Il concetto crociano di “Spirito” non ha nulla a che vedere né con quello di “Spirito” della filosofia hegeliana né con lo spiritualismo che si sviluppò in Francia e in Italia tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, come opposizione alle “aberrazioni” delle teorie positivistiche. Né ha nulla a che vedere con il concetto di “Spirito” dell’attualismo gentiliano. Infatti, la riflessione filosofica di Croce sullo Spirito, che nelle sue opere troviamo scritto sia con la maiuscola sia con la minuscola ma che indica la medesima cosa, presenta tratti talmente originali che impediscono di far coincidere tale concetto con quello esposto in precedenza nella storia delle idee.
1. Partendo da Hegel
Il concetto di “Spirito” è legato strettamente al misticismo tedesco della Germania medievale e rinascimentale. In Eckhart, Silesius e Böhme lo Spirito, seguendo la tradizione cristiana, è Dio; ma Spirito è anche l’uomo, il quale deve riscoprirsi come tale al fine di ricongiungersi nuovamente con il divino. Questa tradizione viene recepita e ripensata da Hegel. Il filosofo di Stoccarda distingue Dio, lo Spirito infinito, lo Spirito assoluto, contenuto della religione cristiana, dallo spirito finito, l’uomo. Egli scrive:
Lo spirito assoluto è identità che è altrettanto eternamente in sé, quanto deve tornare ed è tornata in sé (Der absolute Geist ist eben so ewig in sich seyende als in sich zurückkehrende und zurückgekehrte Identität); è l’unica e universale sostanza come sostanza spirituale, la partizione (giudizio) in sé e in un sapere, pel quale essa è come sostanza (die Eine und allgemeine Substanz als geistige, das Urtheil in sich und ein Wissen, für welches sie als solche ist)[1. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), hrsg. von W. Bonsiepen, H.-C. Lucas, unter Mitarbeit von U. Rameil, in Hauptwerke in sechs Bänden, Hamburg, Felix Meiner, 2015, Band 6; Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. di B. Croce, con intr. di C. Cesa, Bari, Laterza, 2009, par. 554, p. 537.].
Dio, lo Spirito assoluto, è identità eterna con sé, ma un’identità che, al contempo, mantenendosi identica con sé nella distinzione (produzione del mondo e Menschwerdung), deve ritornare al “Primo originario”, l’Idea assoluta, attraverso la mediazione con sé. In quanto Sostanza unica e universale, l’Assoluto è Spirito, Soggetto, il quale si particolarizza nel Giudizio (Urtheil), la creazione del mondo (par. 568), sino alla “partizione” più estrema: la finitezza e la morte (Cristo, par. 569). Il Giudizio è necessario alla vita dello Spirito assoluto, altrimenti avremmo solo un Dio astratto. Nella prima partizione, lo Spirito assoluto è «nel momento della particolarità del giudizio (Im Momente der Besonderheit aber des Urtheil)», «e il suo movimento è la creazione del mondo fenomenico, è il rompersi del momento eterno della mediazione», dell’unico figlio, nel contrasto indipendente, «costituito, da un lato, dal cielo e dalla terra, dalla natura elementare e concreta; e, dall’altro lato, dallo spirito come quello che sta in relazione con tale natura, e quindi dallo spirito finito (somit des endlichen Geistes)»[2. Ivi, par. 568, pp. 547-48.]. Nella seconda partizione, Dio si fa, diviene «autocoscienza individuale (zum einzelnen Selbstbewußtseyn verwirklicht)». Questa «esistenza immediata, e quindi sensibile, dell’assolutamente concreto, si pone nel giudizio, e muore nel dolore, della negatività, nella quale, come soggettività infinita, lo spirito è identico con sé (aber ferner diese unmittelbare und damit sinnliche Existenz des absolut Konkreten sich in das Urtheil setzend und in den Schmerz der Negativität ersterbend, in welcher es als unendliche Subjektivität identisch mit sich)»; e «da essa, come ritorno assoluto e unità universale dell’essenzialità universale e individuale, è diventato per sé: ― è l’idea dello spirito eterno, ma vivente e presente nel mondo (aus derselben als absolute Rückkehr und allgemeine Einheit der allgemeinen und einzelnen Wesenheit für sich geworden ist, — die Idee des als ewigen aber lebendigen, und in der Welt gegenwärtigen Geistes)». Solo così lo Spirito assoluto si realizza pienamente con se stesso ed è unito allo spirito finito, attuandosi «come insidente nell’autocoscienza». Questo dispiegamento è l’«indivisibile connessione con se stesso dello spirito universale, semplice ed eterno (als ein untrennbarer Zusammenhang des allgemeinen, einfachen und ewigen Geist es in sich selbst)»[3. Ivi, parr. 569-71, pp. 548-50.]. Lo Spirito infinito ed eterno è immanente e trascendente al tempo stesso. Immanente perché è nella storia e, attraverso questa, fonda il suo regno spirituale; trascendente perché alla fine del suo processo, Dio, lo Spirito assoluto, coincide perfettamente con l’originaria Idea assoluta, arricchita dalla concretezza delle sue manifestazioni.
L’uomo, lo spirito finito, ha in comune con Dio l’essere spirito, che nella sfera del culto è la condicio sine qua non dell’unione mistica.
Spirito – afferma Hegel – siamo noi stessi, e siamo tali solo presso noi stessi, se sappiamo dello spirito. Se, però, lo spirito sembra essere anche il più prossimo, giacché non vi è assolutamente alcuna separazione da noi, pur tuttavia esso non è quantomeno l’oggetto più prossimo che si offre alla considerazione. Lo spirito finito sta tra due mondi, uno, dal lato della natura, è il corporeo, ed è separato da quella – dall’altro lato è l’infinito, l’assoluto. – Nel suo rapporto con Dio l’uomo è spirito, spirituale, finito nella connessione con la natura. Questi due oggetti sono i primi oggetti della sua considerazione in quanto suo stesso spirito[4. G. W. F. Hegel, Vorlesungen Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte. Bd. 13. Vorlesungen über die Philosophie des Geistes. Berlin 1827-28. Nachgeschrieben von J. E. Erdmann und F. Walter, hrsg. von F. Hespe und B. Tuschling, Hamburg, Meiner, 1994; Lezioni sulla filosofia dello spirito, a cura di R. Bonito Oliva, Milano, Guerini e Associati, 2000, p. 92.].
Essere spirito per Hegel vuol dire lottare. È un continuo agonismo, una tensione che permette allo spirito di non cadere nel suo contrario: la natura.
2. Lo Spirito come attività
L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902) è il testo di fondazione della «Filosofia dello spirito», anzi di quella che inizialmente il filosofo designò quale «Filosofia come scienza dello spirito», che doveva rappresentare la versione fondamentale, e per certi aspetti anche definitiva, del suo pensiero. La «condizione mentale», il percorso di Croce al momento della composizione dell’Estetica, come egli stesso racconta nel Contributo alla critica di me stesso (1915), era di «idealista desanctisiano in estetica, di herbartiano nella morale e in genere nella concezione dei valori, di antihegeliano e di antimetafisico nella storia e nella generale concezione del mondo, di naturalista o intellettualista nella gnoseologia». Solo in seguito e «la prima volta attraverso il marxismo e il materialismo», sarebbe sopraggiunto Hegel, «accettato con cautela critica», ma apprezzato, avvertendo «quanta concretezza storica fosse, pur in mezzo a tanti arbitrii e artifizi, nella filosofia hegeliana». Il marxismo aveva, invece, cercato di espungere ogni residuo di astratto apriorismo, sia di «filosofia della storia» sia di più recente «evoluzionismo», difendendo «il valore dell’etica kantiana» e non prestando «fede al mistero della struttura o Economia, travestimento dell’Idea, che opererebbe sotto la coscienza, e della soprastruttura e coscienza, che sarebbe mero fenomeno di superficie». In seguito, «in modo più diretto» lo avrebbero avvicinato a Hegel «l’amicizia e la collaborazione col Gentile». Però, soltanto «nell’aspro travaglio» della composizione dell’Estetica, Croce superò «il naturalismo e lo herbartismo» che ancora lo «legavano»[5. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2000, pp. 53-56.].
Nell’Estetica, il concetto di “Spirito” è ancora in embrione. In primo luogo, Croce definisce kantianamente lo Spirito come noumeno, come
l’intuizione estetica conosce il fenomeno o la natura, e il concetto filosofico, il noumeno o lo spirito, così l’attività economica vuole il fenomeno o la natura, e quella morale il noumeno o lo spirito. Lo spirito che vuole sé stesso, il vero sé stesso, l’universale ch’è nello spirito empirico e finito[6. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 77.].
In secondo luogo, Croce definisce lo Spirito come “incarnato” nell’Estetica, nella Logica, nella Morale e nell’Economia, che sono le quattro forme dell’attività umana. Lo Spirito è dunque attività. Nella «Filosofia dello spirito», scrive Croce,
lo spirito è concepito, dunque, come percorrente quattro momenti o gradi, disposti in modo che l’attività teoretica stia alla pratica come il primo grado teoretico sta al secondo teoretico e il primo pratico al secondo pratico. I quattro momenti s’implicano regressivamente per la loro concretezza: il concetto non può stare senza l’espressione, l’utile senza l’una e l’altro, e la moralità senza i tre gradi che precedono. Se soltanto il fatto estetico è, in certo senso, indipendente, e gli altri sono più o meno dipendenti, il meno spetta al pensiero logico e il più alla volontà morale. L’intenzione morale opera su date basi teoretiche, dalle quali non può prescindere, salvo che non si voglia ammettere quell’assurdo pratico, ch’è la gesuitica direzione d’intenzione, in cui si finge a sé stesso di non sapere ciò che si sa troppo bene[7. Ivi, p. 78. È evidente, almeno in questa fase del pensiero crociano, l’influenza del Kant della terza critica. «Lo spirito (Geist) è il principio animatore dell’uomo» (I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Id., Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino, UTET, 2014, par. 57, p. 550). Anche in precedenza, nella terza critica, Kant scrive: «Spirito (Geist), nel significato estetico, è il principio vivificante dell’animo (Gemüthe). Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che conferisce uno slancio armonico alle facoltà dell’animo, dando il via ad un gioco che si mantiene da sé e che di per sé fortifica le facoltà stesse da cui risulta» (I. Kant, Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, rev. di V. Verra, intr. di P. D’Angelo, Roma-Bari, Laterza, 2015, par. 49, p. 305. La traduzione è stata modificata).].
Tale attività sarà esposta magistralmente dal filosofo nella Logica come scienza del concetto puro (1909). Nella Logica, lo Spirito è la matrice universale, è la Forma imprescindibile dei modi dell’attività umana. Tra le forme, o momenti dello Spirito, non v’è una relazione di contraddizione o di opposizione, e nemmeno un’opposizione-superamento (Aufheben) alla maniera di Hegel. Tale relazione, che Croce definisce “nesso dei distinti”, è quella, circolare, di reciproca autonomia e complementarietà, di condizionamento reciproco, arricchimento, eludersi e colludersi. Nella Logica come scienza del concetto puro, Croce scrive:
Ma la teoria dei concetti distinti e della loro unità sembra presentare ancora qualcosa d’irrazionale. Se è vero che i distinti costituiscono una storia ideale o una serie di gradi, è anche vero che, in questa storia e serie, c’è un primo e c’è un ultimo, il concetto a, che apre la serie, e poniamo il concetto d, che la chiude. Ora, perché il concetto sia unità nella distinzione e si possa comparare a un organismo, è necessario che esso non abbia altro cominciamento che sé stesso e che nessuno dei suoi singoli termini distinti sia cominciamento assoluto. Nell’organismo, infatti, nessun membro ha priorità sugli altri, e ciascuno è reciprocamente primo ed ultimo. Ma il vero è che il simbolo della serie lineare è inadeguato al concetto, al quale meglio conviene il circolo, in cui a e d fungono, a volta a volta, da primo e da ultimo. I concetti distinti sono, in quanto storia ideale eterna, un eterno corso e ricorso, in cui da d risorge a, b, c, d, senza possibilità di arresto o di tregua, e in cui ciascuno, sia a, o b, o c, o d, pur non potendo cangiare ufficio e posto, è designabile, a volta a volta, come primo o come ultimo. A mo’ d’esempio, nella Filosofia dello spirito si può dire con pari ragione o torto che il fine o termine finale dello spirito sia il conoscere o l’operare, l’arte o la filosofia; perché in realtà, nessuna di queste forme in particolare, ma solamente la totalità di esse è il fine, ossia solo lo Spirito, è il fine dello Spirito[8. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 2 voll., a cura di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, vol. I, p. 80. Hegel, invece, secondo Croce, aveva dato al movimento dello Spirito la forma della “cuspide”, visto che lo Spirito muoveva da un gradino più basso verso la maggiore perfezione, giungendo solo al termine alla sua vera forma assoluta. Nel Carattere e significato della nuova filosofia dello spirito, Croce scrive: «dall’arte che è una religiosità insufficiente, e dalla religione rivelata, che per altro verso è insufficiente, alla religiosità finalmente perfetta che è la filosofia e in cui lo spirito si acqueta, perché ormai sul mondo che non è più da fare perché è stato fatto, si leva l’uccello di Minerva, la mente che lo intende a pieno» (B. Croce, Carattere e significato della nuova filosofia dello spirito, in Id., Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, p. 36).].
L’unità è distinzione, anzi l’una e l’altra sono entrambe necessarie,
e – scrive Croce – che le distinzioni del concetto non importano negazione del concetto, e nemmeno qualcosa che cada fuori del concetto, ma solo il concetto stesso inteso nella sua verità, l’uno-distinto: uno solamente perché distinto, e distinto solamente perché uno. L’unità e la distinzione sono correlative, epperò inseparabili[9. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., vol. I, p. 75.].
A differenza dei distinti, gli opposti «sono il concetto stesso, e perciò i distinti stessi, ciascuno di essi in sé, in quanto determinazione del concetto e in quanto concepito nella sua realtà concreta»[10. Ivi, p. 87.]. Croce esemplifica ciò attraverso il riferimento al mito cristiano, e scrive: «Ma ciascuno ha in sé il male, perché ha in sé il bene; Satana non è una creatura estranea a Dio, e neppure il ministro di Dio, Satana, ma Dio stesso. Se Dio non avesse Satana in sé, sarebbe un cibo senza sale, un ideale astratto, un semplice dover essere che non è, e perciò impotente e inutile»[11. Ivi, p. 88.]. L’opposizione è necessaria alla vita e, senza di essa, non ci sarebbe nessuna vita, nessuna storia. Il nostro stesso pensiero
in quanto anch’esso è vita (quella vita che è pensiero, e perciò vita della vita, ed anch’esso realtà (quella realtà che è pensiero, e perciò realtà della realtà), ha in sé l’opposizione; e per questa ragione è insieme affermazione e negazione; non afferma se non negando e non nega se non affermando. Ma non afferma e nega se non distinguendo, perché pensiero è distinzione; e distinguere non si può (distinguere veramente, non già separare a un dipresso, come si usa negli pseudoconcetti) se non unificando[12. Ibidem.].
Seguendo questo ragionamento, il vero significato del principio di identità (A=A) e di contradizione (A non è B) consiste nel fatto che «la legge del pensiero è legge di unità e distinzione, e perciò che essa si esprime nella doppia formola: che A è A (unità), e che A non è B (distinzione): la quale doppia formola è per l’appunto ciò che si chiama legge o principio d’identità e contradizione»[13. Ivi, p. 87.]. La dialettica di opposizione, dunque, è solo all’interno di ciascuna delle forme o momenti dello Spirito: tra il bello e il brutto, il vero e il falso, il bene e il male, l’utile e il disutile, con tutte le loro possibili implicazioni (essere-non essere, vita-morte, piacere-dolore ecc.). Infine, a differenza di Hegel, la positività della vita dello Spirito, dell’attività e del processo spirituale è sempre in ciascun momento dello Spirito, e non hegelianamente alla fine del processo. Con la teoria della circolarità dello Spirito, Croce supera definitivamente Hegel, perché tale circolarità garantisce la storicità delle diverse forme spirituali senza negare quell’unità propria dello Spirito, per poi salvarne la distinzione senza ridurlo alla vuota identità.
Lo Spirito è l’universalità che ha dentro se stessa la possibilità e la capacità di porsi come individualità ed esistenza. Questa è la sintesi a priori: «La sintesi a priori – scrive Croce nella Logica – è delle forme tutte dello Spirito, perché lo Spirito, considerato in genere, è nient’altro che sintesi a priori; e questa si esplica nell’attività estetica, e nella pratica, non meno che in quella logica»[14. Ivi, p. 167.]. Croce distingue la sintesi a priori in genere, ovvero l’attività spirituale non astratta ma concreta, dalla forma particolare, ovvero la sintesi a priori logica, unione della definizione dell’essenza dello Spirito (giudizio definitorio) e della sintesi dei distinti (giudizio individuale). Si tratta di un’attività spirituale
non astratta ma concreta, cioè lo spirito stesso, il quale è a sé medesimo sola condizione e da sé medesimo solamente condizionato. La sintesi a priori, che è costituita dalla coincidenza o identità del giudizio definitorio col giudizio individuale, non è, dunque, sintesi a priori in genere, ma una forma particolare, sintesi a priori logica[15. Ivi, p. 168.].
Nella sua riflessione Croce ha riveduto la sintesi priori di Kant, suo vero scopritore ma, nello stesso tempo, non consapevole della potenza della sua scoperta, coniugandola con la riflessione hegeliana. La sintesi a priori è alla base dell’identità crociana di filosofia e storia.
Filosofia e storia non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura s’identificano. La sintesi a priori, che è la concretezza del giudizio individuale e della definizione, è insieme la concretezza della filosofia e della storia; è il pensiero, creando sé stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia. Né la storia precede la filosofia né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto. E, se alcuna precedenza o primato si vuole accordare alla filosofia, si può solamente nel senso che l’unica forma, la filosofia-storia, prende il suo carattere, e merita perciò di togliere il nome, non già dall’intuizione ma da ciò che trasfigura l’intuizione: dal pensiero e dalla filosofia[16. Ivi, p. 232.].
Il giudizio individuale altro non è che la storia stessa dello Spirito, mentre il giudizio definitorio sono le Categorie, attraverso cui lo Spirito, mentre si distingue nella sua eterna attività circolare, si definisce. Infatti, «il sorgere del concetto trasfigura le rappresentazioni su cui sorge e le fa altre da quelle che prima erano; da indiscriminate discriminate, da fantastiche logiche, da chiare ma indistinte (come si diceva un tempo), chiare e distinte»[17. Ivi, p. 122.]; per poi concludere, che in «forza del concetto si fa, insomma, di quelle rappresentazioni un giudizio»[18. Ibidem.]. Se Hegel aveva preferito e legittimato il sillogismo per il movimento e la concrezione della verità, per Croce, invece, le eterne Categorie dello Spirito universale s’incarnano nel giudizio che il Croce più maturo definirà “storico”. Nella Storia come pensiero e come azione (1938), che «nella rinnovata filosofia crociana dello spirito», che dal ’39 in poi Croce definirà come “Storicismo assoluto”, «equivaleva insieme alla Logica e a Teoria e storia della storiografia»[19. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 404.], Croce scrive:
Al giudizio, all’atto conoscitivo, al pensiero storico, che si esprime tutto nella formula s è p, ovvero i è u, segnante il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza, dall’intuizione alla riflessione, dall’immagine al concetto, si aggiunge, stringendoglisi dappresso, un atto classificatorio, che è indirizzato, come sappiamo, a procurare il possesso di quel giudizio, ossia a renderlo più agevolmente rievocabile e comunicabile a noi stessi e agli altri. Ben si avverte questa differenza e distinzione tra il momento in cui balena la verità (la luce della verità è sempre un balenio o folgorio), e l’altro in cui si lavora a fissare quella luce, mercé di rapporti estrinseci, di determinazioni generali, di analogie e simili: il che è stato più volte teorizzato come differenza tra il pensare e il parlare, ma inesattamente, perché l’atto primitivo del pensiero è già un parlare e anima tutto il parlare che da esso si svolge, e l’altro che lo segue e accompagna e bensì anch’esso un parlare, ma, appunto, un parlare di classificazioni[20. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti e con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 257.].
In questa celebre pagina Croce ripropone nuovamente la distinzione tra il carattere astratto dell’intelletto e quello speculativo della ragione. Nel giudizio storico abbiamo l’atto di concrezione dell’Universale, della Categoria e, per Croce, «ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz’altro»[21. Ivi, p. 26. Nel giudizio è tutto il concetto a incarnarsi, mai un pezzo. Il concetto in quanto distinto in universalità, particolarità, singolarità. L’«universalità non significa altro se non che il concetto distinto è tutt’insieme il concetto unico, del quale è distinzione, e che dalle sue distinzioni è costituito; particolarità, che il concetto distinto è in una determinata relazione con un altro concetto distinto; e singolarità, che esso, in questa particolarità e in quella universalità, è insieme sé stesso. Onde il concetto distinto è sempre singolare, e perciò universale e particolare; e il concetto universale sarebbe astratto, se non fosse insieme particolare e singolare. In ogni concetto c’è tutto il concetto, e perciò gli altri concetti tutti; ma esso è, pur tuttavia, quel determinato concetto. Per es., la bellezza è spirito (universalità), spirito teoretico (particolarità), spirito intuitivo (singolarità); ossia tutto lo spirito in quanto intuizione» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, op. cit., vol. I, p. 79). Tale riflessione è alla base del predicato di esistenza nella Logica.]. Il soggetto, l’individuale, «il fatto – come scrive Croce – quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si trovano né si concepiscono nel mondo della realtà»[22. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 26.]. Il soggetto, però, non riuscirà mai a pareggiare l’infinito, la Categoria. Nell’Avvertenza Croce dice «di essersi affacciato al profondo laborioso “regno delle Madri”»[23. Ivi, Avvertenza.], immagine faustiana che simboleggia il regno delle eterne fattrici della storia: le Categorie. Il Bello, il Vero, il Buono e l’Utile o Vitale, sono categorie eterne, ma storici sono sempre i concetti che, via via, ci formiamo di quelle, e solo questi concetti sono soggetti al mutamento:
Senonché la distinzione delle categorie non ha niente da vedere con una loro supposta trascendenza di contro al giudizio, perché si compie dentro al giudizio stesso, per virtù del giudizio, come sua attuazione, non potendosi giudicare se non distinguendo, distinguendo a per la sua qualità da b per la sua qualità, cioè secondo categorie. Quale mai giudizio sarebbe quello che non qualificasse l’atto a come atto di verità, l’atto b come atto di bellezza, l’atto c come atto di accorgimento politico, l’atto d come di sacrificio morale, e via distinguendo, e si restringesse a porre intuitivamente diversi a, b, c, ecc., il che, se basta alla fantasia, non basta al pensiero? Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno questi concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti dell’atto logico, se la categoria «logicità» non fosse costante e ritrovabile in essi tutti[24. Ivi, pp. 31-32.].
Con la loro incarnazione nel giudizio storico, le categorie sono anche sottratte a una possibile speculazione filosofica che miri a pensare le forme senza il fatto empirico nel quale s’incarnano. Esse sono fattrici e non fattori della storia. La loro incarnazione permette il rischiaramento del passato e, così, la storiografia ci libera dal peso della storia passata. Croce scrive:
In tali guise si passa dalla storiografia, che libera dalla vita vissuta, alla storia vivente, alla storia nuova; e qui le categorie, che formavano i giudizî, operano non più come predicati di soggetti, ma come potenze del fare. Intendiamo del fare nel suo senso più ampio, utile e morale e artistico e poetico, o quale altro sia, inclusovi il fare filosofico o storiografico, la filosofia-storia, che è tutt’insieme storia del pensiero passato e posizione del nuovo, di un nuovo filosofare, che a sua volta trapasserà a oggetto di storiografia[25. Ivi, p. 45.].
3. Lo Spirito come Vita
Che cos’è lo Spirito Croce lo definirà pienamente soltanto nella Filosofia della pratica (1909). Lo Spirito è Realtà: «Servi noi siamo della Realtà, che ci genera e ne sa più di noi; di quella Realtà, che le religioni intravedevano chiamandola Dio, padre e sapienza infinita»[26. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, 2 voll., a cura di M. Tarantino e con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996, vol. I, p. 172.]. Nella stessa opera, però, poco più avanti, Croce definisce, in maniera più esplicita, il proprio concetto di Spirito:
Lo Spirito, infinita possibilità trapassante in infinita attualità, ha tratto, e trae a ogni istante, il cosmo dal caos, ha raccolto la vita diffusa nella vita concentrata dell’organo, ha effettuato il passaggio dalla vita animale a quella umana, ha creato e crea modi di vita sempre più alti. L’opera dello Spirito non è terminata, né terminerà mai; e il nostro anelare a qualcosa di superiore non è vano. (…) Il mistero è, per l’appunto, l’infinità dello svolgimento: se questa non fosse, quel concetto non sorgerebbe nella mente dell’uomo, e neppure sarebbe possibile sforzarlo, come è stato sforzato quando si è voluto introdurlo dove non ha luogo, cioè nella coscienza che l’attività spirituale deve avere, e ha pienissima, di sé medesima, ossia delle sue eterne categorie[27. Ivi, p. 183.].
Lo Spirito è la possibilità infinita che diviene attualità infinita, è ordine, elevamento dalla vita animale a quella umana; è creazione continua attraverso le sue eterne Categorie. Croce non lo dice in maniera esplicita, ma è evidente che lo Spirito coincida con la Vita: anzi è Vita. Secondo Galasso, questa equivalenza tra Realtà-Spirito-Vita è una
equivalenza, anche se è pensata e presentata come identità, perché solo col termine «Vita» poteva essere indicata quell’organica e inesauribile potenza di attività in cui la Realtà-Spirito si configurava per Croce: ossia, solo con un termine in cui la molteplicità e infinità del reale assuma tutta la concretezza, immediatezza, organicità, determinazione, drammaticità dell’iniziare e fiorire, agire e subire, godere e soffrire, insomma il pathos e la ricchezza, che la nozione filosofica di spirito concettualizza in maniera congrua e soddisfacente solo dal punto di vista logico[28. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, op. cit., p. 165.].
Lo Spirito-Vita è l’inesauribile fonte di ogni creazione, la condicio sine qua non del mondo storico, e di ogni nostro pensare e agire. Croce scrive:
L’infinito, inesauribile dal pensiero dell’individuo, è la Realtà stessa, che crea sempre nuove forme; è la Vita, che è il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito. E come ogni attimo, per bello che sia, diventerebbe brutto se si arrestasse, brutta diventerebbe la Vita, se mai indugiasse in una delle sue forme contingenti. E perché la Filosofia, non meno dell’Arte, è condizionata dalla Vita, nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara le condizioni per la posizione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Così è sempre stato, e così sarà sempre. In questo significato la Verità è sempre cinta di mistero, ossia è un’ascensione ad altezze sempre crescenti, che non hanno giammai il loro culmine, come non l’ha la Vita[29. B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., pp. 397-98.].
È chiaro, già da tutte queste definizioni, che lo Spirito è, al contempo, immanente e trascendente: immanente nella storia in quanto esso è Storia, eppure non ridotto e appiattito al mero susseguirsi empirico degli eventi, perché lo Spirito, attraverso le sue categorie, è origine e vita di quelli.
4. Lo Spirito come Storia
Nel percorso intellettuale di Croce, la critica a Hegel rappresentò una vera e propria svolta filosofica. Nel Contributo alla critica di me stesso, egli scrive: «il concetto, al quale pervenni attraverso la critica dello Hegel e la generale revisione della storia della filosofia, fu ribadito nel titolo generale di Filosofia come scienza dello spirito, che diedi ai miei tre volumi o trattati di Estetica, Logica e pratica»[30. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, op. cit., p. 58.]. Questa Filosofia dello spirito, però,
non è la prosecuzione, ma la totale eversione dello hegelismo. Perché, infatti, essa nega la distinzione di Fenomenologia e Logica; nega non solo le costruzioni dialettiche delle Filosofie della natura e della storia, ma anche quelle della Logica stessa; nega la triade di Logo, Natura e Spirito, ponendo come solo reale lo Spirito, nel quale la natura è nient’altro che un aspetto della spirituale dialettica stessa. Ma se, invece, nello Hegel si dà risalto soprattutto alla vigorosa tendenza verso l’immanenza e la concretezza, e alla concezione di una logica filosofica intrinsecamente diversa da quella del naturalismo, certamente la Filosofia come scienza dello spirito riconosce, se non proprio come suo padre (perché padre di lei non può essere, com’è chiaro, che il suo autore medesimo), certo come suo grande antenato lo Hegel, e, più remoto e non meno venerando, il Vico[31. Ivi, p. 59.].
Proprio nel saggio su Hegel, però, Croce mostra il più grande “debito” nei confronti del filosofo di Stoccarda, scrivendo che:
Lo spirito è svolgimento, è storia, e perciò essere e non essere insieme, divenire; ma lo spirito sub specie aeterni, che la filosofia considera, è storia ideale eterna, extratemporaria: è la serie delle forme eterne di quel nascere e morire che, come Hegel diceva, esso stesso non nasce e non muore mai[32. B. Croce, Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, 2 voll., a cura di A. Savorelli con una nota al testo di C. Cesa, Napoli, Bibliopolis, 2006, vol. I, pp. 67-68.].
Lo Spirito è svolgimento e storia. Si tratta di una tesi, chiaramente di stampo hegeliano, che Croce riprenderà anche nell’ultimo volume della Filosofia dello Spirito:
E sarà impossibile – scrive Croce in Teoria e storia della storiografia (1917) – intendere mai nulla del processo effettivo del pensare storico se non si muove dal principio che lo spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e risultato insieme di tutta la storia anteriore; cosicché lo spirito reca in sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé stesso[33. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2001, pp. 27-28.].
Croce, inoltre, sottolinea anche la medesima “struttura sostanziale” dello spirito individuale e finito, e dello Spirito universale:
Lo spirito individuale passa dall’arte alla filosofia e ripassa dalla filosofia all’arte, allo stesso modo in cui passa da una forma all’altra dell’arte, o da un problema all’altro della filosofia: cioè, non per contradizioni intrinseche a ciascuna di queste forme nella sua distinzione, ma per la contradizione stessa intrinseca al reale, che è divenire; e lo spirito universale passa da a a b, e da b ad a, non per altra necessità che quella della sua eterna natura, che è di essere insieme arte e filosofia, teoria e praxis, o come altro si determini[34. B. Croce, Saggio sullo Hegel, op. cit., vol. I, p. 68.].
Si tratta di un ulteriore punto di distacco da Hegel, per il quale, secondo il filosofo, la «teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono per lui tutt’uno»[35. Ivi, p. 69.].
Se questi sono i presupposti, allora che rapporto c’è tra lo Spirito e le singole individualità? Nella Filosofia della pratica, Croce parla di volizione e azione come di «due modi diversi di elaborare una realtà unica, la realtà spirituale»[36. B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., vol. I, p. 66.]. Le volizioni non si susseguono le une alle altre perché l’individuo è «volitivo e operante, appunto perché rinunzia alla falsa ricchezza dell’infinito o a quella angosciosa della molteplicità e dualità, attenendosi di volta in volta a una volizione sola, che è la volizione corrispettiva alla situazione data»[37. Ivi, p. 156.]. La situazione data è rappresentata proprio dalla sua storicità. Se con l’attività pratica, la singola volizione, vincendo le altre, permette la coincidenza di volizione e azione, questa però non è l’accadimento.
L’azione – egli scrive – è opera del singolo, l’accadimento è l’opera del Tutto: la volontà è dell’uomo, l’accadimento è di Dio. O, per mettere questa proposizione sotto forma meno immaginosa, la volizione dell’individuo è come il contributo ch’esso reca alla volizione di tutti gli altri enti dell’universo; e l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni, è la risposta a tutte le proposte[38. Ivi, p. 68.].
La storia è il processo della totalità. In essa le volizioni sono contenute, certo, ma non coincide mai in modo pieno con le volizioni stesse. A un primo impatto, sembra che qui Croce stia cadendo in una riformulata filosofia della storia d’impronta hegeliana. In realtà, le cose non stanno così. Croce utilizza metafore, che possono anche arrivare a dei veri e propri punti iperbolici, ma queste metafore non rappresentano per nulla una ricaduta nella vecchia filosofia della storia. In tutta la riflessione crociana, infatti, c’è sempre la piena consapevolezza della libertà, della responsabilità insita in ogni agire individuale. Lo stesso giovane Croce, già nel 1895, aveva chiuso definitivamente le porte a ogni possibile metafisica della storia: «L’individuo – scriveva – è consapevole che, operando, egli non mira ad altro se non a porre nuovi elementi della realtà universale; e bada che questi elementi siano energici e vitali, senza pascersi della stolta illusione che debbano essere astrattamente i soli, o che da soli producano la realtà»[39. B. Croce, Intorno alla filosofia della storia, in Id., Primi saggi, Bari, Laterza, 1951, p. 70.]. È la Realtà-Spirito-Vita quella che di volta in volta deve essere creata, perché solo la Vita permette al male di non prendere il sopravvento nella storia. Ecco perché Croce scrive:
Con questo indefesso lavoro si viene componendo la trama della Storia, alla quale tutti gl’individui collaborano, ma che non è opera, né può essere nelle intenzioni, di nessuno di essi in particolare, perché ciascuno è intento al suo lavoro particolare e soltanto nel rem suam agere gestisce insieme gli affari del Mondo. La storia è l’accadimento, il quale, come si è visto, non si giudica praticamente, perché trascende sempre i punti di vista particolari, che soli rendono possibile l’applicazione del giudizio pratico. Il giudizio della Storia è il fatto stesso della sua esistenza: la razionalità sua è la sua realtà. Questa trama storica, la quale è e non è l’opera degli individui, è l’opera dello Spirito universale, del quale gl’individui sono manifestazioni e strumenti[40. B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., vol. I, pp. 181-82.].
«Gl’individui sono manifestazioni e strumenti» dello Spirito universale. Questa definizione sembrerebbe all’apparenza una “ricaduta” nella rinnegata filosofia della storia di stampo hegeliano.
Ma in realtà – come scrive Franchini –, a ben considerare le cose, risulta evidente il suo carattere metaforico e iperbolico, che va attenuato e interpretato nel senso che gli individui, come si è accennato, sono le componenti di una totalità e solo in questa accezione è lecito se non debito parlare di una loro sottomissione all’universale, il quale non potrebbe, per principio stesso della dialettica, attuarsi senza gli individui. D’altra parte occorre pur considerare che l’universalità degli individui non è un’entità ipostatica che ad essi si possa aggiungere dall’esterno, ma consiste unicamente in ciò che è più proprio e men peribile, o non peribile, dell’individuo, ossia nell’opera. La quale, a sua volta, non consiste in una finta e astratta universalità, bensì è, come mostrò l’Antoni, sempre e soltanto opera individua[41. R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, a cura di R. Viti Cavaliere, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 63-64.].
In Teoria e storia della storiografia, Croce scrive che la storia è «l’opera di quell’individuo veramente reale, che è lo spirito eternamente individuantesi». La storia, dunque, non
ha di contro avversario alcuno, ma ogni avversario è insieme suo suddito, vale a dire è uno degli aspetti di quel dialettismo, che compone il suo intimo essere; perciò essa non cerca il suo principio di spiegazione in un particolare atto di pensiero o di volontà, o in un singolo individuo o in una molteplicità d’individui, o in un avvenimento che si collochi come causa sopra altri avvenimenti, o in una collezione di avvenimenti che formi la causa di un singolo avvenimento, ma lo cerca e ripone nel processo stesso, che nasce dal pensiero e al pensiero ritorna, ed è intellegibile dell’autointelligibilità del pensiero, il quale non ha mai uopo di appellarsi a cosa a lui estranea per intendere sé medesimo. La spiegazione della storia diventa tale veramente, perché coincide col suo esplicamento; laddove le spiegazioni per via di cause astratte sono un rompere il processo e uno sforzarsi, ucciso il vivente, a riottenere la vita con l’accostare spazialmente il capo reciso al tronco decapitato[42. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, op. cit., pp. 109-10.].
Non una Provvidenza o il Dio trascendente guidano la storia, ma lo Spirito universale sempre assieme alle individualità. L’interpretazione di Franchini trova conferma nelle parole dello stesso Croce:
La vera storia è storia dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto individuo. Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica, la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti. Perché, se fuori della relazione con lo spirito l’individuo è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito fuori dalle sue individuazioni; e raggiungere nella concezione storica l’universalità è ottenere insieme l’individualità, e renderle entrambe salde della saldezza che l’una conferisce all’altra. Se l’esistenza di Pericle, di Sofocle e di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso pronunziata indifferente anche l’esistenza dell’Idea? E chi taglia fuori dalla storia gl’individui, osservi bene, e si accorgerà che o non li ha tagliati punto via, come immaginava, o ha tagliato fuori, con essi, la storia stessa[43. Ivi, pp. 116-17.].
Dalla storia deve essere escluso sia il principio di causalità sia il Dio trascendente: «Al pari della causalità – scrive Croce nella Storia come pensiero e come azione –, il Dio trascendente è straniero alla storia umana, che non sarebbe se quel Dio fosse: essa che è a sé stessa il Dioniso dei misteri e il “Christus patiens” del peccato e della redenzione»[44. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., p. 24.]. La storia possiede in sé il principio stesso della redenzione dal male, dal negativo. Questo è il principio dello Storicismo assoluto, che espunge ogni residuo di trascendenza dalla storia. Nel saggio Contro la «storia universale» e i falsi universali. Encomio dell’individualità (1943), Croce scrive:
E quando nel lavorare con gli altri esseri, nella famiglia, nella società, nello stato, nella patria, nascono le discordie e i malintesi tra loro e noi, e le crisi dolorose, non sacrifichiamo già a loro la nostra individua coscienza, ma facciamo parte da noi stessi, ci opponiamo a tutti, ci ripetiamo per conforto le parole superbe dei poeti, e in quest’atto, e in modo più degno, a tutti ci ricongiungiamo, famiglia, patria, stato, umanità, e con loro tutti, in modo nascosto e salutare, collaboriamo, perché ritroviamo nella nostra individualità l’universalità, Dio che c’ispira, Dio che ci guida e ci sorregge, Dio alla cui gloria serviamo. E questa perpetua redenzione, questa perpetua salvazione che l’individuo attua in sé di sé, è – come le due precedenti della libertà di pensiero e di azione – la definizione della religiosità[45. B. Croce, Contro la «storia universale» e i falsi universali. Encomio dell’individualità, in Id., Discorsi di varia filosofia, 2 voll., a cura di A. Penna e G. Giannini, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2011, vol. I, pp. 161-62.].
Tutti, dunque, dobbiamo cooperare per il progresso dell’umanità e della vita, superando l’egoismo che distrugge la realtà, in quanto tende a imporre su di essa il volere di un soggetto ipertrofico. In questo modo siamo anche in relazione con il Dio che è in noi, l’universale Spirito creatore. Croce sapeva benissimo, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che la minaccia dell’Anticristo, che è in noi, è sempre alle porte.
Il vero Anticristo – scrive Croce – sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo, opposto al Cristo: L’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione[46. B. Croce, L’Anticristo che è in noi, in Id., Filosofia e storiografia, a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 293-94.].
Di fronte a questo pericolo sempre presente, Croce, in un saggio, scritto nell’ultimo periodo della sua vita, dal titolo Universalità e individualità nella storia, cerca di rispondere a una domanda che risorge continuamente, e cioè «quale sia il soggetto della storia, Dio o gli uomini, l’universale o gl’individui?»[47. B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Id., Terze pagine sparse, 2 voll., Bari, Laterza, 1955, vol. I, p. 51.]. Qui Croce afferma che l’universale è composto dalle varie individualità che in esso trovano la loro unificazione. Egli scrive:
Quasiché la risposta non sia stata data, col considerare «soggetto» non quello che, per non fare troppe innovazioni nel parlare e lasciando correre la terminologia usuale della vecchia logica formalistica, si chiama a quel modo nella teoria del giudizio, cioè il termine distinto e fuso col predicato, ma la fusione per l’appunto dei due, la sintesi in cui nessuno dei due si può isolare senza dissiparla. Sono ben comprensibili le difficoltà che s’incontrano nel pensare concetti come questi non classificatorî ma dialettici, e ai quali le obiezioni vengono non dall’alto ma dal basso, dall’abito della logica formalistica o empirica. Ma, come noi abbiamo fatto valere che distinzione e unità spirituale sono il medesimo, perché l’unità non è se non unità di distinzione, altrimenti non sarebbe speculativa e concreta ma astratta e matematica e vuota, così bisogna intendere che l’universale è universale di individualità ossia delle individualità in relazione l’una dell’altra che tutte lo compongono e in esso si unificano. (…) E per questo abbiamo sempre battuto sul punto che il soggetto della storia sono le opere, e non già l’astratto universale o gli astratti individui[48. Ivi, pp. 51-52.].
Accanto al rapporto che unisce universalità e individualità, Croce pone quello di «personalità». Ogni uomo, secondo Croce, possiede una vocazione, potremmo dire un Beruf, nella propria coscienza, una disposizione naturale, che lo spinge ad agire. Croce scrive:
Orsù, diciamo dunque, prima di chiudere questa conversazione, due parole sulla personalità, del cui concetto ho già avuto occasione di trattare in miei libri, e qui giova solo indicare il posto che esso tiene. E questo posto non è nell’ordine dei concetti coi quali si chiarisce e definisce la storicità, ma in quello degli altri attinenti alla pratica, alla volontà, all’azione, che pone come dovere all’uomo la formazione di un proprio carattere, conforme alla disposizione o vocazione di cui egli sente nella sua coscienza la voce, di una propria e coerente personalità che sia saldo strumento di azione. E nel molto discorrere – continua Croce – che oggi se ne fa, non sempre dalla semplice forma volitiva di essa, nella quale può essere posseduta anche da un uomo rozzo e perverso, si distingue la forma superiore o morale, poco gradita e prosaica agli occhi dei letterati decadenti dei nostri tempi. Anche la personalità morale, al pari dell’individualità in generale, nella storia vale soltanto per l’opera e nell’opera a cui partecipa e in cui si risolve[49. Ivi, pp. 53-54.].
In un precedente saggio, dal titolo Esperienze storiche attuali e conclusioni per la storiografia (1948), Croce chiarisce quest’aspetto:
Poiché la storia non si muove per virtù di un disegno trascendente e di una guida che le stia di sopra, cioè sia fuori di essa ed esterna, né è effetto di una causa, cioè riportabile a un fatto o a un particolare ordine di fatti, non rimane se non pensarla, come umana che essa è, con motivi e ragioni umane, con le medesime con le quali pensiamo e possediamo noi stessi operando, e con esse tutte insieme, logica e fantasia e volontà e azione e coscienza morale e religiosa, tutte nella loro armonia e vivente unità, come il Dio sempre in noi presente, che è e non è noi stessi, e noi stessi siamo e non siamo noi, e ci solleviamo e ci affermiamo in ogni istante, e non ci perdiamo mai del tutto, non potendo rinnegare mai del tutto l’esser nostro umano, capace sempre di redenzione, onde la storia è stata non una volta sola definita una «teofania», nella quale il divino si travaglia e opera incarnato nell’umano, che di esso soffre e da esso attinge coraggio e pazienza. Solo così la storia acquista un senso, cioè ha un senso; né mai l’ha ottenuto o può ottenerlo d’altronde[50. B. Croce, Esperienze storiche attuali e conclusioni per la storiografia, in Id., Filosofia e storiografia, op. cit., p. 309. ].
Croce, utilizzando il linguaggio simbolico della religione, sapeva che non era possibile «distaccare Dio dal mondo, l’universale dall’individuale, il creatore dalla creatura, e tornare al Geova ebraico, troppo leggermente dimenticando il Dio-uomo che fu Gesù»[51. B. Croce, Universalità e individualità nella storia, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 51.]. La storia si presenta, dunque, come una continua Menschwerdung, un continuo farsi uomo di Dio attraverso la storia stessa e gli individui che la fanno. Solo attraverso questa tensione e questa unità di universale e individuale teniamo, e qui Croce cita una famosa espressione del Warburg, «sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare»[52. B. Croce, L’uomo vive nella verità, in Id., Terze pagine sparse, op. cit., vol. I, p. 14.]. Questo universale, lo Spirito, il Dio vivente, è il risultato di quelle individualità stesse che in esso agiscono, vivono e periscono.
5. Lo Spirito come Dio
Lo Spirito non è solo la Storia, la Realtà, la Vita. “Spirito” è, nel noto saggio Perché non possiamo non dirci «cristiani» (1942), la trasfigurazione del Dio cristiano, del Dio che si fa immanente nell’uomo, che pensa e agisce nella storia. Per Croce il cristianesimo
è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparsa o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo[53. B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», in Id., Discorsi di varia filosofia, op. cit., vol. I, p. 18.].
Non dobbiamo lasciarci ingannare da queste parole, come se rappresentassero un desiderio di trascendenza di contro allo storicismo assoluto, perché subito dopo Croce dice che tutte le rivoluzioni storiche e «anche la rivoluzione cristiana fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi»[54. Ivi, p. 19.]. Il cristianesimo porta nel mondo un nuovo modo di vivere la morale e il concetto di Spirito. La morale trova il suo fondamento nell’amore, «amore verso tutti gli uomini, senza distinzioni di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo»[55. Ivi, p. 20.]. Il concetto di Spirito
è l’eterno creatore delle cose e l’unico principio di spiegazione; s’instaurava il concetto dello spirito, e Dio stesso non fu più concepito come indifferenziata unità astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme, perché vivente e fonte di ogni vita, uno e trino[56. Ibidem.].
Tutto questo, che Croce definisce come «nuovo atteggiamento morale» e «nuovo concetto», si presentò «in parte»[57. Ivi, p. 21.] in forma mitica. Il cristianesimo, però, di cui il filosofo rivendica l’appartenenza alla storia dell’Occidente, è un codice puramente morale. Croce, infatti, non era per nulla propenso alla dogmatica o alle altre dottrine della religione cristiana. Croce scrive:
Quei genî della profonda azione, Gesù, Paolo, l’autore del quarto evangelio, e gli altri che con essi variamente cooperarono nella prima età cristiana, sembravano col loro stesso esempio, poiché fervido e senza posa era stato il loro travaglio di pensiero e di vita, chiedere che l’insegnamento da loro fornito fosse non solo una fonte di acqua zampillante da attingervi in eterno, o simile alla vite i cui palmiti portano frutti, ma incessantemente opera, viva e plastica, a dominare il corso della storia e a soddisfare le nuove esigenze e le nuove domande che essi non sentirono e non si proposero e che si sarebbero generate di poi dal seno della realtà[58. Ivi, p. 25.].
Il Gesù storico, come Paolo e Giovanni, è solo un maestro di morale. Eppure, il filosofo si chiede se «un’altra rivelazione e religione, pari o maggiore di questa che lo Hegel definiva la “religione assoluta”, accadrà nell’uman genere, in avvenire di cui non si vede ora il più piccolo barlume»[59. Ivi, pp. 28-29.]. Fino a quel momento dobbiamo continuare a conservare come nostra la religione cristiana, trasfigurando i suoi stessi concetti. In questo senso deve essere letta la conclusione del saggio. Croce scrive:
E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e dignificata come «logica umana», ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi «divina», intendendola nel senso cristiano come quella alla quale l’uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo[60. Ivi, p. 29.].
Il laico Croce, dunque, si appropria “barbaricamente” del Dio cristiano, traducendolo nel proprio concetto filosofico di Spirito. Ciò significa porsi anche in continuità con la religione tradizionale, quale cifra dell’identità dell’Occidente.
6. L’introduzione del bio-logico nello Spirito
Nel saggio Sulla teoria della distinzione (1946), Croce scrive che con l’integrazione di «un quarto termine, l’Utile o l’Economico o il Vitale o come altro voglia chiamarsi, illogicamente spregiato e calunniato e considerato materialistico dai filosofi che non osavano ribellarsi alla concezione triadica tradizionale, dettata da una sorta di inconsapevole pedagogica educativa, ma speculativamente non giustificabile», aveva preparato e avviato
la soluzione del dualismo di spirito e natura, di anima e di corpo, di realtà interna e realtà esterna, svelando questo mistero che l’uomo fabbrica a sé stesso, quando lascia che l’immaginazione soverchi il pensiero e lo spinga all’inerzia o al delirio del trascendente: un mistero che era di quelli che, come diceva il Goethe in simile occasione, resta tale sol perché niemand hört’s gerne, a nessuno piace di apprenderne la semplice spiegazione e di abbandonare le congiunte illusioni e le non savie speranze[61. B. Croce, Sulla teoria della distinzione, in Id., Filosofia e storiografia, op. cit., p. 24.].
Per Croce la Vitalità, che nella Storia come pensiero e come azione era la premessa necessaria della civiltà e della moralità, perché senza di essa mancherebbe la materia da indirizzare e plasmare, è «la forma della mera individualità, che crea e mantiene sé stessa e fa valere con le altre», le Categorie, «il suo diritto nella dialettica e nell’unità spirituale»[62. Ivi, p. 25.]. Alla Vitalità appartiene, osserva Croce nel saggio Anima e corpo. La forma vitale tra le altre forme spirituali (1947), la dialettica «del piacere e del dolore, che l’individuo percorre nel suo corso vitale, di continuo superando il dolore nel piacere e di continuo affrontando il nuovo dolore, nato dal piacere»[63. B. Croce, Anima e corpo. La forma vitale tra le altre forme spirituali, in Id., Filosofia e storiografia, op. cit., pp. 209-10.]. In essa rientra anche «il sogno della felicità e della beatitudine: ideale che non solo è il contrario della realtà, ma che anche mal si accorda con l’ideale morale e intellettuale e poetico, perché solo la sventura e i dolori nutrono il pensiero, ispirano la poesia, temprano l’azione, fanno che l’uomo sia uomo». Ma, continua Croce,
preso nel senso empirico come ricerca del benessere, o piuttosto di periodi o di respiri di benessere, che sono e si sanno transitorî, di relativo benessere, anch’esso è innocente e salutare perché rende possibile di raccogliere i frutti che l’uomo è venuto preparando con le sue svariate esperienze e che richiedono calma e fiducia e un allegro lavorare per essere portati a maturazione[64. Ivi, p. 211.].
Questa Categoria, però, non comprende soltanto la dialettica di piacere e dolore. Come osserva Renata Viti Cavaliere, «nell’estrema vecchiaia Croce parlò della Grund-Form dell’Utile come del fondamento di una teoria delle passioni, che gli aveva consentito di assegnare alla Vitalità (che è l’Utile ripensato nella fitta trama delle vicende storiche del Novecento) i concetti di natura e di corporeità, di desiderio e di felicità, senza staccarli dalla realtà dello spirito vivente e senza relegarli nel mistero dell’inconscio, ridotti al rango inferiore di ciò che è per definizione irrelato»[65. R. Viti Cavaliere, Storia e umanità. Note e discussioni crociane, Napoli, Loffredo, 2006, p. 83.]. Infatti, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952), ultimo libro del filosofo, ha al centro dell’interesse dell’autore proprio la categoria della Vitalità. Nel saggio Intorno alla categoria della vitalità, contenuto nel volume appena citato, Croce scrive «la forma che designai come dell’Utile o dell’Economico, e di poi, e forse meglio, della pura e semplice Vitalità: quarta categoria, che ampliava quel numero sacro della triade alla tetrade, che anch’essa figurò nell’antichità presso alcuni popoli come sacra ed è, come forse non è l’altra, ricca di corrispondenze e d’interne armonie, che i pitagorici avvertirono»[66. B. Croce, Intorno alla categoria della vitalità, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1998, p. 143.]. La Categoria della Vitalità è la categoria bio-logica. Il filosofo definisce la Vitalità come
terribile forza questa, per sé affatto amorale, della vitalità, che genera e asservisce o divora gli individui, che è gioia ed è dolore, che è epopea ed è tragedia, che è riso ed è pianto, che fa che l’uomo ora si senta pari a un Dio, ora miserabile e vile; terribile forza che la poesia doma e trasfigura con la magia della bellezza, il pensiero discerne e conosce nella sua realtà e nella realtà delle sue illusioni, e la coscienza e volontà morale impronta di sé e santifica, ma che svela sempre la sua forza propria, con le sue ragioni che si fanno valere oltre la nostra volontà e riimmergono di volta in volta l’umanità nella barbarie, che precede la civiltà, e alla civiltà succede interrompendola per far sorgere in lei nuove condizioni e nuove premesse. L’uomo non può negare il diritto di essa, la forza della vitalità, perché le appartiene, come non può negare quelle della poesia, del pensiero, della vita morale, alle quali parimente appartiene, né può negare lo spirito in universale, perché l’ha in sé come sua forma eterna[67. Ivi, pp. 144-45.].
Questa categoria è
cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore. Essa offre la «materia» alle categorie successive, giusta la legge che regge il circolo delle categorie, che quella, che prima fu «forma», si presta poi all’ufficio di «materia»; né solo offre la materia, ma dà la cooperazione, fornendo alle forme successive le forze che furono sue. In effetto, quelle resterebbero senza voce e senza gesto, impotenti ad esprimersi, se non le soccorresse la forma vitale che dà alle loro verità, ai loro sogni di bellezza, alle loro azioni sublimi ed eroiche il piacere e il dolore, comune manifestazione in cui culmina ogni vita[68. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica (Del nesso tra la vitalità e la dialettica), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 43.].
La Vitalità crea l’esigenza dell’agone con cui l’uomo può esprimersi e liberarsi. «L’individuo – scrive Croce – nel corso della sua vita è il Christus patiens di dolori terribili e di casi atroci, e ognuno di noi ne porta il ricordo del quale a volte non trova il modo di disfarsi e pensa che solo con la morte potrà non più offenderlo»[69. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica (La vita, la morte e il dovere), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 55.]. La Vitalità, che permette all’uomo di sollevarsi dagli errori, dagli egoismi, dalle passioni smodate e dai mali, attraversa la storia e la vita degli individui, e questa categoria, questa forza, è una forma eterna dello Spirito, cha ha pari dignità delle altre forme spirituali. Croce scrive:
Finalmente io non credo che si possa parlare di categorie inferiori e categorie superiori e scoprire che una di esse, quella dell’utile o del vitale, sia più debole delle altre per degradarla rispetto alle altre e toglierle il carattere di categorie. Sta di fatto che in quella si elabora ed educa la correzione della volontà disordinata e violenta e pur debole, e le si sostituisce l’opposta idea, della volontà risoluta e incrollabile, premessa della vita morale. Certamente questa volontà risoluta ha bisogno di affermarsi come accade nella vita morale, e quegli elementi di forza vengono nella cerchia morale adoperati pel nuovo fine. Tutte le categorie sono forti e deboli, e tutte attingono la loro perfezione nell’unità dello spirito, in cui l’una sta per l’altra e con le altre[70. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica (Obiezioni non valide), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., p. 59.].
(fasc. 13, 25 febbraio 2017)