Il cavaliere presbite. Bufalino il Meschino?

Author di Davide Savio

Prima dell’edizione Bompiani del 1993, Il Guerrin Meschino esce con una piccola sigla di Catania, Il Girasole di Angelo Scandurra. È sostanzialmente una plaquette, non venale, di sole 77 pagine, che viene stampata con una tiratura limitata a 399 esemplari: una strenna natalizia, di fatto, dichiaratamente allestita «solo per gli amici»[1]. Si tratta di una prassi cui Bufalino si affida spesso[2], ma qui la scelta diventa ancora più significativa perché il libro riveste per il suo autore un preciso valore privato e insieme testamentario. Una funzione che si trova confermata nell’ottobre del 1993, dopo l’uscita del volume Bompiani, quando Bufalino si decide addirittura a presentare Il Guerrin Meschino al pubblico di Comiso. In un’intervista dice, infatti: «Io non ho mai presentato libri miei prima d’ora, nemmeno a Comiso. Questo però penso sia il mio ultimo libro (salvo la pubblicazione di inediti che potranno venir fuori in seguito) e vuole essere una specie di saluto e di commiato alla mia carriera e anche alla mia città; e agli amici», di nuovo, «che mi hanno accompagnato negli anni»[3].

I tre elementi ora menzionati, la carriera, la città e gli amici, costituiscono i fattori dell’identità di Bufalino: la carriera, cioè la storia personale, di insegnante e di scrittore, dalla quale non vanno disgiunte le letture, parte integrante di una biografia che per statuto è anche fiction; la città, da intendersi non come metropoli ma come territorio, con tutte le sue implicazioni in rapporto all’antropologia siciliana; e infine gli amici, cioè soprattutto quel pubblico ideale, raccolto, ristretto, slegato da logiche editoriali e commerciali, al quale l’autore si è sempre rivolto. In questi anni, Bufalino coltiva il sogno di stampare a sue spese tutta la propria opera, in mille esemplari, e di distribuirne 500 copie alle biblioteche e 500 copie proprio a quelli che lui chiama i lettori «conosciuti», «selezionati», «le persone più amabili del suo carnet d’indirizzi»[4].

La presentazione pubblica che Bufalino si decide a fare per il suo Guerrin Meschino colloca il libro nell’orizzonte di una memoria condivisa, comunitaria, anche se nella piccola comunità di Comiso a cui lo scrittore appartiene: dunque, l’«intimità collettiva» di cui parla in Museo d’ombre, scaturita da una «complicità di sangue»[5]. Questa cornice, tuttavia, crea uno strano paradosso se si guarda al romanzo, che invece è il racconto di un’orfanezza, di una profonda solitudine e di un’incomunicabilità pressoché assoluta. Occorrerà essere più precisi: si sta parlando del Guerrin Meschino di Gesualdo Bufalino, perché invece il Guerrin Meschino originale, il romanzo scritto da Andrea da Barberino all’inizio del Quattrocento, è una storia di segno esattamente contrario, pur a parità di protagonista: Guerrino, figlio di Fenisia e del re di Durazzo, Milone, il quale a sua volta è zio di Alda la bella, la moglie di Orlando (la vicenda orbita alla periferia del ciclo di Carlo Magno). Nel racconto medievale, Guerrino non fa in tempo a conoscere i suoi genitori perché, poco dopo la sua nascita, i turchi si impadroniscono della città, fanno prigionieri Milone e Fenisia e costringono la bàlia del neonato a fuggire con il piccolo verso Costantinopoli. Lì Guerrino cresce, entra alla corte dell’imperatore e si distingue per le sue virtù cavalleresche, ma rimane sempre un meschino, un orfano di origine incerta, dato che la bàlia, l’unica a conoscere la sua identità, era morta già durante un attacco dei pirati, mentre scappava da Durazzo. E quindi, una volta armato cavaliere, Guerrino si mette in viaggio per ritrovare i genitori, di conseguenza per riattivare la dimensione della memoria, biologica e familiare.

Fino a questo punto, Bufalino segue fedelmente la traccia di Andrea da Barberino, ma d’ora in avanti si cominciano a vedere le differenze tra i due libri[6]. Nel romanzo quattrocentesco Guerrino vive una miriade di avventure e disavventure, ma al termine della sua erranza rintraccia i genitori, li libera e si insedia sul trono di Taranto, che un tempo era appartenuto al padre; nel frattempo si sposa con Antinisca, dalla quale ha diversi figli. Quella raccontata da Andrea da Barberino è, quindi, una storia esemplare e compiuta, a lieto fine. Proprio l’opposto, come si diceva, accade nel romanzo di Bufalino: Guerrino invecchia viaggiando, incontra Antinisca ma la abbandona per proseguire la sua ricerca, che comunque rimarrà senza frutto. Giunto ai confini del mondo, si rende conto che «gli gioverebbe ormai più il soccorso d’un figlio che la benedizione d’un padre» e nell’ultima pagina prende coscienza di non essere altro che una marionetta, mossa da un burattinaio invisibile[7].

In quel momento è il burattinaio stesso a porre fine all’esistenza di Guerrino, rompendogli «la noce del collo»[8]. Azione che compie fuor di metafora: tutta la storia, infatti, è stata raccontata da un vecchio cuntastorie di piazza Carbone, a Palermo, uno degli spazi che tradizionalmente ospitavano i teatrini ambulanti per l’intrattenimento del popolo[9]. A questo livello, cioè al livello della cornice, Guerrino non è che una marionetta del teatro dei pupi. Ma l’essere vecchi e prossimi alla morte è un dato che accomuna tutti gli attori in gioco, rendendoli a prima vista sovrapponibili: il personaggio Guerrino; il puparo, che dichiara apertamente «Sono io, Guerrino il Meschino»[10]; e Bufalino stesso, che dietro le quinte regge i fili di questo sofisticatissimo teatro dell’identità. Il primo aspetto importante da mettere in rilievo, quindi, è questo: Bufalino prende congedo dal suo pubblico di amici proiettando la propria immagine, o meglio la propria ombra, sul vecchio puparo e soprattutto su Guerrino, che diventano i suoi alter ego. Se l’io si triplica, però, si è detto che questo io è poi sottratto alla socialità: è un personaggio che ha fatto il vuoto attorno a sé, ha fallito davanti al destino, e in questo senso appare pienamente moderno. Non solo: impossibilitato a essere figlio e incapace di diventare padre, Guerrino risulta un uomo totalmente privo di identità. Non è la prima volta che Bufalino si colloca dalla parte di ciò che è morto o sta morendo, avendo anzi deciso di recitare nella letteratura occidentale la parte del «guardiano a spasso d’una incenerita Alessandria»[11]; ma scegliere questo libro per prendere commiato dai propri lettori è un’operazione che può apparire molto strana: se di testamento si tratta, potrebbe sembrare un testamento radicalmente nichilista, che racconta la vita nella chiave della non appartenenza, della non memoria.

È lecito ritenere che non fosse questa l’intenzione di Bufalino, per quanto appartato e solitario lui potesse essere, come uomo e come scrittore. Allo stesso tempo, si può forse dimostrare che il discorso sulla memoria condotto nel Guerrin Meschino non ha niente di antiquario, anzi parla del mondo che l’uomo contemporaneo abita, qui e ora[12]. Bisogna allora innanzitutto porre attenzione alla cronologia: Bufalino esordisce pubblicamente come narratore nel 1981, con Diceria dell’untore, quindi di fatto la sua produzione si colloca tutta oltre la linea di faglia del postmoderno. Il quale, in Italia, assume caratteri ben diversi da quelli che si riscontrano in America o altrove: se postmoderno e globalizzazione coincidono, come diceva Jameson[13], la reazione italiana al fenomeno è stata davvero poco ludica e ha portato spesso gli scrittori a riscoprire (talvolta persino a fingere) la propria appartenenza territoriale, locale, come risposta all’omologazione che il capitalismo su scala globale ha imposto, al prezzo di una tragica estinzione delle civiltà autoctone[14]. Alessandro Pizzorno, in questo senso, ha segnalato che il termine “identità” è entrato molto tardi nella riflessione delle scienze sociali, solo verso la fine degli anni Sessanta, ma in compenso si è imposto subito al centro del panorama: tanto che, con una formula di Wendy Brown, risulta ormai legittimo parlare del presente come di un’“epoca dell’identità” (Age of Identity)[15].

Beninteso: è in questione un’identità che si cerca di difendere a tutti i costi proprio perché sta scomparendo, o perché in certi casi è già scomparsa. Come nel caso di Bufalino, appunto, apparentabile a un «Noè che, dopo il diluvio, per non scordarsi del mondo, ne andasse investigando i rimasugli sommersi dentro la sabbia», secondo il progetto post-apocalittico di Museo d’ombre[16]. Il Guerrin Meschino è un omaggio pressoché postumo al teatro dei pupi, che tanta parte aveva avuto nella cultura popolare siciliana e nella formazione dell’immaginario di Bufalino, fin da quando, da ragazzino, assisteva agli spettacoli di piazza, facendo di Guerrino il proprio idolo. Il cinema e la televisione, insieme a tutti i cambiamenti che dopo il boom economico hanno radicalmente trasformato la sostanza del popolo, i suoi gusti e le sue aspettative di fruizione, hanno relegato quella forma di intrattenimento alla marginalità di un divertissement per turisti. Nel 1991, quando Bufalino pubblica Il Guerrin Meschino, il teatro dei pupi è praticamente estinto: può sopravvivere solo come fantasmagoria d’antan, come ombra, e solo nel palazzo infestato della memoria.

In questo senso, non è tanto Bufalino a ritrovarsi senza identità, ma è la Sicilia stessa, non diversamente dal resto dell’Italia, che ormai ha smarrito il proprio spessore antropologico. È la letteratura, allora, che si fa carico di salvaguardare questa civiltà, e lo fa per il tramite della memoria, anche a costo di cristallizzare, di musealizzare il passato: in un Museo d’ombre, appunto. Diventa, quindi, più chiaro come mai Bufalino, nella Nota che conclude Il Guerrin Meschino, si attribuisca «una vista presbite, sicura delle lontananze» e invece «incredula del presente»[17]. Meglio si spiega anche la ragione per cui lo scrittore pensasse di donare 500 copie della sua opera omnia alle biblioteche. In quell’intervista, che viene pubblicata su «Tuttolibri» pochi giorni dopo la sua scomparsa, Bufalino mette a confronto proprio la dimensione effimera del mercato editoriale, che istiga a cestinare un libro durante o dopo la lettura, con quella duratura delle biblioteche: «che almeno una copia stia lì», come espediente di «sopravvivenza» per il libro e per l’autore che vi sono conservati[18]. Non meno che con la morte, per Bufalino la letteratura ha dunque a che vedere con la permanenza, con la durata. Il concetto si può girare anche in un altro modo: forse solo la letteratura ha questo potere, di rimanere viva, vitale, attuale, andando oltre la fine biologica degli scrittori, ma anche oltre la fine della civiltà in cui essi erano inseriti.

A questo punto, si tratta non solamente di mettere in salvo un’eredità del passato, ma soprattutto di scegliere cosa portare in salvo. La salvaguardia della propria identità non può mai essere un gesto integralista: quella, semmai, è la traccia retorica dei nazionalismi o dei populismi. In questo senso, come hanno fatto notare in molti, è prudente evitare la metafora delle radici: parola «pericolosa», dice Massimo Montanari, che rischia di trarre in inganno, al pari di “identità”, che, come avverte Francesco Remotti, è una «parola avvelenata», un falso mito[19]. L’identità di fatto è sempre in movimento e la memoria, dal canto suo, è sempre selettiva: se non facesse selezione non funzionerebbe, come ricorda Borges nel racconto Funes el memorioso. Ma è un tema che già affrontava Cicerone nel De oratore, parlando dell’eccesso di memoria di Temistocle, che avrebbe voluto apprendere una tecnica per dimenticare. E ancora ne parla Nietzsche nella seconda delle Considerazioni inattuali, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), sostenendo che «per ogni agire ci vuole oblio»[20].

«Si scrive anche per dimenticare», afferma Bufalino in Cere perse, enunciando Le ragioni dello scrivere che lo muovono[21]. Questo nel Guerrin Meschino appare con evidenza: Guerrino non fa attrito con il mondo perché il passato gli fa da zavorra. La sua identità è rigida: è quella lignificata di una marionetta, appunto[22]. E proprio il ricorso metaforico al teatro dei pupi mostra un Bufalino estremamente attento rispetto al materiale che dovrebbe restituire la sua identità siciliana. Al di là dell’uso abbondante che se ne è fatto in letteratura, da Verga a Pirandello in avanti, bisogna ricordare che quello dei pupi non è storicamente un intrattenimento di tutto il popolo, ma solo dei ceti più umili, di quella che Giuseppe Pitrè nell’Ottocento definiva la «poco igienica sfera sociale»[23]. È proprio lui, tra i primi, a ricordare che l’opra dei pupi rappresentava uno spettacolo fortemente divisivo, perché trasmetteva a un pubblico composto in buona parte da ragazzi analfabeti dei valori non esattamente allineati con la morale comune, borghese: l’onore cieco, lo spirito di ribellione verso l’autorità, la legittimità e a volte la necessità del ricorso alla violenza, la lealtà feudale al proprio capobastone… Tutte cose compatibili con il codice e la pedagogia della mafia, che infatti dell’immaginario cavalleresco si appropria[24].

Su questo, però, Bufalino prende posizione, ed è un fatto tutt’altro che scontato, per un letterato cui si rimproverava di tenersi troppo fuori dal discorso pubblico. Lo fa sul «Corriere della Sera», il 23 maggio del 1993, pubblicando un componimento dal titolo Fuoriscena del vecchio puparo. Versi per anniversario, che riprende dal Guerrin Meschino il personaggio dell’oprante per celebrare i giudici Falcone e Borsellino, a un anno esatto dalla morte del primo. E lo fa nella nuova edizione del Guerrin Meschino, uscita nell’ottobre dello stesso anno con Bompiani, dove la poesia confluisce con un diverso titolo: Chiuso per lutto (23 maggio 1992; 19 luglio 1992). Qui collocato, il testo guadagna un rilievo ancora maggiore, perché il vecchio puparo, e con lui Bufalino, afferma esplicitamente di non poter continuare la sua recita, per la necessità di riflettere sul sacrificio di quelli che definisce «poveri paladini in borghese, / poveri cadaveri eroi, / di cui non oso pronunziare il nome»[25]. Quindi non sono i mafiosi, ma i magistrati che combattono la mafia, a incarnare le autentiche virtù cavalleresche[26]. E per dare un ulteriore giro di vite al concetto, Bufalino fa pentire lo stesso Guerrino per la scia di violenza che ha provocato: «un omicida son io, da arrolarmi con quelli del Veglio della Montagna […]. Ho pietà perfino dei poveri mostri che abbatto, dei loro grugniti e spasimi d’agonia»[27]. Al termine del viaggio, Guerrino incontrerà proprio il Veglio della Montagna, lo spietato capo della setta di assassini di cui parlava Marco Polo nel Milione. E in un’intervista alla «Stampa», Bufalino spiega che al personaggio ha dato «qualche tratto» di Totò Riina[28]. Persino il Veglio, però, non potrà esimersi dal definire Guerrino un «empio sterminatore», un «vagabondo pastore di morte»[29].

La presa di posizione, insomma, è chiarissima; però, va notato come proprio il gesto di fare una selezione sull’identità abbia permesso a Bufalino di essere attuale, in sintonia totale con i drammi del presente. È questo suo modo di essere «presbite» che gli consente di riscattare la tradizione dei pupi. E di farla dialogare con una serie infinita di altri riferimenti letterari, da Marco Polo appunto a Italo Calvino, da Omero a Brunetto Latini, da Leopardi a Baudelaire, da Calderón de la Barca a Walter Scott e Thomas Mann, ma anche con riferimenti extra-letterari, cinematografici per esempio, come Il settimo sigillo di Bergman, Lancelot du Lac di Robert Bresson o Perceval le gallois di Éric Rohmer[30]. Nel romanzo c’è, insomma, più biblioteca che biografia, e, come ha recentemente scritto Gino Ruozzi a tal proposito, per Bufalino Io è gli altri[31]: al punto che bisognerebbe forse riconsiderare con le dovute cautele l’identificazione dello scrittore con il desdichado errante, meno stringente di quanto un approccio folklorico faccia apparire a prima vista[32].

Nessuna identità è un’isola, nemmeno per l’autore che ha formulato il concetto carcerario dell’isolitudine[33]. E per averne conferma basta pensare all’antologia che proprio nel 1993 Bufalino cura insieme a Nunzio Zago e che si intitola Cento Sicilie: il volume comprende le voci dei siciliani prese nella loro pluralità, non in una presunta singolarità, e in aggiunta annette brani della letteratura mondiale di tutti i tempi, da Cicerone a Tocqueville, da Tucidide a Maupassant e Montale. Quello che ne esce è certamente un ritratto della Sicilia, ma descritta nella sua complessità, nelle sue contraddizioni, nella sua ricchezza e stratificazione culturale («Le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle», spiega Bufalino nell’introduzione L’isola plurale, per illustrare una terra dove «tutto è dispari, mischiato, cangiante, come nel più ibrido dei continenti»)[34]. Non un’identità unica, quindi, ma un «eccesso d’identità», costruito sull’ossimoro e sulla moltiplicazione barocca dei fondali[35].

Si parla peraltro di una stratificazione che non porta con sé alcun vincolo di realismo sociale. Il dato antropologico, nell’opera di Bufalino, risulta meno importante di quell’altro dato, quello del sogno, della fantasia, della finzione creatrice[36]. La fantamemoria, come la chiamava lui, o la «memoria sognante», come l’ha definita Roberto Deidier[37], conta più della semplice memoria, come le «favole» contano più del semplice ricordo[38]. Se si pensa al Guerrin Meschino, alla fine del suo viaggio l’errante capisce che avere un figlio sarebbe stato più prezioso che ritrovare il padre. Guerrino è venuto meno al suo compito, quello del liberatore, che pure aveva saputo esercitare per gli Immortali rinchiusi nel Castello Senza Tempo («Mi sembra certe volte d’invecchiare incatenato alla mia memoria, come invecchiano nelle caverne i draghi custodi accanto al tesoro. Senza che mai sopraggiunga da fuori un solo paladino a sfidarli», rifletteva Bufalino al termine di Argo il cieco)[39]. Insomma, parafrasando quello che diceva Giacomo Debenedetti a proposito di Proust, con Bufalino «bisogna contrapporre ricordo documentario a memoria ricreatrice», unica facoltà in grado di inverare la sua scommessa sulla letteratura[40].

D’altro canto, anche l’inchiesta sul passato, come la telemachia condotta da Guerrino, dimostra che in questo libro la ricerca dell’identità non ha alcun valore confermativo. Come scriveva Umberto Eco in una delle sue Bustine di Minerva, «spesso non si cercano le radici per nostalgia di qualcosa che si è conosciuto, ma per il vago sentimento di essere cresciuti da un ceppo ignoto»[41]. Questo spaesamento è una condizione tipica dell’uomo contemporaneo, e sicuramente ha in sé qualcosa di orrifico, di terribile. Però, apre anche strade infinite all’immaginazione, permettendo di rovesciare la ricerca delle radici nell’invenzione delle radici, tanto più viva e attuale in un mondo di civiltà omologate. Forse è su questo campo che può giocarsi ancora oggi l’incontro di Bufalino con il pubblico, a quarant’anni dal suo esordio, e a cento dalla sua nascita.

  1. Cfr. la nota al testo di Francesca Caputo, in G. Bufalino, Opere/2: 1989-1996, a cura e con introduzione di F. Caputo, Milano, Bompiani, 2007, pp. 1410-20.
  2. Sulla preferenza di Bufalino per le edizioni private si veda quanto scrive, parlando di Calende greche, G. Traina, «La felicità esiste, ne ho sentito parlare». Gesualdo Bufalino narratore, Cuneo, Nerosubianco, 2012, p. 62.
  3. F. Cabibbo, Fiabe e invenzioni calate nella dolorosa realtà siciliana, in «Insieme», 31/10/1993, citato in M. R. Mastropaolo, Bufalino, puparo-cuntastorie, in «Oblio», V, 2015, 17, pp. 45-57, cit. alle pp. 56-57.
  4. G. Calcagno, Bufalino: vorrei vivere in mille copie. Ultima conversazione con lo scrittore di Comiso, in «La Stampa. Tuttolibri», 20/6/1996, p. 2.
  5. G. Bufalino, Museo d’ombre, Palermo, Sellerio, 1982, ora in Id., Opere/1: 1981-1988, a cura di M. Corti e F. Caputo, introduzione di M. Corti, Milano, Bompiani, 2006, pp. 143-230, cit. alle pp. 149 e 150.
  6. Sui modi in cui gli scrittori del Ventesimo secolo, tra cui Bufalino, hanno reinventato la tradizione del cavalleresco, si veda da ultimo D. Savio, Il mondo si legge all’incontrario. La materia cavalleresca nel Novecento, Novara, Interlinea, 2020.
  7. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino. Frammento di un’opra dei pupi, Milano, Bompiani, 1993, ora in Id., Opere/2, op. cit., pp. 313-427, cit. a p. 405.
  8. Ivi, p. 426.
  9. Cfr. M. R. Mastropaolo, Bufalino, puparo-cuntastorie, op. cit.
  10. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino…, op. cit., in Id., Opere/2, op. cit., p. 426.
  11. G. Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Palermo, Sellerio, 1984, ora in Id., Opere/1, op. cit., pp. 231-400, cit. a p. 395.
  12. Di un Guerrin Meschino pienamente dentro la modernità aveva parlato già G. Tesio, Bufalino fa il puparo. «Guerrin Meschino» ritrovato, in «La Stampa. Tuttolibri», 3/10/1993, p. 2; ha rilanciato con una ricollocazione del libro nel postmoderno Nunzio Zago nel volume I sortilegi della parola. Studi su Gesualdo Bufalino, Comiso, Euno-Fondazione Gesualdo Bufalino, 2016, pp. 25-26 e p. 131.
  13. F. Jameson, Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo [1991], trad. it. di M. Manganelli, prefazione dell’autore all’edizione italiana, postfazione di D. Giglioli, Roma, Fazi, 2007, p. VIII.
  14. Cfr. su questo C. De Michelis, Moderno antimoderno. Studi novecenteschi [2010], a cura di G. Lupo, Venezia, Marsilio, 2021.
  15. A. Pizzorno, Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 18; W. Brown, Regulating Aversion: Tolerance in the Age of Identity and Empire, Oxford, Princeton University Press, 2006. Su entrambi si veda F. Remotti, L’ossessione identitaria, Bari-Roma, Laterza, 2010, in particolare il capitolo Identità e impoverimento culturale. Contro l’identitarismo in antropologia, pp. 100-41.
  16. G. Bufalino, Museo d’ombre, op. cit., in Id., Opere/1, op. cit., p. 155.
  17. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino…, op. cit., in Id., Opere/2, op. cit., p. 427.
  18. G. Calcagno, Bufalino: vorrei vivere in mille copie…, art. cit., p. 2.
  19. M. Montanari, Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Bari-Roma, Laterza, 2019, p. 4; F. Remotti, L’ossessione identitaria, op. cit., p. XI.
  20. F. Nietzsche, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III, versioni di S. Giametta e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1972 («Opere di Friedrich Nietzsche», III, 1), p. 264.
  21. G. Bufalino, Veleni mentali, in «Il Giornale», 14/8/1983, poi, con il titolo Le ragioni dello scrivere, in Id., Cere perse, Palermo, Sellerio, 1985, ora in Id., Opere/1, pp. 821-825, cit. a p. 823. A proposito del titolo originario dell’elzeviro, si ricordi anche quanto Bufalino scrive in Lanterna cieca, ossia che «raccontare un ricordo, gli toglie il veleno dal dente, lo fa diventare in qualche modo una fiaba» (Lampi sul passato, in «Il Giornale», 7/5/1985, poi, con il titolo Lanterna cieca, in Id., Cere perse, op. cit., ora in Id., Opere/1, pp. 1019-22, cit. a p. 1019).
  22. Introducendo Museo d’ombre, Bufalino avverte che ormai, dalla sua terra d’origine, si attende solamente che essa gli restituisca «una faccia» che «dia un sigillo unico alla sua figura, gli garantisca, non fosse altro, una lapide», perpetuando l’idea pirandelliana dell’identità come pietra tombale, oltre che come recita da teatro dei pupi (Museo d’ombre, op. cit., in Id., Opere/1, p. 151; cfr. D. Savio, Il carnevale dei morti. Sconciature e danze macabre nella narrativa di Luigi Pirandello, Novara, Interlinea, 2013).
  23. G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. I, Palermo, Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, 1889, p. 134.
  24. Cfr. M. R. Mastropaolo, Bufalino puparo-cuntastorie, art. cit., pp. 52-53, con rimando a F. Cammarata, Pupi e carretti: i mass-media della Sicilia liberty, Palermo-São Paulo, Italo-Latino-Americana Palma, 1976.
  25. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino…, op. cit., in Id., Opere/2, op. cit., p. 415.
  26. Cfr. M. R. Mastropaolo, I «poveri paladini in borghese» di Gesualdo Bufalino, in Non date retta a me. Etiche letterarie tra paradigma e paradosso, a cura di C. Benussi e J. Berti, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 87-100.
  27. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino…, op. cit., in Id., Opere/2, op. cit., p. 377.
  28. M. Appiotti, Nuove ombre di Bufalino, in «La Stampa. Tuttolibri», 12/6/1993, p. 2.
  29. G. Bufalino, Il Guerrin Meschino…, op. cit., in Id., Opere/2, op. cit., p. 422.
  30. Tra le carte preparatorie del libro, conservate a Comiso presso la Fondazione Bufalino, sono presenti anche degli elenchi di fonti, di cui dà conto Francesca Caputo in G. Bufalino, Opere/2, op. cit., p. 1420. Le citazioni del libro sono state indagate da M. R. Mastropaolo, Vizi e vezzi del puparo: citazioni e cripto-citazioni nel «Guerrin Meschino» di Gesualdo Bufalino, in «Oblio», VI, 2016, 21, pp. 71-85. Ragionando intorno al Dizionario dei personaggi di romanzo, Alberto Cadioli ha rilevato come il lavoro di Bufalino sull’intertestualità finisca paradossalmente per costituire un «libro del presente per il lettore del presente», superando ogni passatismo post-diluviano: A. Cadioli, Un dizionario di citazioni, in «Cahiers d’études italiennes», 30, 2020, volume monografico La «biblioteca totale». La citazione nell’opera di Gesualdo Bufalino, pp. 1-9, cit. a p. 5, leggibile all’indirizzo https://journals.openedition.org/cei/6596 (ultima consultazione in data 31/5/2021). Si rimanda anche agli altri articoli del numero per ulteriori approfondimenti in materia.
  31. G. Ruozzi, Gesualdo Bufalino. Io è gli altri, in «Cahiers d’études italiennes», 30, 2020, pp. 1-14, leggibile all’indirizzo https://journals.openedition.org/cei/6877 (ultima consultazione in data 31/5/2021).
  32. Maria Corti e poi Francesca Caputo, nelle rispettive introduzioni ai due volumi delle Opere di Bufalino, hanno avuto modo di sottolineare la discontinuità che si determina nel corpus bufaliniano nel 1988, anno in cui escono Le menzogne della notte e la sua narrativa si slancia oltre la soglia dell’io. Come ha scritto anche di recente Davide Ferreri, negli ultimi romanzi di Bufalino avviene un passaggio «dall’autobiografismo a una maggiore concentrazione sui meccanismi del racconto» (voce Gesualdo Bufalino nel Dizionario Biografico degli Italiani, Torino, Istituto Italiano dell’Enciclopedia Treccani, 2017, consultabile all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/gesualdo-bufalino_%28Dizionario-Biografico%29/, ultima consultazione 31/5/2021). Lo «stile tardo» di Bufalino, tra «esilio autoimposto» e adesione ai generi in voga nella letteratura di intrattenimento, è stato approfondito da Claudia Carmina nel capitolo Lo «stile tardo». Gli ultimi romanzi, nel suo volume «A noi due». Bufalino e la sfida al lettore, Acireale-Roma, Bonanno, 2018, pp. 75-83.
  33. G. Bufalino, L’isola nuda, con fotografie di Giuseppe Leone e traduzione in inglese delle pagine dell’Autore di P. Creagh, Milano, Bompiani, 1988, pp. 6-25, poi in Id., Saldi d’autunno, Milano, Bompiani, 1990, ora in Id., Opere/2, op. cit., pp. 632-42.
  34. G. Bufalino, L’isola è una sola, le culture sono tante, in «Il Giornale», 11/4/1984, poi con il titolo L’isola plurale in Id., La luce e il lutto, Palermo, Sellerio, 1998, infine come introduzione in Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, a cura di G. Bufalino e N. Zago, Scandicci, La Nuova Italia, 1993; il brano ora si legge in Id., Opere/1, op. cit., pp. 1140-42, cit. a p. 1140.
  35. Ibidem. Sulla Sicilia di Bufalino si veda C. Carmina, L’isola-teatro, in Ead., «A noi due»…, op. cit., pp. 68-71.
  36. Sullo sganciamento del «motivo mnestico» dalla «specificità etnologica isolana» si veda M. Paino, Il mostro dai cento occhi, in Ead., Dicerie dell’autore. Temi e forme della scrittura di Bufalino, Firenze, Olschki, 2005, pp. 73-99, e in particolare p. 84.
  37. Cfr. R. Deidier, La memoria sognante, in «Diacritica», a. VII, fasc. 4 (40), 5 ottobre 2021.
  38. Ancora nella Postilla a Calende greche, Bufalino descrive il libro come «la biografia (l’autobiografia?) d’un fantasma», le cui vicende «vengono contraffatte con tanto zelo da apparire più spesso favole che memorie» (G. Bufalino, Opere/2, op. cit., p. 195).
  39. G. Bufalino, Argo il cieco, op. cit., in Id., Opere/1, op. cit., p. 393.
  40. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, a cura di E. Montale, Milano, Garzanti, 1971, p. 553.
  41. U. Eco, Elogio dei classici, in Id., La Bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 2000, pp. 243-44, cit. a p. 243.

(fasc. 40, 5 ottobre 2021)