significato della «memoria crepuscolare» (che già, di per sé, non viene a coincidere con la memoria involontaria) da un atto comunque fisico, legato a sensazioni corporee più o meno complesse, a una precisa, quanto dolente, stagione della vita. Così la decisione di rievocare una qualsivoglia felicità, anche d’invenzione, rende la memoria un fatto volontario; ne fa un’estetica della cura, un repouissoir contro la finitudine o contro quella sorte di morte-in-vita che è la vecchiaia incipiente; ne stilla, forzatamente, l’estrema «gocciola di miele», anche se quel miele è fittizio o, in fin dei conti, può risultare «amaro», proprio come quei gouffres amers, gli «amari vortici» su cui scivola il grande simbolo della nave, nell’Albatros baudelairiano.

Certamente il pathos del ricordo ha un carattere involontario, come poteva ammettere Leopardi riferendosi alla spontaneità che ne segna i moti associativi; a suscitare tali sentimenti è infatti

La natura purissima, tal qual è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non procurate mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella selva, quel monte, tutto da per sé, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, né ch’altri ci aggiunga perché li possa eccitare, nessun’arte ec. ec.[13]

È semmai l’attenzione, anche se minima, involontaria, a determinare in ogni caso l’azione mnestica: «non si dà reminiscenza senza attenzione», «dove non fu attenzione veruna, di quello è impossibile che resti o torni ricordanza»[14], avverte, com’è noto, Leopardi. Anche quando «l’attenzione non fu volontaria, fors’ella fu anche contro la volontà, […] ella non fu perciò meno attenzione»[15]. In cosa si traduca l’«attenzione» per Bufalino è presto detto: la decisione della cura, unitamente all’esibizione del proprio vasto sostrato culturale, provoca una vera e propria rappresentazione, una mise en espace in cui memoria inventiva, affabulatoria nel pieno senso del termine, e memoria letteraria congiurano insieme, sostenendosi di continuo l’una con l’altra. Non vi è praticamente pagina, in Argo il cieco, dove il riferimento colto, il rimando, le citazioni e le allusioni non siano esibiti al punto di lasciar intendere una strategia che percorre l’intera architettura testuale a partire dal titolo, come si è potuto osservare, e dall’esergo. Ancora Ferrucci ha sottolineato quanto quell’esibizione, se da una parte risponde a un metodo e a una tattica, dall’altra porti allo scoperto tensioni irrisolte:

Questo tipo di memoria letteraria è un fenomeno importante ma spesso fuorviante, in quanto il suo intento è diretto a esercitare un controllo sull’attenzione del lettore. In un caso del genere assistiamo a quella che definirei una messa in scena della memoria – la quale tende a basarsi sulla trasparente riconoscibilità della fonte. La messa in scena della memoria stabilisce così una sorta di crosta referenziale. Sotto di essa si celano altri strati di memoria letteraria che chiamerò memoria profonda; e una loro caratteristica è di manifestarsi come intrusione nel (e aggressione del) testo.

Anche nel caso dei ricordi letterari questa memoria è quasi sempre legata a reminiscenze con le quali l’autore ha un rapporto potente ma irrisolto, o ideologicamente o esteticamente, o tutt’e due[16].

Bufalino inscena un suo teatro mnestico, coinvolgendo atto immaginativo e tipologie diverse di memoria letteraria: certamente la prima rievocata da Ferrucci, con cui gestisce la risposta del lettore, tenendola su una soglia sempre vigile, ma anche la «memoria profonda» attraverso cui il testo rivela, nelle sue nevrosi latenti, nelle idiosincrasie, nelle ossessioni a cui il narratore non sa sottrarsi, quanto quella teatralità costituisca un espediente poetico per voltare le spalle all’impoeticità del presente. Gli viene incontro e lo sostiene, ancora una volta, il concetto leopardiano di «rimembranza», in quel passo dello Zibaldone che ogni lettore ricorda: «La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago»[17].

Risulterà così più chiaro cosa rappresenti il «poetico» per Bufalino, se non bastassero le affermazioni che possiamo ritrovare nelle pagine introduttive a quel potente polo di tensione rappresentato proprio da Baudelaire. L’autore delle Fleurs du mal «è un poeta che pare impegnare nell’esercizio della scrittura le ragioni stesse della sua sopravvivenza e che scommette su ogni verso come se stesse premendo il grilletto di un’interminabile roulette russa». Il suo è «lo sforzo di promuovere la sofferenza a parola»[18]. Non può sorprendere, allora, che un lettore come Bufalino potesse portare in sé, come il suo poeta (che pone proprio in linea ideale con Leopardi e Puškin), una miriade di rimembranze: «D’un vecchio di mill’anni ho più ricordi», traduce il primo verso di Spleen, «J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans», introducendo una parola estranea all’originale, con cui esplicita, nei termini di una poetica già sedimentatasi, quello che sarà il percorso del romanzo a venire: «vecchio». È un vecchio, nelle pagine di Argo il cieco, a rievocare un passato fantastico e giocoforza felice; e, proprio in quanto felice, necessariamente breve. Lo spazio di un’estate lontana, durante la quale felicità significò anche gioventù: «Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno»[19]. L’ordine sintattico dei due concetti è altrettanto evidente e rivela, se ancora ce ne fosse bisogno, una marca leopardiana.

Il primo ricordo, in esergo al romanzo, stabilisce una connessione tra l’autore e il narratore, e proviene naturalmente dalle regioni della letteratura. Anche il titolo primo del romanzo fa riferimento a quella citazione d’apertura, che assume le funzioni di un viatico, di una chiave d’accesso ineludibile. È altrettanto plausibile, seguendo il ragionamento di Ferrucci, che l’esibizione della memoria letteraria, proprio in quanto tale, possa alla fine risultare fuorviante, spostando l’asse dell’attenzione tutto dalla parte del lettore; eppure, nel caso di Bufalino e in particolare di questo romanzo, si prende subito consapevolezza, per la complessità dell’apparato paratestuale, del gioco en travesti che in esso si compie. Se la vita stessa è «inverosimile», si accetta lo scacco e con esso le maschere della scrittura, le sue fantasticherie. Nel titolo è la sostanza stessa del romanzo, corroborata dalla citazione: il nesso tra i due paratesti, infatti, è anche di ordine strutturale, poiché la sostanza dell’opera affonda a sua volta nel mito, ovvero nella proiezione mitica di una vita immaginata. Che lo sfondo di quella vita sia offerto dalla gioventù, è un dato che ancora riconduce l’interpretazione verso una forma di “originarietà” esistenziale, di dimensione primigenia, aurorale, con cui Leopardi intona con decisione il suo controcanto rispetto alla modernità.

Bufalino spiega al lettore, attraverso quell’esergo, il senso profondo e del titolo e del romanzo stesso; ne rivela, insomma, il vettore più efficace. Una memoria declinata attraverso il mito non può che essere una memoria sognante. G. veste i panni di Argo, e il sogno si pone sullo stesso piano della cecità, ovvero del «poetico»; quel territorio dove l’immaginazione può spaziare liberamente, ricreando una vicenda per il lettore e rinvenendo una «salvezza» per l’autore. L’impedimento visivo è proprio la condizione che consente lo sprigionarsi immaginifico; con essa, Bufalino allestisce la sua formidabile siepe dell’Infinito e si avvia all’esplorazione di una gioventù dove realtà e invenzione intessono un rapporto di totale reciprocità, un gioco delle parti.

C’è di più: il nesso che unisce il personaggio mitologico alla memoria (e dunque pone sullo stesso piano di legittimità titolo primo e secondo, ancora confermando quanto la disgiuntiva risponda a un rafforzativo) è dato proprio dalla marca leopardiana dell’«attenzione». Tale marca è nella trama stessa del mito ed è sottolineata da una posizione decisamente antitetica: Argo è il mostro dai cento occhi, Panoptes, posto da Era a guardia di Io quando fu tramutata in giovenca. È dunque un bovaro: il suo segno distintivo è offerto proprio dall’attenzione, dal moltiplicarsi oltremisura dell’organo della vista (il corpo è interamente ricoperto di occhi) piegato alla funzione di sorveglianza. Eppure questo grado massimo dell’attenzione, in Bufalino, è subito rovesciato nel suo opposto, nella condizione poetica della cecità, perché quella stessa attenzione, lungi dall’essere contraddetta, possa piuttosto ampliarsi, arrivando a estendersi nelle regioni del non visibile, di ciò che può essere soltanto prodotto dall’immaginazione. E, se la vista viene meno, gli altri sensi possono in qualche modo affinarsi per compensarne la perdita, o l’impedimento può trasformarsi in uno straordinario vettore per scatenare il potere dell’immaginazione. Bufalino prende questa seconda strada.

Nel racconto del mito che ci ha tramandato Ovidio, Argo il mostro viene ucciso da Hermes, «il dio di Cillene», che proprio con l’arte della poesia (musica e narrazione) induce il bovaro al sonno per poterlo infine colpire. Siamo ai versi 720-721 del I libro delle Metamorfosi: «Arge, iaces, quodque in tot lumina lumen habebas, / extinctum est, centumque oculos nox occupat una». Dunque l’epigrafe spiega, illustra, motiva il titolo di cui è didascalia. Il poeta, nell’arco di due soli versi, ricorre alla variazione (luminaoculos), all’antitesi (lumen/nox) e alla figura etimologica (lumina lumen) per evidenziare, con efficacissimo risultato iconico, la centralità della vista e il dramma della sua perdita. Nella traduzione di Guido Paduano lumen, cioè l’occhio stesso, è reso con «sguardo», non senza una certa venatura stilnovistica che risulta infine molto coerente con la tematica sentimentale del romanzo di Bufalino (basti il ricordo del «lume de’ begli occhi che mi strugge» di Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 264):

«Tu, giaci, Argo: è spento lo sguardo che avevi in tanti / sguardi, i tuoi cento occhi li invade una sola notte»[20]. Eppure il lessema lumen ricopre una vasta area semantica, dove la vista non occupa un posto di prim’ordine nella scala semica: dal significato primario di ‘luce’, ‘lume’, si trascorre verso quello di ‘colore luminoso’, ‘splendore’, a quelli più metaforici di ‘giorno’ e addirittura ‘vita’, prima di giungere allo specifico narrato nel mito; a cui si può aggiungere, proseguendo non senza ulteriori suggestioni ermeneutiche, ‘chiarezza’, come riportato da Cicerone con riferimento a Simonide, nel De oratorehac tum re admonitus invenisse fertur ordinem esse maxime, qui memoriae lumen adferret»; «si dice che abbia scoperto che è soprattutto l’ordine che fa chiarezza alla memoria», 2. 353). Il lessema, pertanto, è caratterizzato da una forte metaforicità, corroborata dalla tradizione: sia quella della letteratura cortese, per cui l’innamoramento passa necessariamente attraverso lo sguardo come in effetti accade a G.; sia quella, più remota, ma non meno importante nella costellazione di Bufalino, della classicità, peraltro esibita. Entrambi questi assi di riferimento compongono un microsistema, concettuale e narrativo, dove memoria, vista, innamoramento, focus sul passato sono veicolati dall’attenzione, che cede presto il passo all’immaginazione, ovvero ai «sogni».

Perché questo accada, prendendo la strada del poetico, Argo dev’essere ucciso, come nel mito, perdendo per sempre la facoltà visiva. G., o meglio la sua proiezione narrante, si aggira di capitolo in capitolo come un cieco che si affidi in toto al filtro deviante del sogno: la sua inconsapevolezza amorosa vibra tra l’assoluto e il patetico, fra il teatrale e l’immaginato. L’intero romanzo, in questo senso, può essere letto come la palinodia, compiaciuta e letterariamente sostenuta, di una vita sentimentale solo presunta, ed è presunzione della gioventù: anch’essa presunta e ormai, di fatto, declinata. Per questo lo sguardo sul passato si è fatto cieco, e tale condizione consente ogni slittamento verso il sogno, a contrastare la pochezza della vecchiaia e la contiguità del presente con la morte. Come appuntava Leopardi, «Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto»[21]. Lo spazio letterario di Bufalino viene così a configurarsi nell’inesorabile necessità di una dilatazione immaginifica, rivolta da un lato verso il tempo mitico per eccellenza, quello della gioventù; dall’altro verso quelle finzionalità prodotte dalle tradizioni a cui liberamente attingere, ma sempre allo scopo di eclissare la terribile equazione di partenza: «tutto il vero è brutto».

Come Ovidio è esibito nel titolo, così Leopardi è espressamente evocato nel quarto dei paratesti che viene a chiudere il sistema rappresentato dal titolo, dall’esergo, dalla dedica, ovvero il risvolto di copertina, a firma dello stesso autore («g. b.»):

Scrive Leopardi in un luogo della sua Storia del genere umano: «E Giove seguitò dicendo: avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che chiamano Amore». Non diversamente il protagonista di queste pagine (lo stesso autore, forse; ma forse no, a dispetto della coincidenza onomastica), assediato dall’inverno in un albergo romano, rievoca, per medicina dei suoi accessi d’angoscia, antiche venture di cuore nel Sud, al tempo della gioventù. Ne risulta uno sdoppiarsi dell’io parlante in due città ed età diverse sotto due maschere alterne, in altalena perpetua fra abbandono e impostura, sfogo ingenuo e farnetico astuto. Un diario-romanzo, insomma, che via via può leggersi come ballata delle dame del tempo che fu, o come Mea culpa di un vecchio che vanamente si ostina a promuovere in leggenda, attraverso ilarotragici ingranaggi di parole, la sua povera «vita nova».

Gli ingredienti – e i vettori – del romanzo sono pressoché tutti dichiarati, nonché la sua possibile affiliazione di genere: un diario-romanzo, assai affine, nella sua alternanza di voci tra vecchiaia e gioventù, alla struttura del Bildungsroman. A partire dalla citazione leopardiana che riconduce l’idea di «Amore» (in senso assoluto, con la maiuscola) a un «fantasma». Anche questo lessema, a sua volta, si scompone in una scala semica complessa, passando dal significato più comune di ‘spettro’ a quello di ‘immagine’ prodotta dalla fantasia. È dunque, ancora con lessico leopardiano, un’«illusione», peraltro sottoposta a quel processo correttivo di superamento della cornice stilnovistica. Proiettata, infatti, nella lontananza di una gioventù sognata, si rivela, ai sensi della «cura», come un ennesimo «giovenile errore / quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono» (Rerum vulgarium fragmenta, 1). Il dato è suggerito dal riferimento finale alla Vita nuova, modello di divaricazione tra letteratura e vita, di letterarietà sospinta oltremisura. Bufalino deve aver preso alla lettera quell’«in parte» e lo ha ampliato nella fantasticheria del romanzo, senza rinunciare, però, a una felicità fittizia e comunque distante. Di quella proiezione in «G.» ha fatto, in definitiva, un formidabile vettore metatestuale: se Argo il cieco è la sua Vita nuova, allora il romanzo viene a chiudere il tracciato di poetica che Bufalino disegna al momento del suo esordio, tra il 1981 e il 1984, esibendo un’identità sostanzialmente votata alla poesia, quell’«altro vizio solitario» che l’autore della Diceria ha per l’appunto voltato in «preghiera». L’ultimo brano di Argo il cieco è proprio quella Preghiera, dietro le quinte con cui la poesia si rivela in grado di sostituirsi a una vita, per quanto «misteriosa», e di sospendere il «minuto d’oro» della rimembranza, ovvero dell’invenzione.

Se Amore è un fantasma, è il risultato di quell’invenzione: un sogno messo in scena, un teatro mnestico, un’immagine fantastica. Una cosa non vera; ma «le cose che non sono», già in Leopardi, non corrispondono «alle cose ‘non vere’; piuttosto, alle cose che, di volta in volta, non sono attualmente presenti all’evidenza sensibile, senza per questo essere prive della possibilità di esistere»[22]. Bufalino recepisce quella sorta di ars inveniendi proprio alla stregua di un teatro sognato, di un «rischio della mente»: «Persino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del teatro ad occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso pervertirlo in un rischio della mente»[23]. Solo evocando il proprio personale palcoscenico di fantasmi, G. può agire i segnali di quella «vita nova», spia di una sublimazione estetica che viene a rappresentare il solo spazio possibile per quell’ombra di felicità vanamente inseguita, riscattando il ricordo degli errori di gioventù attraverso l’invenzione. La parabola stilnovistica si è infine compiuta tra iperletterarietà e memoria sognante; e, se la seconda è diretta conseguenza di quella (prima il richiamo al mito, quindi la sua definizione: Argo il cieco ovvero I sogni della memoria), il romanzo può essere letto come lo sviluppo di quell’«assuefazione», che per Leopardi è il mezzo con cui la memoria può imitare o contraffare il vissuto:

La memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacché ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi contraffacendole); e acquistano l’abilità di farla mediante un’apposita e particolare assuefazione[24].

Una «particolare assuefazione», ovvero il «vizio solitario» della poesia-preghiera, che consente a Bufalino non solo di motivare la sua speciale spinta mnestica, ma anche di incorniciarne il risultato nell’aura di quel moto sognante, che è un formidabile patto narrativo con se stesso, prima che con il lettore:

Che la vita degli uomini sia soltanto un sogno, l’hanno pensato in molti, e anche a me capita continuamente di sentirmi attirato da questa sensazione. Quando vedo la limitatezza in cui sono prigioniere le energie fattive e sperimentali dell’uomo… quando vedo come ogni azione tenda alla soddisfazione di bisogni che altro scopo non hanno se non quello di allungare la nostra misera esistenza, e per giunta che ogni appagamento riguardo a certi punti della scienza non è che una sognante rassegnazione, un dipingere le pareti fra le quali siamo incastrate di figure variopinte e di scorci luminosi, ecco, tutto ciò […] mi fa restare di sasso. Mi ripiego in me stesso, trovo il mio mondo! daccapo fatto più di presentimenti e oscure voglie che di realtà e energie vive[25].

Potrebbero essere parole di G., ma sono tratte dal Werther. A quei «presentimenti», a quelle «oscure voglie» Bufalino ha concesso, nei termini della fantasticheria, delle precise coordinate spaziali e temporali, proiettandoli nella contea di Modica, nel lontano 1951. E, se «i sogni della memoria» procedono, in senso imitativo e contraffattivo, da un’assuefazione letteraria, che ne rende sempre più remoto lo sfondo, restano solo da indagare i modi con cui la lingua di Bufalino può esprimere le ossessioni di G., infine indirizzandolo verso una «salvezza» anch’essa fittizia. Ancora dal Werther:

Guglielmo, cosa sarebbe mai per il nostro cuore un mondo senza amore? Una lanterna magica senza luce. Ma appena vi si introduce il piccolo lume, ecco che sulla tua parte bianca appaiono le immagini più sgargianti! E anche se non fossero che fantasmi evanescenti, la cosa ci fa pur sempre felici quando ce ne stiamo davanti come tanti ragazzini a guardarli e andiamo in estasi di fronte a quelle prodigiose illusioni[26].

Si tratta di un passo importante, poiché, oltre a stabilire delle possibili analogie interpretative, commutando per Bufalino i termini di una dinamica stilnovistica entro i modi di una rielaborazione romantica della tematica amorosa, illustra − con una cinetica immaginifica per molti aspetti assimilabile al teatro fantasmatico di G. – come la dimensione del lontano, della proiezione onirica consenta il riaccendersi di quel «piccolo lume», in grado di far luce tra le asperità del presente e di spostare l’attenzione, anche se per la durata di un racconto, verso una felicità che può manifestarsi nonostante tutto, ma che rappresenta anche un’insidia: «Uno spettro s’aggira per le strade della Sicilia ed è la mia gioventù»[27], ammette Bufalino. Siamo al capitolo XI di Argo il cieco, quando, tra i vari fantasmi finora evocati, appare anche quello del padre, in un breve, ma intenso descensus ad Inferos che si offre come un’investitura, come un passaggio del testimone. G. rievoca la radice della propria cinetica immaginifica:

Mi sbigottisce sempre, a pensarci, il cimitero innumerevole dei minuti: ognuno simile a un moto d’onda, a un’ondulazione d’onde nel mare. Che muore, rinasce, di cui non rimane memoria. Allora mi viene in mente mio padre. «Ho il cuore scuro» mi diceva certe mattine. E io: «Perché?». «Per niente» mi rispondeva. Ma poi si correggeva: «Per i ricordi, sono stato a cinema stanotte». E intendeva dire, dei ricordi, come aveva combattuto con essi nel sonno tutta la notte. […] Dunque io che posso dire, io figlio di mio padre? Se coi ricordi, con le loro menzogne, malizie, disguidi ecc. combatto e perdo da sempre, sanguino e perdo, sanguino e combatto?…[28].

Dunque, come procede la «lanterna magica» di Bufalino? La caratura dell’immaginazione non è certo quella di un’attività fantastica spinta a oltranza, quanto quella di una finzione, proprio nel senso di racconto. Il cinema notturno dei ricordi, variante del teatro mnestico, è il solo luogo in cui attivare un cerchio di tensioni agonistiche che si contrapponga al fluire inconsapevole della vita fisica, all’alternarsi di morte e rinascita: quel moto perpetuo che nulla deve ad alcuna logica del cuore. Un moto che Bufalino ricostruisce nel modo che gli è proprio, tra adesione a una felicità immaginata e presa di distanza dalle «menzogne». La natura non ha memoria, ma per G. Eros pretende, nel suo progressivo sottrarsi, di essere rievocato, tra «immagini sgargianti» e «fantasmi evanescenti», nuovamente avocando a sé, proprio per la durata di un racconto, le vittime che il tempo, nel suo spietato e concreto compiersi, sta già conducendo altrove.

  1. F. Schlegel, Frammenti, 288, in Athenaeum, a cura di G. Cusatelli, E. Agazzi, D. Mazza, postfazione di E. Lio, Milano, Bompiani, 2008, p. 192.
  2. G. Bufalino, Diceria dell’untore, Palermo, Sellerio, 1981, p. 49; C. Sbarbaro, Poesia e prosa, a cura di V. Scheiwiller, pref. di E. Montale, Milano, Mondadori, 1979, p. 138.
  3. Ivi, frammento 350, p. 204.
  4. Rimando al mio contributo Bufalino dalla poesia al romanzo, in R. Deidier, Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno, Palermo, Sellerio, 2012, pp. 54-69.
  5. M. Fusco, Introduzione, in Y. Bonnefoy, Un sogno fatto a Mantova, trad. it. di D. Grange Fiori, Palermo, Sellerio, 1979, p. XII.
  6. Ivi, p. 37.
  7. G. Bufalino, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, Palermo, Sellerio, 1984, p. 11.
  8. Ivi, p. 206.
  9. Di «memoria crepuscolare» ha parlato Geneviève Henriot nel suo articolo Le Mille e una memoria di Marcel Proust (www.item.ens.fr/articles-en-ligne/le-mille-e-una-memoria-di-marcel-proust/), con preciso riferimento ai «ricordi spontanei dell’addormentamento e del risveglio che, visto la loro ora, potremmo qualificare di ‘crepuscolari’»; «le illusioni del corpo intorpidito e sonnolento fecondano lembi di racconto ben caratteristici nell’universo della Recherche: le scene di risveglio» [corsivi nel testo].
  10. Ivi, p. 11.
  11. F. Ferrucci, Memoria come immaginazione in Leopardi, in «Lettere italiane», 4 (XXXIX), ottobre-dicembre 1987, p. 502.
  12. G. Henriot, Le Mille e una memoria di Marcel Proust, art. cit.
  13. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 15-16. Su questo preciso aspetto rimando al bel saggio di F. Camilletti, Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze, in «Italianistica», 2 (XXXIX), maggio-agosto 2010, pp. 41-66.
  14. Ivi, 3737, 20 ottobre 1823.
  15. Ibidem.
  16. F. Ferrucci, Il formidabile deserto. Lettura di Giacomo Leopardi, Roma, Fazi, 1998, pp. 119-20. Corsivi nel testo.
  17. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, op. cit., 4426, 14 dicembre 1828.
  18. G. Bufalino, Introduzione, in Ch. Baudelaire, I fiori del male, trad., introd. e note di G. Bufalino, Milano, Mondadori, 1983, pp. V-VI.
  19. G. Bufalino, Arco il cieco ovvero I sogni della memoria, op. cit., p. 13.
  20. Ovidio, Le metamorfosi, trad. di G. Paduano, introd. di A. Perutelli, Milano, Mondadori, 2007, p. 45.
  21. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, op. cit., 1521-1522, 18 agosto 1821.
  22. A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni, Napoli, Liguori, 1996, p. 86. Corsivi nel testo. Mazzarella si spinge a parlare, per Leopardi, della configurazione di un’ars inveniendi, con riferimento alla relatività della conoscenza.
  23. G. Bufalino, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, op. cit., p. 45.
  24. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, op. cit., 1383, 24 luglio 1821.
  25. J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, intr. di F. Fortini, trad. it. di A. Busi, Milano, Garzanti, 1983, p. 11.
  26. Ivi, pp. 36-37.
  27. G. Bufalino, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, op. cit., p. 131.
  28. Ivi, pp. 130-31.

(fasc. 40, 5 ottobre 2021)