Quando pensiamo al concetto di “modernità”, il nostro pensiero è condizionato da determinate categorie a priori che fungono da presupposto per una qualunque indagine o analisi del concetto. La “laicità” e il “secolarismo” figurano tra queste categorie.
È uso comune identificare, sia sul piano formale sia su quello sostanziale, “ciò che è moderno” con “ciò che è laico”. In tal senso, la laicità si colloca sin dall’inizio dell’epoca moderna in una relazione dicotomica con la religione. Dicotomia che viene concepita come un’opposizione strutturale: ciò che è laico non può permettersi aperture verso ciò che è religioso. Questi due campi possiedono differenti sfere di influenza ed evenemenzialità storica: sono campi che non dovrebbero essere confusi o mescolati, delimitando spazi sociali pertinenti ad ambiti diversi. Se la religione pertiene a ciò che è “personale”, la laicità pertiene a ciò che è “pubblico”. Tuttavia, una branca del pensiero filosofico attuale, specialmente nella cultura anglo-sassone, spinge tale separazione e categorizzazione oltre una semplice delimitazione tecnica dei due fenomeni, e trasforma il “religioso” e il “laico” in vere e proprie categorie dello spirito umano. “Religione” e “laicità” divengono, così, termini definitori che distinguono due “modalità opposte d’esistenza”, ognuna facente riferimento a diversi “contenuti di coscienza”.
In questa interpretazione del problema, l’individuo laico possiederebbe una mentalità “scientifica” e agirebbe in un campo d’azione storica del tutto priva di misticismo, di superstizione e di “fede”. Il suo mondo si svilupperebbe unicamente secondo le regole della causalità meccanica e attraverso contenuti di coscienza basati sulla ragione, sull’analisi, svelando uno sguardo rivolto esclusivamente a ciò che è “immanente”. L’individuo religioso, al contrario, interagirebbe col mondo in virtù di uno sguardo rivolto al “trascendente” e il suo campo d’azione storica e vitale sarebbe improntato al misticismo, ai costumi, alla tradizione e all’autorità religiosa. Si appellerebbe a contenuti di coscienza come la “fede”, la “credenza” e, più in generale, svelerebbe un’attitudine a favore dell’“irrazionalità”.
Una così rozza schematizzazione presenta la questione nei suoi termini estremi e generali, laddove l’attuale controversia accademica è certamente più complessa e raffinata. Tuttavia, una volta che si è analizzata a fondo anche la più sofisticata delle analisi filosofiche, questa dicotomia riprende forza e appare come la struttura fondante del dibattito. Alcuni degli autori più discussi nel dibattito politico e filosofico contemporaneo vi fanno riferimento in maniera quasi pedissequa e automatica, cosa che non fa che rinforzare l’interpretazione del problema presentata in tale studio. Francis Fukuyama, per esempio, descrive la religione come fenomeno «meno razionale» del laicismo liberale[1. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, a cura di D. Ceni, Milano, Rizzoli, 1992 (ed. orig.: The End of History and The Last Man, New York, The Free Press, 1992). Introduzione: XIX e pp. 61-64. Nel lavoro di Fukuyama, la religione è, al più, un fenomeno ideologico atto a mascherare i rapporti di forza nelle società “retrive” e ancora “immerse nella storia”.]. Un altro autore americano, Ronald Dworkin, descrive il «temperamento religioso» come la tendenza a collocare la fonte del «mandato morale» di una società in una rappresentazione metafisica dell’universo, usualmente connessa a un’immagine divina[2. R. Dworkin, Giustizia per i ricci, a cura di V. Ottonelli, Milano, Feltrinelli, 2013 (ed. orig.: Justice for Hedgehogs, London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2011), pp. 214-18.]. Questa rappresentazione schematica e dicotomica del “religioso” contro il “secolare” influenza persino quei pensatori che mostrano l’intenzione di difendere il fenomeno religioso nel contesto contemporaneo. In tal senso Charles Taylor, col suo lavoro A Secular Age[3. C. Taylor, L’età Secolare, a cura di P. Costa, Milano, Feltrinelli, 2009 (ed. orig.: A Secular Age, London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2007).], rappresenta l’esempio perfetto dello scontro di “religione” e “laicità”, interpretate come i termini di una dialettica di opposti l’un contro l’altro armati.
In A Secular Age, Taylor propone una narrazione storica in cui lo sviluppo della modernità viene descritto come «fenomeno positivo», non nato unicamente dalla “negazione” del fenomeno religioso pre-moderno. Unitamente a tale narrazione, il Taylor propone anche un recupero della trascendenza come fenomeno spirituale, in modi e usi compatibili con la laicità moderna. Tuttavia Taylor, per sviluppare tale proposta, finisce col ri-affermare la radicale differenza e opposizione tra laicità e religione. Fallisce proprio nel suo scopo fondamentale: presentare la modernità come un fenomeno positivo e, almeno in parte, autonomo. I due fenomeni sono iscritti in una dialettica storica dal sapore hegeliano, ove la laicità moderna funge da antitesi per il fenomeno religioso pre-moderno. Il recupero della trascendenza, sotto forma di «fede aperta» («open faith») costituirebbe, in questa narrazione, la sintesi tesa a risolvere il conflitto tra i membri della dicotomia “religione/laicità”. Tuttavia, questo rafforza la rappresentazione della laicità puramente come fenomeno negatorio della tesi religiosa e rinforza la percezione dei due fenomeni come opposti stati esistenziali degli individui e delle società occidentali.
Il mio studio si concentra sull’hegelismo di Taylor, sulla sua pedissequa applicazione di categorie e strutture tipiche della dialettica di Hegel. Nella prima parte del mio saggio affermo con convinzione che Taylor riapplica, in chiave sociologica, motivi e temi propri della dialettica hegeliana. Potremmo definire il suo lavoro A Secular Age come un caso di “hegelismo sociologico”. Nella seconda parte di questo studio saranno proprio i temi hegeliani a essere sottoposti ad analisi. Ricorrendo alla critica di Benedetto Croce alla dialettica di Hegel, dimostrerò come la narrazione presentata da Taylor circa le origini della modernità fallisca nel creare una vera “storia” della civiltà occidentale. Troppi i punti oscuri, troppe le problematiche ignorate per poter considerare il lavoro di Taylor sufficiente per raggiungere una piena auto-coscienza dei movimenti e dei fatti che hanno caratterizzato la transizione verso e attraverso la modernità. La dialettica tayloriana risulta un meccanismo sterile, che semplifica il divenire storico attraverso categorie onnicomprensive applicate come macigni sui fatti storico-culturali.
L’hegelismo di Taylor
Charles Taylor è stato già definito in varie istanze un filosofo hegeliano[4. Un esempio può essere trovato nella recensione di A Secular Age scritta da M. L. Morgan (University of Notre-Dame, «Notre-Dame Philosophical Reviews» online journal – 2008), in cui è affermato, ripetutamente, che il lavoro di Taylor trova profonda ispirazione nella filosofia di Hegel. Un altro esempio è la recensione scritta da C. Calhoun (Review: a secular age by Charles Taylor, Cambridge, Harvard University Press, 2007) in cui è affermato che Taylor è uno degli studiosi di Hegel più affermati in ambito anglosassone. In aggiunta, R. Abbey, nella sua introduzione alla filosofia del Taylor (Charles Taylor, Acumen, Teddington, 2000), afferma che uno degli aspetti fondamentali del lavoro del filosofo, cioè la sua continua insistenza sulla possibile riconciliazione tra opposti fenomeni sociali, è da rintracciarsi nel suo debito verso Hegel.]. Tuttavia, manca finora un serio studio che dimostri il peso del debito filosofico che Taylor nutre nei confronti del pensiero di Hegel. Uno dei lavori che più articola tale analisi è il saggio di Vincent Descombes, Is there an objective Spirit[5. V. Descombes, Is there an objective Spirit, in Philosophy in an Age of Pluralism: the philosophy of Charles Taylor in question, a cura di J. Tully, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.]. Descombes analizza l’interpretazione di Taylor circa il concetto di “spirito oggettivo”, sostenendo che nella sua narrazione è presente un progressivismo tipicamente hegeliano, articolato attraverso un bagaglio di concetti tratti dal pensiero di Hegel, privati però del loro valore ontologico e usati come strumenti di indagine sociale[6. Ivi, pp. 96-97.]. La filosofia di Taylor poggia sull’assunto che la vita sociale non sia riducibile alle necessità della vita comune, come vorrebbe il liberalismo individualista. La vita sociale, al contrario, è investita di “significato”. L’individuo che partecipa al vivere sociale ottiene, oltre alle oggettive sicurezze e ai vantaggi materiali, anche un fondamentale strumento di significazione dei fatti storici e sociali[7. Ivi, pp. 97-98.]. In tal caso, la posta in gioco per una corretta comprensione della filosofia di Taylor sarebbe quella di analizzare l’effettiva realtà di questo processo di significazione, che Descombes paragona allo “spirito oggettivo” hegeliano. Questo deve essere compreso come uno «stato mentale condiviso», una serie di condizioni attraverso le quali è possibile una qualunque attività sociale intelligibile all’interno della comunità. Gli individui sarebbero soggetti a tale condizione in maniera pre-conscia, senza il loro diretto ed espresso assenso; una grande narrazione in cui l’individuo è avvolto sin dal momento della sua nascita[8. Ivi, pp. 97-100.]. La strategia filosofica di Taylor ha, dunque, un duplice scopo: dimostrare che la vita sociale poggia su di un «significato comune» e provare che questo significato comune, assai simile all’hegeliano “spirito oggettivo”, si esprime attraverso le istituzioni di una data società. Ciò vuol dire che tali istituzioni ricoprono la funzione simile a quella di un linguaggio: esprimono e realizzano un significato intrinseco alla società di riferimento[9. Ivi, p. 106.].
Si può condividere l’analisi di Descombes circa la somiglianza tra lo “spirito oggettivo” hegeliano e lo “stato mentale condiviso” di Taylor. Tuttavia, è mia ferma convinzione che le similitudini non si fermino a questo specifico aspetto. Tutta la filosofia di Taylor è da intendersi, a mio avviso, come un grande adattamento della filosofia hegeliana agli studi sociologici e storici. Ci troviamo di fronte a meccanismi tipicamente hegeliani, privati, però, di qualunque riferimento al concetto di “spirito”, o Geist. Proprio attraverso le categorie hegeliane Taylor desidera ottenere la “sintesi” tra religione e laicità. E, tuttavia, l’uso pedissequo delle categorie hegeliane rappresenta il limite del suo impianto filosofico; limite che è rintracciabile nella trasformazione del processo storico in un meccanismo dialettico che si dipana attraverso radicali opposizioni. Nel caso della modernità, il meccanismo è focalizzato sull’opposizione tra laicità e religione. Taylor articola questo conflitto fondamentale attraverso il concetto di “immaginario sociale” e il passaggio, nella società occidentale, da un immaginario cristiano e religioso a uno laico e moderno.
In Modern Social Imaginaries[10. C. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, a cura di P. Costa, Roma, Meltemi, 2004 (ed. orig.: Modern Social Imaginaries, London, Duke University Press, 2004).], Taylor descrive l’immaginario sociale come una struttura epistemica attraverso la quale l’individuo è capace di interpretare le sue relazioni sociali e di inscriverle all’interno di un vissuto quotidiano[11. Ivi, p. 23.]. Non è semplicemente una struttura relazionale, ma un impianto socio-normativo che permette all’individuo di ottenere un senso di come le cose “dovrebbero funzionare” a livello morale e sociale. L’immaginario sociale genera, così, un senso strutturale circa quali pratiche sono accettabili socialmente e quali no, in un modo sia fattuale sia normativo[12. Ivi, pp. 25-26.]. In A Secular Age, questo punto è mantenuto e anzi riaffermato da Taylor con maggior forza. Egli inscrive l’immaginario sociale in un processo dialettico di continuo miglioramento e progressivo incremento. Ogni epoca rappresenta un «guadagno epistemico» nei confronti dell’epoca precedente. Ogni era comprende meglio sia le leggi fisiche sia quelle morali che governano e strutturano la vita umana. Secondo Taylor, l’immaginario sociale moderno è stato trasformato attraverso la filosofia di Locke e di Grozio, abbandonando così le forme cristiane premoderne e acquisendo quelle moderno-contemporanee[13. C. Taylor, A Secular Age, op. cit., p. 24.]. Grazie alla filosofia naturale di Locke e all’ordine normativo di Grozio, la società moderna ha raggiunto una specifica sensibilità storico-morale, secondo la quale l’ordine sociale esiste per il mutuo vantaggio degli individui che ne fanno parte, e per garantire i loro diritti[14. Ibidem.]. In questo modo poté essere concepito un nuovo ordine sociale, non più organizzato attorno alla gloria divina, e in cui gli individui si ritrovano assieme seguendo determinate regole morali pre-esistenti. Tale panorama normativo moderno, in cui gli individui sono immersi, era organizzato attorno ai “diritti naturali” che si credevano essere insiti nella natura umana in quanto tale[15. Ivi, pp. 4-8.].
In una struttura teoretica di tal guisa non è difficile scorgere una straordinaria somiglianza tra il concetto tayloriano di “immaginario sociale” e quello hegeliano di Sittlichkeit. La Sittlichkeit, in Hegel, rappresenta quell’insieme di doveri e norme che l’individuo possiede in virtù della sua appartenenza a una comunità[16. Le traduzioni anglosassoni del termine adoperano lemmi quali Objective Ethics, ethical life o concrete ethics. Ritengo, tuttavia, che tali traduzioni limitino il campo di applicazione e di realtà rappresentato dal termine. È uso comune, nelle traduzioni italiane, usare il termine ‘moralità’ per indicare la Sittlichkeit. Tuttavia più preciso ritengo essere il termine ‘rettitudine’.]. La Sittlichkeit, come l’immaginario sociale, va riferita a una vita comunitaria già in atto al momento della nascita e contribuisce allo sviluppo dell’eticità dell’individuo[17. Con il termine Sittlich Hegel indica l’etica del singolo individuo, la cui fonte è collocata nella Sittlichkeit. Le origini dell’etica individuale, per Hegel, vanno sempre a ritrovarsi negli usi e nel costume della cultura di provenienza. Per una discussione più approfondita sulla Sittlichkeit hegeliana, si vedano: A. Ferrarin, Hegel and Aristotle, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 325-72; P. Singer, Hegel, Oxford, Oxford University Press, 1983, pp. 24-44.]. Gli usi e costumi sono perciò attivi quando l’individuo entra in contatto con loro e in ciò consiste il carattere di obbligatorietà delle norme sociali che comporta la necessità di mantenere in essere la loro esistenza. L’ordine etico della Sittlichkeit, quindi, è differente dalla Moralität[18. Hegel usa il termine Moralität in senso kantiano ed è tale interpretazione che egli desidera criticare. Per Hegel, Kant ha commesso l’errore di ritenere la moralità umana come totalmente indipendente dal sostrato culturale (secondo un presupposto tipicamente illuminista). Questa libertà assoluta è ciò che, secondo Hegel, condusse al fallimento la rivoluzione francese. Per maggiori informazioni sulla critica hegeliana a Kant si veda: E. Caird, Hegel, Cambridge, Cambridge Scholars Press Ltd., 2002, Chapter VI.], il cui tentativo è invece quello di realizzare qualcosa di non già-esistente, un mandato morale che, a seconda dei casi, può essere anche contrario ai costumi vigenti. Il senso del dovere presentato dalla Moralität non è fondato su un senso di appartenenza alla comunità, ma riguarda l’individuo in quanto volontà razionale[19. Hegel, Elements of the Philosophy of Right, translated by H. B. Nisbet, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, p. 193 (originale: Grundlinien der Philosophie des Rechts, del 1821, tradotto in italiano col titolo Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Milano, Rusconi, 1996).]. Taylor, in Hegel and Modern Society, riprende il concetto hegeliano per il quale l’umanità raggiunge l’auto-compimento morale nel momento in cui raggiunge un grado superiore di Sittlichkeit[20. C. Taylor, Hegel e la società moderna, a cura di M. Ferraris, Bologna, Il Mulino, 1984 (Hegel and Modern Society, London, Cambridge University Press, 1979), pp. 82-84. Taylor, con la sua descrizione della Sittlichkeit come forma più alta di eticità, afferma una continuità concettuale tra Hegel e la politica aristoteliana.]. Taylor si concentra sul fatto che, quando parliamo di “identità” della persona, stiamo sempre discutendo di un fenomeno culturalmente situato. Ḕ possibile distinguere un individuo dalla sua comunità solo in quanto “organismo” umano; se, invece, pensiamo al concetto di “essere umano” o di “persona”, allora non possiamo fare a meno di identificare una serie di relazioni sociali, morali e culturali che contribuiscono a plasmare l’identità dell’individuo. Ciò che siamo in quanto esseri umani, afferma il Taylor, «lo siamo solo in quanto parte di una comunità culturale»[21. Ivi, p. 87.].
Questo processo di miglioramento costante della Sittlichkeit, o ‘immaginario sociale’, è collocato da Taylor in una prospettiva storica che è, e resta, essenzialmente hegeliana. Nel volume Hegel[22. C. Taylor, Hegel, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, pp. 130-34.], Taylor propone un’applicazione della dialettica hegeliana agli studi storici e sociologici, rimuovendo ogni richiamo al concetto di Geist o ogni riferimento onto-teologico a uno spirito cosmico. Ciò che resta è un movimento storico dialettico in cui la società umana, in particolare quella occidentale, raggiunge stadi sempre superiori di immaginario sociale, ognuno nato dalla negazione del precedente, in quanto risoluzione delle contraddizioni portate alla luce dalla crisi dell’immaginario precedente. Taylor considera tutta la storia umana come un continuo, grande movimento dialettico, in cui vige un determinato standard morale, utilizzato come termine di paragone, dove a una sua inadeguata applicazione nel contesto storico-sociale segue il tentativo continuo di realizzare lo stesso standard in misure sempre più perfette e superiori[23. Ivi, p. 134.]. In A Secular Age, Taylor identifica lo standard morale universale in una fondamentale «idea del bene», inerente all’animo umano, realizzata nei vari contesti storici attraverso il raggiungimento di un «senso di pienezza» nelle nostre vite, nel momento dunque in cui l’idea del “bene” viene espressa e vissuta nella sua forma più pura[24. C. Taylor, A Secular Age, op. cit., pp. 29-33; si veda anche il cap. V.].
Il libro A Secular Age va interpretato come una grande narrazione dialettica in cui l’epoca cristiana, organizzata attorno all’immaginario sociale della trascendenza, trova espressione solo nella forma religiosa. La cristianità è la “tesi”, un fenomeno coerente e consistente che ha mantenuto la pace e la stabilità sociale, ha permesso il mantenimento di un «senso di pienezza» attraverso gli immaginari sociali strutturati attorno alla figura di Dio, alle leggi divine e al mondo incantato della superstizione e degli spiriti. Come nella dialettica hegeliana, la cristianità si auto-sviluppa e rafforza secondo istituzioni e linguaggi a essa conformi, rigettando ogni alternativa che possa minacciare la sua stabile identità. La modernità, invece, rappresenta l’opposizione alla cristianità. Organizzata attorno a immaginari sociali “immanenti”, la modernità rappresenta la negazione della forma religiosa e, pertanto, la laicità sarà la sua forma più pura e naturale. In virtù di questa dialettica, Taylor può affermare che l’epoca moderna è stata un’epoca «senza precedenti», un fenomeno straordinario[25. Ivi, p. 218.]. L’antitesi, infatti, trova la propria origine unicamente nella negazione della tesi e nelle sue contraddizioni interne. Essa non è anticipata da “avvisaglie”, né è influenzata in maniera “positiva” dalla tesi. In questo modo, la modernità, secondo Taylor, poteva nascere unicamente nel momento in cui l’immaginario sociale dell’epoca cristiana era entrato in crisi, spaccandosi nelle sue interne contraddizioni. Ciò ha scatenato il caos delle guerre di religione, che ha poi condotto alla negazione in toto del fenomeno religioso, forzando le autorità e le strutture europee del tempo a cercare forme di legittimità in altre fonti, stavolta immanenti e al di fuori del campo di influenza delle autorità religiose. In questo fenomeno sta la genesi della modernità.
La laicità moderna, quindi, rappresenta sia l’antitesi della religiosità premoderna, in senso generale, sia, in un senso più particolare, il tentativo di risolvere le contraddizioni dell’immaginario sociale precedente. L’unica possibile fine di questo processo ˗ Taylor in A Secular Age lo esprime chiaramente ˗ è il raggiungimento di una finale sintesi storica tra laicità e religione, in cui il trascendente, espressione tipica del pensiero religioso, sia armonizzato con l’immanente, tipico del pensiero laico, in nuove forme che garantiscano la pace e la concordia sociale. Il processo storico secondo Taylor può solo trovare compimento in un’unificazione degli opposti, nella loro sintesi. Ciò che è stato perso della tesi, vale a dire la trascendenza e la spiritualità, deve essere recuperato secondo nuovi modi e forme che non escludano l’antitesi. La ricerca del nostro «senso di pienezza», oggi, deve riabbracciare il fenomeno religioso secondo nuove forme compatibili con la laicità moderna, così da raggiungere lo stato di «fede aperta» da Taylor auspicato. Tuttavia, tale struttura dialettica gli impedisce di concepire la modernità come fenomeno realmente positivo. Se la modernità rappresenta la negazione della cristianità e della trascendenza religiosa, allora le sue origini vanno ricercate unicamente in tale negazione. La struttura dialettica hegeliana, che secondo Taylor va applicata agli studi sociologici, diventa così l’ostacolo affinché il filosofo possa descrivere la modernità come evento “positivo” e creativo. Taylor cade in una narrazione negativa della modernità, in cui il cambiamento storico è riportato alla negazione dei precedenti «immaginari sociali» per raggiungere un senso più alto dell’idea del bene, o del senso di pienezza. Le crisi sono sintomi di un conflitto storico dialettico, mentre la storia stessa diventa schiava di categorie a priori, estrinseche e operanti al di fuori della storia.
Il “sentimento religioso” e la critica “crociana” a Hegel
Gli argomenti finora presentati non devono essere interpretati come un invito a disdegnare il lavoro di Taylor. A Secular Age rappresenta, in ogni caso, una pregevole narrazione storica circa la genesi della modernità. Egli è stato capace di identificare nodi centrali di questa genesi che non possono essere ignorati dall’accorto indagatore dei fatti storici. Tuttavia, lo scopo del mio studio è evidenziare come la pregevolezza degli studi di Taylor sia inficiata dal presupposto metodologico che vuole “religione” e “laicità” come «modi di esistenza» differenti all’interno della società occidentale. Lo sfondo hegeliano non fa che esasperare questo presupposto, anche per la volontà del filosofo canadese di ricercare una “sintesi” tra religione e laicità. Se tale presupposto è capace di influenzare un pensatore come Taylor, che pure cerca una riconciliazione tra i due fenomeni, possiamo ben immaginare a quali estremi esso possa essere spinto in una filosofia meno conciliatrice. In Taylor, quindi, il limite sta tutto nei suoi presupposti metodologici. Nella sua narrazione la realtà diventa un gioco di polarità. La religione, come momento dello spirito e della storia occidentale, si scontra con la sua negazione, la laicità moderna, la quale definisce piuttosto un’attività dello spirito totalmente “altra”. Si è incapaci di distinguere i concetti di “religione” e “laicità”, che pur servono a distinguere specifici fatti storici e indicano determinate conformazioni storico-culturali, dal «sentimento religioso» e dalla “razionalità” che, in quanto attività proprie dello spirito umano e della sua capacità creatrice, non possono essere identificate con definizioni tratte dai fatti storici. Croce, a tal proposito, offre l’esempio di una critica all’hegelismo assai più accorta ai costrutti teoretici.
In Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel[26. B. Croce, Ciò che è Vivo e ciò che è Morto della Filosofia di Hegel, Bari, Laterza, 1907.], Croce sottolinea che «pensare dialetticamente e pensare la teoria logica della dialettica sono due atti mentali distinti»[27. Ivi, p. 51.]. Allo stesso modo potremmo dire, nei confronti di Taylor, che pensare storicamente e pensare le teorie logiche di classificazione dei fatti storici sono due atti distinti del pensiero. Proprio Hegel, secondo Croce, ha indicato la via per comprendere che molte delle dualità con cui strutturiamo il nostro pensiero sono dualità astratte, nate dal bisogno di classificare la realtà che resta estremamente più complessa, sebbene unitaria nel suo essere[28. Ivi, pp. 51-53.].
Il bisogno di dividere la realtà in falsi opposti è dato dalla coscienza percettiva e legislatrice. Ḕ un processo storico-culturale attraverso cui una certa visione del mondo stabilisce il proprio senso di razionalità. Ḕ possibile creare un concetto di “arte” solo distinguendolo da ciò che è “non-arte”, così come, in generale, è possibile distinguere “l’essere” solo confrontandolo col “non-essere”. Tuttavia, una rigorosa analisi storico-culturale deve anche porsi la questione della “funzione” di tali distinzioni nel proprio contesto specifico, e deve anche saper operare una distinzione “tecnica” tra la realtà particolare che viene rappresentata attraverso tali categorie e la realtà storica generale, propria della fattività e creatività umane. In questo modo, tutta una serie di falsi opposti, che Taylor scambia per reali, va ripensata e riapplicata se si vuole raggiungere piena autocoscienza della nostra storia. L’astratta opposizione tra “religione” e “laicità” non può essere intesa come un reale contrasto tra due opposti momenti dello spirito umano. Si tratta di differenti momenti storici in cui lo spirito umano nella sua interezza ha cercato di rappresentare gradi di realtà differenti. Una cosa, quindi, è la dialettica come struttura di una realtà che si considera obiettiva e uguale in ogni contesto storico, un’altra è la dialettica come struttura di specifiche «realtà culturali» storicamente delimitate.
Un sistema di tal fatta, incapace di distinguere tra «gradi di realtà», e ciò vale sia sul piano metafisico sia su quello storico, non può far altro che trasformare la dialettica in un principio operante unicamente attraverso l’astratta negazione, come Croce aveva ben compreso. Ora, se è vero che «l’opposizione è l’anima stessa del reale»[29. Ivi, p. 56.], è anche vero che, nel sistema rigidamente dualistico di Taylor, la sintesi finale, come rivelazione di una realtà più ampia ed elevata, viene del tutto dimenticata e diviene un costrutto artificioso ottenuto attraverso singoli atti negativi. Una narrazione che pretenda di spiegare “tutti” i fatti storici tramite l’opposizione è irrealistica tanto quanto lo era il sistema di Hegel, che pretendeva di spiegare la realtà tutta mediante una mera dialettica degli opposti. Ci troveremmo nuovamente dinanzi a una sorta di intellettualistica classificazione, che è il limite individuato da Croce nella stessa dialettica hegeliana[30. Ivi, pp. 81-83.].
Nel sistema di Hegel, così come nella struttura storica di Taylor, siamo dinanzi a tre termini: A (o la religione), che è la tesi, B (o la laicità) che è l’antitesi, C (la “fede aperta”) che rappresenta la sintesi. In una così rigida ripresa della dialettica hegeliana, B auto-definisce la propria natura concettuale solo in opposizione ad A, mentre entrambi i termini sono definiti concettualmente solo nella loro risoluzione in C. Il problema fondamentale, che Croce ben mise in evidenza, è che tale costrutto astratto e intellettualistico non può valere se applicato, senza l’ulteriore aspetto della distinzione, alla realtà del mondo storico. Infatti, A e B sono conservati solo metaforicamente, mentre, in quanto astrazioni, non costituiscono affatto la definizione del reale, che resta effettivo soltanto nella sintesi. Il concetto concreto, così come il fatto storico concreto, dovrà quindi essere compreso e interpretato secondo un altro tipo di logica; altrimenti, si cadrà nel paradosso che Croce ritrova già argutamente in Lotze[31. Ivi, p. 91. Non perché il servo cala gli stivali al padrone allora il concetto di servo seguiterà a cavar gli stivali al concetto di padrone. Nello stesso modo, contro Taylor, non perché le religioni storiche si nutrono di un atteggiamento di fede allora il concetto di “religione” può essere identificato in toto con “l’atto di fede”.]. Laddove Taylor pretende di applicare la dialettica hegeliana rigidamente agli studi storici, la laicità moderna nasce come negazione e rigetto delle contraddizioni intrinseche alla cristianità premoderna. Ciò vuol dire che la laicità moderna rappresenta uno stadio “superiore” alla “religiosità” cristiana, quando invece, sul piano storico, si tratta di fatti storici di pari livello, espressione del divenire storico che è fondamentalmente frutto della creatività umana[32. Croce ha rilevato questo problema logico strutturale nella dialettica hegeliana (ivi, pp. 93-94). Per esempio: come si può considerare come regresso l’attività artistica dopo aver filosofato? E come si può considerare come attività inferiore l’estetica rispetto alla morale? La rigidità del costrutto teoretico hegeliano diviene incapace di distinguere significativamente tra “gradi di realtà” differenti. Allo stesso modo, Taylor è incapace di distinguere tra vari “gradi di realtà” storica, e pretende che concetti di classificazione sviluppati e prodotti in un contesto storicamente determinato siano vere definizioni dell’agire storico umano in senso generale.]. Chi potrebbe mai affermare che un individuo il quale, a seguito di determinati accadimenti della sua vita, decide di riabbracciare una religione prima abbandonata, starebbe rigettando uno stadio superiore d’umanità per ritornare a uno inferiore? Sarebbe un assurdo da un punto di vista filosofico e reale[33. Si possono anche accettare le opinioni personali di un individuo che considera l’essere religioso o laico come “migliore”. Ma come si può accettare un’analisi accademica che pretende di classificare un’intera epoca come “migliore” in virtù di alcune categorie astratte?].
La crociana «teoria dei gradi», unita alla critica a Hegel, rappresenta uno strumento interessante per rintracciare i limiti storiografici e concettuali della filosofia di Taylor. Come afferma Croce, «il concetto filosofico, l’universale concreto o Idea, com’è sintesi di opposti, così è sintesi di distinti»[34. B. Croce, Ciò che è Vivo e ciò che è Morto della Filosofia di Hegel, op. cit., p. 81.]. Ogni attività spirituale può contenere componenti concettuali che, pur essendone parte, non rappresentano un’identità col concetto inteso in senso generale. Entra, così, in gioco la dialettica dell’implicazione, in aggiunta alla dialettica dell’opposizione. Due concetti possono essere intesi come uniti benché contrapposti, ma sono sempre anche distinguibili non solo a livello concettuale. L’esempio dei concetti di “diritto” e “moralità”, presentato da Croce[35. Ivi, pp. 88-91.], è significativo. Se è pur vero che possiamo pensare il concetto di diritto senza il concetto di moralità, è anche vero che non possiamo pensare la moralità senza il diritto. La moralità implica il diritto e non vi è operazione morale, nella realtà, che non sia anche opera legislatrice. Tuttavia, i due fenomeni possono essere e sono ancora distinguibili sia sul piano concettuale sia su quello reale. Possiamo concepire un diritto senza alcun richiamo alla morale ed esistono leggi che non si curano della morale.
Proprio questo esempio mostra i limiti concettuali e storiografici di Taylor, quando pretende di identificare, in A Secular Age, la “religione” nel luogo della fede, dell’incanto e della trascendenza e la laicità nel luogo dell’immanenza, del disincanto e della razionalità scientifica. L’argomentazione di Taylor è incapace di distinguere un concetto di religione, intesa come definizione pratica di un dato fenomeno storico, da un concetto di “religiosità” più specifico, che indica un’attività dello spirito umano nella storia che può apparire in diversi contesti, non necessariamente “religiosi”. E, infatti, Croce adopera in un senso molto più liberale il concetto di “religiosità”, applicandolo a ogni attività spirituale che trascenda la semplice adesione ai costumi storicamente delimitati[36. Possiamo pensare, ad esempio, a come Croce descrive i movimenti razionalisti in Storia dell’età Barocca in Italia (Bari, Laterza, 1946). Essi sono definiti come «le chiese cattoliche della ragione», e Croce opera persino una similitudine di sostanza tra l’ordine gesuita e la massoneria.]. In La storia come pensiero e come azione, Croce dedica un paragrafo alla «storiografia religiosa»[37. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1966, pp. 200-203.], in cui afferma che ogni atto che trascende l’immediato interesse fisiologico-economico è da intendersi “religioso” in se stesso[38. Ivi, p. 200.]. Tale “religiosità” non è, perciò, intesa con riferimento alle religioni istituzionalizzate. Sebbene sia impossibile pensare il concetto di “religione” senza un richiamo alla “religiosità”, è pur vero che l’attività spirituale connessa a tale religiosità si presenta anche al di fuori della “religione” in senso stretto. La storia delle civiltà narra proprio il cammino delle attività spirituali orientate allo sviluppo di verità morali. Un processo educativo dell’essere umano fa sempre riferimento alle attività immaginifiche e prerazionali tipiche di un contesto storico, evocando l’importanza di un “sentimento del religioso” per il quale la “fede” assume caratteri e significati che si cercherà ora di descrivere.
Ogni religione implica la “fede”, e tuttavia l’attività spirituale che chiamiamo “fede” non si identifica mai totalmente col concetto di religione. La “fede” è la connessione a un senso più profondo delle cose, che sta a fondamento del nostro senso storico: è qualcosa che appartiene alla storicità umana e non a un solo stadio di essa. Ancora nella Storia come pensiero e come azione, Croce affermava che proprio il liberalismo, inteso come «forma di vita», è riconducibile a qualcosa di “religioso”. Anche il liberalismo ha ispirato il martirio, ha richiesto una presenza onnicomprensiva nella realtà sociale, ha proclamato la propria esclusività e necessità morale da un punto di vista storico-trascendentale. Come ogni atto di fede, anche il liberalismo proclama di rappresentare una verità immutabile ed eterna, inerente alla storia e alla vita umana, e usa i propri miti e simboli per ispirare il popolo[39. Ivi, pp. 229-30.]. Per questo motivo, secondo Croce, il liberalismo deve riconoscere il proprio diritto a lottare contro religioni opposte che sono “ideologie” talvolta totalitarie, e aspirare al dominio esclusivo all’interno della società, pur non esigendo forme di economia e di politica univoche o deterministiche[40. Ivi, p. 230.]. Tuttavia, proprio in quanto “rivale” delle religioni “opposte”, il liberalismo mostra di essere fondato sulla stessa “fede” richiesta dalle altre religioni senza che questa sia un possesso esclusivo delle chiese confessionali e istituzionalizzate.
In particolare, riveste estremo interesse l’articolo Fede e Programmi[41. B. Croce, Fede e Programmi, in «La Critica», 20 settembre 1911.], pubblicato sulla «Critica» nei primi anni Venti, in cui Croce trattava della fede come «attività morale generale», nel partito o nella società, fede che favorisce la realizzazione sul piano tecnico-giuridico di un «programma» politico[42. W. L. Adamson, Benedetto Croce and the death of ideology, in «The Journal of Modern History», vol. 55, n. II (Jun. 1983), p. 211.]. Proprio la “fede” è il fondamento indispensabile e necessario di una qualunque attività politica significativa. Senza di essa, l’individuo si troverebbe privo di guida morale all’interno del proprio contesto storico-sociale. Croce usa pertanto il concetto di “fede” in maniera molto più liberale di Taylor. La fede è un’attività morale universale che va tenuta distinta dalla “religione” in quanto fatto storico, sebbene sia da quest’ultima implicata. Tale sensibilità è stata anche alla base della critica crociana alla dialettica di Hegel.
In conclusione, il lavoro di Taylor rappresenta indubbiamente una pregevole ricostruzione storiografica e sociologica della transizione occidentale verso la modernità. Tuttavia, il suo rigido hegelismo inficia le aspettative finali del testo. La critica operata in questo breve studio, con la mediazione di Croce, va intesa come un avvertimento alla cautela nella riconsiderazione dell’opera del filosofo canadese. Si vuol dire che la storia occidentale non andrebbe compresa soltanto attraverso il rigido schema del “religioso/trascendente” contro il “laico/immanente”. Tale diade, che rappresenta una mera astrazione concettuale, è essa stessa il frutto di una particolare sensibilità storiografica sviluppatasi in epoca moderna, piuttosto che la descrizione di una realtà di fatto. Così come non è possibile ridurre il religioso al trascendente, non è nemmeno possibile ridurre la laicità all’immanente.
La modernità, quindi, non è solo «perdita di trascendenza», la quale semmai sempre esiste come una sorta di auto-trascendenza nel nostro pensiero morale, sociale e politico. Ciò che è cambiato con l’evo moderno è stata una specifica configurazione storica, un “modo di pensare” la trascendenza, che era stata in primo luogo espressione della cristianità e della religione.
Bibliografia
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(fasc. 13, 25 febbraio 2017)